“Il Concilio Vaticano II e la sua giusta ermeneutica alla luce della Tradizione della Chiesa” ha costituito l’oggetto di un importante Convegno di studi, organizzato dal 16 al 18 dicembre dall’Istituto dei Frati Francescani dell’Immacolata. Riportiamo un resoconto del convegno del prof. Fabrizio Cannone, che ne ha seguito i lavori.
Il dibattito si è recentemente acceso, anche sulla stampa, dopo la pubblicazione, avvenuta all’inizio di dicembre 2010, dello studio storico-sistematico sul Concilio del professor Roberto de Mattei (Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta, Lindau, Torino 2010). In questo contesto, il convegno dei Francescani dell’Immacolata ha rappresentato una eccellente sintesi delle ricerche storico-teologiche sul Concilio, sulle ermeneutiche cui ha dato luogo, sul valore dei suoi documenti ed anche sui suoi punti meno chiari e più problematici.
I lavori sono stati aperti il 6 dicembre da S. E. mons. Luigi Negri, vescovo di San Marino-Montefeltro e noto teologo e apologeta, che ha aperto i lavori spiegando brillantemente le cause della perdita dell’identità cristiana nel contesto della modernità occidentale. «L’uomo che il Concilio incontra – ha detto mons. Negri – porta sulle sue spalle il fallimento della modernità». Il prelato ha fatto notare che la cultura cristiana nell’epoca moderna si è dapprima scontrata con la cultura secolare, ma a poco a poco ha finito per essere assorbita da quest’ultima, scolorendo i suoi connotati e uniformandosi alle linee di pensiero del razionalismo e dell’illuminismo.
Il Concilio poteva rappresentare un’occasione propizia per ricentrare la cultura cattolica sulla Tradizione ma, in quanto minato da contrapposizioni, lotte intestine, letture secolarizzate e peregrine applicazioni, esso non ha potuto svolgere il suo ruolo, e nel post-Concilio ciò che ha prevalso è stata non la fede e l’identità, ma l’aggiornamento e l’adattamento alla sterile mentalità del mondo. Solo un ritorno all’identità potrà arginare la crisi epocale di fede che si registra da alcuni decenni.
Nella stessa mattinata ha preso la parola S. E. mons. Brunero Gherardini, grande esponente della scuola teologica romana, recente autore di due libri di capitale importanza, dedicati il primo al Concilio stesso (Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice 2009) e il secondo al concetto di Tradizione, dal punto di vista della teologia cattolica (Quod et tradidi vobis La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Casa Mariana Editrice 2010). «Il Concilio Vaticano II – ha affermato mons. Gherardini – non fu un Concilio dogmatico e neppure disciplinare, ma soltanto un concilio pastorale, e il genuino significato della sua pastoralità è ancora tra la nebbia». Nell’approccio al Concilio occorre distinguere quattro diversi livelli che esprimono tutti, ma con qualità teologica diversa, il suo supremo Magistero.
Accennare in questa sede alla gradazione suggerita da Gherardini significherebbe tradirne la precipua acribia teologica, così ci limitiamo a segnalare il fatto che, secondo questa esegesi, solo uno di questi livelli, corrispondente al terzo, comporta una incontestabile validità dogmatica, anche se solo di riflesso, dedotta da precedenti definizioni: questo livello coincide con le notevoli citazioni che il Concilio fa di dottrine già solennemente definite che trattano di temi di fede e di morale.
Gli altri ambiti del magistero conciliare, per la loro natura pastorale, per la loro intrinseca novità o per la loro contestualizzazione storica contingente, non comportano né l’infallibilità, né la definitività, e dunque richiedono un certo ossequio della mente, ma non «l’obbedienza della fede». L’errore di molti teologi del post-Concilio è stato proprio quello di dogmatizzare un Concilio che si volle pastorale, facendone altro rispetto a ciò che si prefisse chi lo convocò.
Nella seconda parte della mattinata, padre Rosario Sammarco FI, ha parlato della Formazione permanente del Clero alla luce della Presbyterorum ordinis. Con un linguaggio diretto e coinvolgente l’oratore ha mostrato come questa giusta indicazione conciliare si sia smarrita nei meandri del post-Concilio segnato da quella evidente rottura con la Tradizione causata, come direbbe Benedetto XVI, dalla “teologia moderna”.
Significativo il fatto, segnalato dal teologo, della scomparsa a partire dagli anni ’70 della discussione dei “casi di morale”: questa prassi importante consigliata da santi come Carlo Borromeo e che si generalizzò durante l’’800, costituendo un punto di riferimento per confessori e pastori d’anime, scomparve improvvisamente negli anni ’70 e fu perfino cancellata dal nuovo Codice del 1983. Segno di quanto la rottura e la discontinuità non furono solo tra pre-Concilio e Concilio, ma anche tra Concilio e post-Concilio.
Il post-Concilio però nel contraddire il Concilio, per esempio nell’uso del latino liturgico raccomandato dall’assise e disatteso nei fatti, non fu una “germinazione spontanea”, ma fu voluto e attuato malamente dalle autorità competenti, proprio per l’influenza della svolta antropologica della teologia e della religione stessa. Dopo padre Sammarco, ha tenuto una lezione magistrale il rev. prof. Ignacio Andereggen, docente alla Gregoriana e filosofo cattolico di primo livello.
Il professore ha mostrato con maestria l’essenza filosofica della modernità a partire dall’analisi di quattro autori fondamentali: Cartesio, Kant, Hegel e Freud. In tutti costoro, pur con differenze che li rendono assolutamente non omogenei, vi è la presenza di quel relativismo epistemologico che fu tipico tratto del cosiddetto “Rinascimento” e in parallelo il rifiuto della tradizione filosofica come tale.
Con questi autori, ogni volta ci si trova davanti ad un nuovo inizio, segno che la filosofia moderna e contemporanea, nel rigetto del patrimonio di pensiero più comune dell’umanità, non si fonda che su se stessa. Il rifiuto poi del pensiero scolastico e della metafisica ne è uno degli assi portanti. Quanto ha influito questa pseudo-filosofia sul Concilio? Andereggen non l’ha precisato ma è evidente che molti vescovi e soprattutto molti periti, specie di aria francese (Chenu, Congar, etc.) e tedesca (Rahner, Küng, etc.) ne erano notevolmente pervasi.
Da qui quell’insorgere, come Maritain segnalerà già nel 1966, a solo un anno dalla chiusura dei lavori conciliari, del “neo-modernismo” effettivamente più subdolo e più pericoloso dell’antico, anche perché meno esplicitamente assunto e dichiarato. Senza una retta filosofia, ha spiegato sapientemente Andereggen, è impossibile fare teologia: senza una teologia corretta poi, si corrompe anche la dottrina della fede.
Nel pomeriggio dello stesso giorno il prof. Roberto de Mattei ha mostrato nella sua relazione che il Concilio Vaticano II non può essere presentato come un evento che nasce e muore nello spazio di tre anni senza considerarne le profonde radici e le altrettanto profonde conseguenze che esso ebbe nella Chiesa. Il nesso tra Concilio e post-Concilio, ha affermato il prof. de Mattei, non è il nesso dottrinale tra i documenti del Concilio e altri documenti del post-Concilio.
È il rapporto storico, stretto e inscindibile, tra il Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1962 e il 1965, e il post-Concilio, in quanto evento che si svolge tra il 1965 e il 1978 e si protrae fino ai nostri giorni. Questo periodo, globalmente considerato, dal 1962 al 1978, anno della morte di Paolo VI, forma un unicum, un’epoca, che può essere definita come l’epoca della Rivoluzione conciliare, così come gli anni tra il 1789 e il 1796, e forse fino al 1815, costituirono l’epoca della Rivoluzione francese.
La pretesa di separare il Concilio dal post-Concilio, secondo de Mattei, è altrettanto insostenibile di quella di separare i testi conciliari dal contesto pastorale in cui furono prodotti. Nessuno storico serio, ma neanche nessuna persona di buon senso, potrebbe accettare questa artificiale separazione, che nasce da partito preso, più che da serena e oggettiva valutazione dei fatti. «Ancora oggi – ha concluso lo storico romano – viviamo le conseguenze della “Rivoluzione conciliare” che anticipò e accompagnò quella del Sessantotto. Perché nasconderlo? La Chiesa, come affermò Leone XIII, aprendo agli studiosi l’Archivio Segreto Vaticano, “non deve temere la verità”».
Lo storico francese Yves Chiron, la cui documentata relazione è stata letta da frà Juan Diego FI, ha poi parlato della volontà di certi vescovi e cardinali sotto Pio XI e Pio XII di convocare un nuovo Concilio o piuttosto di completare il Vaticano I, arrestato brutalmente dall’invasione di Roma del settembre 1870. I pontefici, pur assai interessati a queste proposte, le hanno infine respinte per evitare pericoli di frazionamento e “democratizzazione” dell’Assemblea deliberante. Interessanti i documenti portati alla luce dallo Chiron circa i temi che si intendevano trattare nell’eventuale Sinodo: essi erano simili a quelli poi proposti dalla Curia Romana sotto Giovanni XXIII, i quali in blocco furono respinti dal dibattito in aula per l’opposizione manifestata da certi influenti padri progressisti.
Il 17 dicembre la giornata è stata aperta da un’interessante relazione storica su Alcuni personaggi, fatti e influssi al Concilio Vaticano II del padre Paolo Siano FI, il quale ha mostrato come l’ottimismo pastorale verso l’uomo e verso il mondo suggerito dai testi conciliari è stato usato da varie lobbies come grimaldello per condizionare lo svolgimento e la ricezione del Vaticano II. L’autore ha documentato come i fenomeni di crisi dottrinale, spirituale, liturgica e missionaria del post-Concilio hanno i loro prodromi in alcune idee e azioni di veri Padri e periti dell’assise conciliare. Padre Siano ha proposto come “medicinale” alla crisi almeno due “farmaci”: una Mariologia “forte” (in linea con la Tradizione e il Magistero della Chiesa) e una liturgia più orientata (anche visibilmente) a Cristo Crocifisso.
Di seguito ha tenuto una relazione, concisa ma densa, il rev. prof. Giuseppe Fontanella FI dal titolo Il Perfectae caritatis e la vita religiosa. Dove hanno condotto gli esperimenti pastorali?. Secondo il relatore, il documento conciliare si situa in linea con lo sviluppo teologico raggiunto circa il tema della vita religiosa, ma tante realizzazioni successive sembrano aver ceduto allo spirito della secolarizzazione e dell’orizzontalismo. I religiosi in quest’ottica dovrebbero diminuire le pratiche propriamente religiose, e aumentare l’inserimento nel mondo, allontanandosi però in tal modo dallo spirito dei fondatori.
Ancora una volta i numeri parlano più che le analisi cervellotiche. Malgrado la tanto ripetuta “vocazione universale alla santità” gli istituti di perfezione hanno perso larga parte dei loro membri, soprattutto quelli che più hanno innovato rispetto ai loro tradizionali usi e costumi. Successivamente, S. E. mons. Atanasius Schneider, vescovo ausiliare in Kazakhstan, ha tenuto una profonda relazione sul senso pastorale del Concilio, mostrando, attraverso numerose citazioni, che nel Concilio esiste uno spirito teocentrico, apostolico, penitenziale e missionario, anzi la missionarietà ne sarebbe quasi la nota caratteristica.
È innegabile che il Vaticano II, letto in quest’ottica, abbia una gran quantità di bei testi di spiritualità e di religiosità, di dottrina omogenea alla grande Tradizione della Chiesa. Il problema secondo il Prelato sta nella cattiva interpretazione di certi suoi passaggi meno chiari: è evidente altresì che quando si parla di interpretazione, specie se universale e autorevole, non si può far riferimento ad una scuola particolare, come per es. quella di Bologna, ma ci si deve riferire alle commissioni post-conciliari e agli stessi episcopati.
E dunque su costoro ricade la responsabilità di certe letture minimaliste e arbitrarie. In ogni caso, mons. Schneider ha coraggiosamente chiesto un nuovo Sillabo degli errori avvenuti nella interpretazione del Concilio e se questo Sillabo un giorno sarà pubblicato dalla Massima Autorità di certo esso gioverà a tutti i cattolici.
Una conferenza di grande valore teologico è stata poi quella di padre Serafino Lanzetta, giovane teologo dei Francescani dell’Immacolata. Padre Lanzetta ha fatto uno status quaestionis sull’approccio teologico al Vaticano II attraverso l’analisi della ricezione del Concilio in varie e diverse scuole teologiche post-conciliari. Quello che è emerso in sede di conclusioni è che il Concilio, sulle cui rette intenzioni non è dato di dubitare a nessuno, ha però favorito le opposte ermeneutiche post-conciliari con l’aver abbandonato, o almeno tralasciato, un approccio metafisico alle realtà della fede e della morale.
Ciò che il Concilio insegna, lo insegna usando un modo descrittivo e spesse volte solo allusivo, e questo ha permesso ai novatori di estrapolare conclusioni teologiche aberranti di cui il Vaticano II non è responsabile, se non a causa della poca chiarezza e della poca precisione terminologica.
Le numerose ermeneutiche in atto e le variegate griglie interpretative, per esempio, erano impossibili da applicare ai testi del Vaticano I, e se sono state applicate con relativa facilità al Vaticano II, ciò è avvenuto per un certo rigetto del linguaggio scolastico tipico della tradizione teologica precedente detta sprezzantemente “manualistica”.
Ad essa si volle sostituire il “resourcement” (De Lubac) cioè il ritorno ai Padri: ma i Padri in molti punti di teologia e di filosofia ne sapevano meno di noi, stante il progresso teologico nella comprensione della immutabile Rivelazione Divina e l’apporto decisivo del Tridentino e del Vaticano I in fatto di dogmatica. Il ritorno ai Padri e alle loro formule, alla liturgia dei primordi e alla Scrittura sa tanto di biblicismo, di fideismo e di archeologismo: tutto ciò che respingeva profeticamente Papa Pio XII nell’Humani generis (1950).
Ha tenuto quindi un’importante relazione il rev. don Florian Kolfhaus, della Segreteria di Stato. Il teologo tedesco ha, svolto una critica “dall’interno” ai documenti conciliari mostrando che il loro vario e differenziato valore magisteriale corrisponde alla loro maggiore o minore autorevolezza, la quale a volte si riduce al mero precetto disciplinare. Il Concilio Vaticano II voleva essere un concilio pastorale, cioè orientato alle necessità del suo tempo, rivolto all’ordine della prassi.
Esso non affermò nessun nuovo dogma, nessun solenne anatema, e promulgò differenti categorie di documenti rispetto ai concili precedenti; e ciononostante il Vaticano II deve essere compreso nella continuità ininterrotta del Magistero, poiché esso fu un concilio della Chiesa legittimo, ecumenico e dotato della relativa autorità.
Alcuni suoi documenti, vale a dire decreti e dichiarazioni, come Unitatis Redintegratio sull’ecumenismo, Nostra Aetate sulle religioni non cristiane e Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa, ha sottolineato don Kolfhaus, non sono né documenti dottrinali in cui si definiscono verità infallibili, né testi disciplinari che presentano norme concrete.
In questo sta la grande novità del Vaticano II: contrariamente a tutti gli altri concili, che esponevano dottrina o disciplina, esso supera queste categorie. Si tratta di una esposizione dottrinale che non vuole tuttavia dare definizioni o delimitazioni in funzione contraria a degli errori, ma è rivolta all’agire pratico condizionato dal tempo. Il Concilio non ha proclamato alcun “nuovo” dogma e non ha revocato alcuna “vecchia” dottrina, ma piuttosto ha fondato e promosso una nuova prassi nella Chiesa.
La proposta di don Kolfhaus è stata quella di denominare la sfuggente espressione di magistero pastorale “munus predicandi”, ben delimitata rispetto al “munus determinandi”. Questo significa: annuncio della dottrina, non definizione dottrinale; legato al tempo e conforme al tempo, non immutabile e non sempre uguale; vincolante, ma non infallibile.
Il 18 dicembre, ultimo giorno dei lavori, S. E. mons. Agostino Marchetto, parlando su Rinnovamento all’interno della Tradizione, ha ribadito la contraddittorietà delle analisi della scuola progressista di Bologna dei vari Dossetti, Alberigo, Melloni, etc., negando che per quanto riguarda il rapporto Concilio – post-Concilio, si possa parlare di un post hoc propter hoc. Resta da capire come è stato possibile ad una scuola teologica ultra-minoritaria di imporsi quasi ovunque nell’insegnamento universitario cattolico, nelle facoltà di teologia e di storia ecclesiastica, nelle riviste più lette dai teologi, dai pastori e perfino da fedeli.
Il rev. mons. prof. Nicola Bux, da parte sua, ha egregiamente parlato della scomparsa dello ius divinum nella liturgia: anche questa scomparsa, data dal Vaticano II e dall’immediato post-Concilio. Il liturgista pugliese ha notato che la Sacrosanctum Concilium permetteva una interpretazione in conformità colla tradizione liturgica cattolica, espressa ancora nel 1963 dalla Veterum Sapientia di Giovanni XXIII, ma nei fatti prevalse la logica della desacralizzazione e dell’innovazione.
Infatti, tra il 1965 e il nuovo messale del 1970 vi sono state, da parte di organi diversi, come la Congregazione della fede e quella del Culto, delle circolari e delle autorizzazioni non solo diverse ma perfino contraddittorie e questo ha prodotto un caos liturgico da cui l’intera Chiesa non si è mai più ripresa. Don Bux ha incoraggiato i presenti alla duplice fedeltà alla tradizione liturgica, riabilitata dal recente motu proprio Summorum Pontificum, e all’esempio del Sommo Liturgo che a poco a poco sta riportando ordine e decoro nella celebrazione del Culto Divino.
Il neo-cardinale Velasio De Paolis, illustre canonista, ha concluso con vibranti parole in difesa del diritto ecclesiastico, giudicato negli anni del post-Concilio addirittura anti-evangelico. La legge invece è fonte di libertà e di sicurezza, e l’anomia (assenza di legge o di legge certa) crea malintesi, ingiustizie, discordie e rotture. Quando il diritto divino e canonico tornerà a regnare tra gli ecclesiastici l’attuale confusione generalizzata si attenuerà e si aprirà una nuova fase per la Chiesa.
I lavori, sapientemente moderati, nel corso dei tre giorni, dal padre Alessandro Apollonio FI, sono stati chiusi da mons. Gherardini, che ha ribadito come il Concilio Vaticano II non fu un unicum, un “blocco dogmatico”. Fu un Concilio pastorale e sul piano pastorale va collocato e giudicato, senza forzature ermeneutiche, che ne impongono la dogmatizzazione.
È questo il messaggio conclusivo del convegno romano destinato certamente a fare data, per il numero e la qualità dei relatori e degli ascoltatori, tra i quali si distinguevano S. Emin. il cardinale Walter Brandmüller e il segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, S. E. mons. Guido Pozzo. Fu del resto proprio il cardinale Ratzinger a dichiarare già nel 1988 davanti ai vescovi del Cile che «il Concilio stesso non ha definito alcun dogma e volle coscientemente esprimersi a un livello inferiore, come concilio puramente pastorale».
Tuttavia, proprio questo “concilio pastorale” – proseguiva il cardinal Ratzinger – viene interpretato «come se fosse quasi un superdogma, che priva di significato tutti gli altri concili».