Convenzione di Istanbul, donne e dubbi

La Nuova Bussola Quotidiana, 30 maggio 2013

di Tommaso Scandroglio

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Anche sull’onda dell’emozione provocata da recenti e ripetuti fatti di cronaca, la Camera ha approvato martedì scorso all’unanimità la “Convenzione di Istanbul per il contrasto alla violenza sulle donne e alla violenza domestica” che il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa aveva a sua volta approvato nel maggio del 2011. Adesso la palla passerà al Senato. La convenzione per diventare esecutiva, e vincolante, deve essere ratificata almeno da dieci stati. Per ora siamo a quota cinque con l’Italia.

La convenzione nella sua sostanza dice cose condivisibili, ma all’art. 3 spiegando cosa si debba intendere per violenza fa riferimento “a tutti gli atti di violenza fondati sul genere”. Successivamente al paragrafo C dello stesso articolo si dà anche la definizione di “genere”: “Ci si riferisce a ruoli, comportamenti, attività e attributi socialmente costruiti che una determinata società considera appropriati per donne e uomini”. Dunque l’essere donna e uomo non è un dato biologico a cui deve seguire una conformità psicologica, bensì un dato convenzionale (ruoli che “una determinata società considera appropriati”), un costrutto artificioso nato da un consenso diffuso (“attributi socialmente costruiti”).

Ma se la convenzione riguarda la violenza sulle donne perché inserire nel testo anche il concetto di genere? Il termine “donna” non si presta a fraintendimenti, perciò parlare di “genere” è superfluo ed anzi crea confusione. Superfluo forse per noi, non per i cultori dell’ideologia “gender” che hanno visto in questo documento una ghiotta opportunità da non perdere per infilarci dentro qualche loro idea sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere. Se ne era accorto anche il governo Monti il quale, approvando la Convenzione ancora da rettificare, depositò una nota critica presso il Consiglio d’Europa proprio su questo punto: “La definizione di genere contenuta nella Convenzione è ritenuta troppo ampia e incerta e presenta profili di criticità con l’impianto costituzionale italiano”. Tale rilievo è confluito anche in una nota inserita nell’ordine del giorno dei lavori alla Camera: in pratica si dice che la parola “genere” sarà intesa secondo la nostra Costituzione: uomo e donna. Resta però il fatto che la nota non potrà modificare il contenuto della Convenzione – e quindi la parola “genere” rimarrà nel testo – e sarà sempre soggetta a una reinterpretazione se la maggioranza parlamentare lo vorrà.

L’operazione in realtà è stata assai furba: proporre una convenzione che certamente tutti i paesi avrebbero approvato (più di una ventina gli stati che l’hanno approvata ma non ancora resa esecutiva) – chi non è contro la violenza delle donne? – per poi far passare ciò a cui si tiene davvero: la cultura di “genere”. La solita pillola indorata assai letale. Un cavallo di Troia efficace se andiamo a leggere qua e là l’articolato della Convenzione.

Ad esempio il comma 3 dell’art. 4 ci fa capire che il termine “genere” non è usato come sinonimo del termine “sesso”, in sostituzione di questo, ma possiede un suo autonomo significato: “L’attuazione delle disposizioni della presente Convenzione da parte delle Parti contraenti […] deve essere garantita senza alcuna discriminazione fondata sul sesso, sul genere, […] sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere”. Quindi per gli estensori della convenzione il sesso “maschio-femmina” è cosa diversa dal “genere”, e questi due lemmi sono poi differenti dall’ “orientamento sessuale” e dall’ “identità di genere”.

L’art 14 comma 1 invece ci rivela che la lotta contro la violenza sulle donne è solo una parte della più ampia strategia posta in essere dalla convenzione, la quale mira ad indottrinare le nuove generazioni secondo i principi omosessualisti: “Le Parti intraprendono, se del caso, le azioni necessarie per includere nei programmi scolastici di ogni ordine e grado dei materiali didattici su temi quali la parità tra i sessi, i ruoli di genere non stereotipati”. Il papà maschio che fa il papà e la mamma femmina che fa la mamma state pur sicuri che passeranno come “ruoli di genere stereotipati” e dunque esclusi da qualsiasi sussidiario delle elementari.

Forse il vero DNA della convenzione potrebbe essere contenuto nell’art. 6: “Le Parti si impegnano a inserire una prospettiva di genere nell’applicazione e nella valutazione dell’impatto delle disposizioni della presente Convenzione”. Altro che violenza sulle donne, qui quello che importa è leggere ogni azione di discriminazione con gli occhiali della cultura “gender”.

A riprova che il tema sulla violenza sulle donne è preso a prestito dalla convenzione in modo pretestuoso ci sono anche i fatti. Domanda politicamente scorrettissima: ma siamo certi che il femminicidio sia davvero un’emergenza sociale? A dar retta ai media gli omicidi sulle donne sono in strabiliante aumento e il fenomeno starebbe dilagando. In realtà quello che è in aumento è solo l’attenzione di giornali e Tv, non il numero di omicidi.

Rimandiamo al seguente passaggio dell’articolo di Riccardo Cascioli dal titolo “Donne uccise, ecco cosa fare” pubblicato sulla Nuova Bussola a dicembre: “Contrariamente a quanto si sarebbe portati a pensare, gli omicidi nei confronti delle donne sono in diminuzione, almeno a quanto affermano i dati dell’Istat: in questo 2012 le vittime femminili alla fine supereranno di poco le 120 unità, ma nel 2010 erano state uccise 156 donne, 172 nel 2009 e ben 192 nel 2003, che rappresenta il picco degli ultimi dieci anni. Rispetto al totale degli omicidi le vittime donne rappresentano circa il 30%”.

I dati ricordati da Cascioli, che trovano una significativa eco in un articolo dal titolo “Femminicidio, i numeri sono tutti sbagliati” di Fabrizio Tonello pubblicato ad inizio maggio sul Fatto Quotidiano, e vengono confermati dai vari rapporti sulla criminalità redatti dal Ministero dell’Interno. In particolare nel Rapporto pubblicato nel 2011 si afferma che il tasso di omicidi in cui la vittima è donna è in crescita, ma non così il numero assoluto di omicidi sulle donne: “La crescita dipende da una relazione ben nota agli studiosi, per la quale la quota di donne sul totale delle persone uccise cresce al diminuire del tasso di omicidi. Questo accade perché, mentre il tasso di omicidi dovuto alla criminalità comune e a quella organizzata è molto variabile, gli omicidi in famiglia − la categoria in cui le donne sono colpite con maggiore frequenza − è invece più stabile nel tempo e nello spazio”.

Insomma se il numero di omicidi totali diminuisce e quello che interessa le donne diminuisce di poco o rimane stabile, la percentuale di “femminicidi” risulta in aumento. A tale proposito sempre il Ministero dell’Interno in un rapporto di qualche anno fa così appuntava: “È condivisa l’idea che determinate condizioni di ‘debolezza’, dovute al sesso femminile o all’età avanzata, aumentino la vulnerabilità e quindi la probabilità di essere vittima di un reato violento come l’omicidio. Al contrario, dai dati emerge che più frequentemente le vittime di omicidio sono maschi”.

Si badi bene: anche un solo cadavere grida vendetta al Cielo e, banale a dirsi, occorre lo sforzo di tutti perché gli atti di violenza sulle donne diminuiscano sempre più. Ma quello che qui vogliamo sottolineare attiene ad un altro aspetto e riguarda la strategia in atto: gonfiando il fenomeno ad arte, facendolo percepire per quello che non è, si creano le premesse culturali per mirare ad altro.

Se facciamo credere che le donne cadono come mosche sarà più facile far passare leggi per la tutela del “genere”, cioè leggi per incoraggiare l’omosessualità. La Convenzione di Istanbul in buona sostanza è un ulteriore tassello di quel mosaico culturale che vuole stravolgere l’antropologia naturale e sostituirla con una inventata a tavolino, dove una donna biologica può diventare un “uomo” e un uomo una “donna”.

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