di Mauro Leonardi
Qual è la parola sulla pace che solo il cristiano può dire? Tutti sappiamo che, in estrema sintesi, lo specifico cristiano è il segno della Croce: quel gesto che tracciamo sul nostro corpo dicendo con le labbra «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen». In quella assoluta semplicità ci sono i due misteri principali della nostra fede: il mistero di Dio Uno e Trino, e il mistero del Verbo che si incarna morendo e risorgendo. E proprio alla croce ci conduce il Vangelo se lo interroghiamo a proposito di quale sia il cammino della pace.
Noi infatti pensiamo esattamente il contrario; siamo convinti di essere affaticati e oppressi proprio a causa delle contrarietà grandi o piccole, ovvero dalle croci: non sospettiamo minimamente di essere ristorati dalla croce. Nella tradizione cristiana si è soliti chiamare questo radicale cambiamento con il termine dì conversione. Dunque, ecco la parola che solo il cristianesimo può dire: Dio può dare la pace solo se ci conveniamo.
Il protagonista è Dio
Conversione. Quante volte l’abbiamo sentito dire? Eppure spesso non è cambiato proprio nulla. Sappiamo, è dottrina cattolica chiaramente definita che la grazia ha l’assoluta priorità. Ciò è vero sia per la conversione iniziale, che per quella continua: la grazia precede, accompagna e segue in ogni passo. Il protagonista non è il mio sforzo umano e la mia volontà, ma Dio. che suscita e richiede la mia corrispondenza. È sempre la grazia che ci previene e ci invita a pregare sinceramente, a confessarci bene.
La confessione, che è veicolo fondamentale di conversione, non è il primo passo. È lo Spirito Santo che ci convince di peccare: la conversione non è frutto del lavoro «solo umano», per quanto ben fatto, della nostra corrispondenza alla Grazia. Tutto ciò è parte della dottrina di sempre, della fede cattolica. Nelle prossime righe però, vogliamo mettere a fuoco un aspetto, solo un aspetto, che riguarda proprio la nostra corrispondenza all’azione della grazia, che sappiamo essere sempre abbondante.
Vogliamo parlare di una verità semplice e tremenda: a volte devo avere il coraggio di dirmi che io non voglio affatto convertirmi. Per farmi capire userò un esempio. Ho letto da qualche parte che i migliori psicoterapeuti dicono che le persone che vanno da loro per essere curate, a volte, in realtà, non vogliono realmente essere curate. Quello che cercano è un sollievo. Una cura sarebbe troppo dolorosa.
Quei medici cioè, mi viene da pensare, paragonano i malati a bimbi che si trastullano con i loro giocattoli e che vanno da loro solo per farsi riparare l’orsacchiotto quando si e rotto. È vero che affermano di voler guarire, cioè di voler uscire dall’asilo e di voler diventare grandi, ma in realtà non credono a quello che dicono. E finche si rimane in quell’atteggiamento, non si può essere curati, non si può finché si desidera solo che vengano aggiustati i propri giocattoli rotti.
Ridatemi il mio lavoro. Ridatemi i miei soldi. Ridatemi il mio amore. Ridatemi la mia reputazione, il mio successo. Ecco i giocattoli. Se ci pensiamo bene, che cos’è la conversione? Non e altro che scoprire che quando abbiamo Dio abbiamo tutto: liberarci dai giocattoli. Ma questo è proprio quello che non vogliamo. Sei andato male all’università? Che t’importa, tanto hai Dio. La tua fidanzata ti ha lasciato? Che t’importa, tanto hai Dio. Hai perso il lavoro, i figli, il marito, la salute? Che t’importa, tanto hai Dio.
Che m’importa? Scherziamo! Io voglio che mi siano ridate la moglie, la salute, i figli, il successo. Io voglio avere una vita «normale». Come tutti. Una vita in cui possa, come un bimbo, trastullarmi innocentemente con le mie cose. Ma il santo, quando ci parla di conversione, non ci parla di questo. Ci parla di Dio e dice che chi possiede Dio non manca di nulla. Chi possiede Dio ritiene il resto come un nulla. È un nulla. Ah sì? Beh, allora mi sono sbagliato. Non dovevo bussare a questa porta. Grazie per il disturbo, ma non mi interessa. Ecco qual è a volte il nostro vero atteggiamento verso la conversione.
Ecco perché la verità tremenda è che, spesso, io non voglio convertirmi.
L’inquietudine che ci guarisce
A volte l’azione di Dio avviene attraverso cose che ci inquietano. In quei casi, è necessario scoprire pregando che non dobbiamo guarire da quella inquietudine ma è quell’inquietudine che ci guarisce. Quell’inquietudine, l’unica quiete che vuole turbare è delle cose della nostra vita che dobbiamo cambiare. «Non dobbiamo guarire dall’inquietudine, ma è l’inquietudine che ci guarisce».
Quest’affermazione, paradossale ripeto, si comprende se viene letta alla luce della parabola del figliol prodigo, considerata per eccellenza quella della conversione. È successo quello che tutti sappiamo ed è arrivato il momento nel quale il primo dei due figli, quello «prodigo», apre gli occhi sulla sua situazione. Il Vangelo di Luca dice: «Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: Quanti, salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati. Sì alzò e tornò da suo padre» (Le 15, 14-20).
Vediamo da soli che la conversione radicale, che avviene nel figlio, non deriva per nulla da una riflessione su quello che è giusto o sbagliato, su ciò che è bene o male, sulla necessità di essere generosi e su quanto sia brutto essere egoisti. Niente di tutto ciò. Per carità, queste sono tutte cose molto importanti, ma le si può veramente capire solo dopo che ci si è convertiti. Ai fini della conversione non servono praticamente a nulla.
La conversione viene descritta esattamente così: «Ritornò in sé e disse: Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!». È come un risveglio, è una nuova comprensione. Ritornò in sé stesso, cioè «capì». A un certo punto a questo giovane uomo cadono le scaglie dagli occhi, e si rende conto che la vita che sta conducendo gli fa male.
È come se un pesce d’acqua dolce capisse che vivere nell’acqua salata gli fa male e quindi decidesse di lasciarla. Immaginiamo che un pesce di un grande fiume, un grande fiume americano o africano, arrivi per sbaglio alla foce e continui a nuotare in un’acqua che, con l’ addentrarsi nell’oceano, diventa sempre più salata. Che cosa farebbe a un certo punto? Quello che faremmo tutti: tornare indietro. Che cosa diremmo di un pesce che non lo facesse? Che è strano, che è malato. Che il suo atteggiamento è incomprensibile. Ecco, il figliol prodigo è come un pesce d’acqua dolce che, resosi conto di nuotare in un liquido sempre più salato, ha deciso di invertire la rotta. Appunto di convenirsi.
Chiunque, leggendo la parabola, direbbe che sarebbe ben strano se il figliol prodigo non lo facesse. Sarebbe come un pesce d’acqua dolce che, inspiegabilmente, stando sempre peggio, continuasse a nuotare verso l’oceano. Gesù insegna qualcosa del genere anche in altre due parabole su che cos’è il regno di Dio.
«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13, 44-46).
Anche in questi due casi il cambiamento non avviene grazie alla riflessione su che cosa sia essere generosi, o distaccati dai beni, perché non si può dire che l’atteggiamento degli uomini che vendono tutto per comprare il campo sia di quel tipo. Sono semplicemente furbi. Intelligenti. Per essere esatti hanno il comportamento di chi sa approfittare del colpo di fortuna che hanno avuto. Pagano dieci un campo che vale diecimila; pagano cento una perla che, collocata sul giusto mercato, vale centomila.
Quanto abbiamo visto finora, evidenzia che la conversione può essere descritta come un’azione che fa vivere meglio e fin da subito chi la compie. Un gesto che è nel proprio interesse. Il figliol prodigo della parabola sta per morire di fame ma, attraverso la conversione, cioè attraverso il ritorno alla casa del padre, si salva la vita. L’uomo che compra il campo e il mercante che acquista la perla vendono entrambi tutto quello che hanno e così, fin da subito, accrescono il loro patrimonio
Creatore & Padre
A queste considerazioni, però, si può facilmente ribattere dicendo: se le cose stanno così, perché sono così pochi quelli che si convertono? Lo capiremo, se riflettiamo con calma su quelle parole che abbiamo già scritto: «Non è dall’inquietudine che dobbiamo guarire ma è l’inquietudine che ci guarisce».
Lo smarrimento della pace non è il nostro nemico peggiore ma il nostro miglior amico. L’inquietudine è un sintomo. Per capirlo basta un esempio. Se io avessi la febbre a trentotto, mi curerei. Starei a casa al caldo, magari anche a letto, e mi curerei. Non andrei al lavoro, e curerei l’influenza. Naturalmente non curerei la febbre, ma l’influenza. La febbre è un sintomo, un utilissimo segnale che il corpo mi invia.
La metafora della febbre può essere applicata all’inquietudine e alla mancanza di pace. Se provo angoscia mentendo, perché mentire? Dio è il Dio della verità e in lui trovo la pace. Però, lo vediamo, spesso non è così: molti sono quelli che mentono e continuano a scegliere l’angoscia. Perché? È semplice: quello che ho detto poche righe più sopra riguardo all’influenza non è vero: noi, quando abbiamo trentotto, spesso non ci curiamo. Sappiamo che dovremmo farlo, consigliamo a tutti di farlo, ma noi non lo facciamo.
Il motivo è che la sofferenza che proviamo andando a lavorare con un po’ di febbre, non è nulla rispetto alla sofferenza che temiamo di provare nell’eventualità di venir licenziati, o di non fare un esame, o di scoprire che i miei colleghi, o nostro marito, nostra moglie, i nostri figli possono fare tranquillamente a meno di noi. Gli esempi potrebbero essere molti.
In realtà quindi, è solo una verità parziale affermare che non diamo retta alla sofferenza dovuta alla febbre. Spesso la verità completa è che c’è un’altra angoscia ben più importante da affrontare, rispetto alla quale quella della febbre influenzale è una bazzecola. Convenirsi è possibile se ci si rende conto delle inquietudini profonde, senza nome, che ci avvinghiano. Fino a quando questo non succede, ecco che farò finta di non avere la febbre. Andrò avanti senza ascoltare.
L’esempio della febbre ci aiuta anche a capire un po’ meglio che cosa significa essere bambini. I bambini che hanno la febbre a trentotto, infatti, stanno a letto. Sono ben contenti di farsi fare le coccole da mamma e papa e di non andare a scuola. I bambini non provano nessun senso di colpa nel curarsi l’influenza e possono avere tutte le «ricadute» che vogliono. Non devono dimostrare niente a nessuno e l’unica paura che hanno è quella di essere abbandonati dai genitori. Se quella non c’è, non temono nulla.
Ecco perché Gesù dice: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3). Siamo arrivati al punto. Prima abbiamo detto che la conversione è facile per quelli che la scelgono. Adesso possiamo aggiungere che è molto difficile sceglierla finché non si scopre che noi siamo bambini, ossia che Dio è creatore e Padre.
È proprio questo il pensiero che da forza al figlio prodigo: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre!». Quel giovane, in mezzo alla terribile carestia, che si abbatte sul paese, pensa che suo padre sia più forte della carestia. Stima infinitamente suo padre e pensa che sia più forte e previdente delle avversità. Questo significa che ci si può convertire solo quando si scopre di essere figli, cioè bambini.
E così abbiamo il nostro pesciolino d’acqua dolce che, pur sentendo che l’acqua diventa sempre più salata, continua ad allontanarsi dalla foce e a immergersi nel mare. Sperimenta sofferenza, sta sempre peggio, ma il meccanismo di correzione non scatta. Per qualche misteriosa ragione, ritiene che cambiare la direzione del suo movimento e tornare verso la sorgente possa solo portarlo verso il peggio. Il male reale che sta sperimentando è un po’ meglio del peggio immaginario che è convinto di stare fuggendo. Per qualche motivo le situazioni più temute sono quelle sconosciute.
L’unico modo che conosco di risolvere questo perverso meccanismo è la consapevolezza che Dio è Creatore e Padre. Insisto sull’opportunità di affiancare le due verità di fede della creazione e della filiazione divina, perché nostro Padre Dio è un Padre che gioisce della nostra vita, tanto è vero che l’ha fatta. È proprio lo stesso ordine di verità alle quali abbiamo fatto riferimento quando abbiamo detto che il figliol prodigo si rende conto che la vita che sta conducendo «gli fa male».
Naturalmente non bisogna confondere la salute fisica e psicologica con quella spirituale della salvezza eterna, ma quanto voglio sottolineare è che la paternità divina è in continuità con la creazione. Come il neonato piange se perde il contatto con i genitori, così si rassicura quando viene di nuovo preso in braccio. Forse il nostro pesciolino non riesce a riconoscere che quanto gli accade gli fa male perché si sente un apolide, uno senza nessuno, un esiliato che ovunque si trovi è un estraneo.
La soluzione sarà scoprire che, a meno che non lo si voglia liberamente, non siamo fuori dall’abbraccio di un Dio nostro Padre e nostro Creatore. Ciò è possibile se scopriamo il modo in cui il nostro Dio, nostro Padre e nostro Creatore, ci viene incontro, esaudendo veramente i nostri più profondi desideri ma in un modo sorprendente e misterioso. Abramo è angosciato perché il suo sogno di avere un figlio pare che non si realizzi: «Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado senza figli» (Gn 15, 2). Il Signore gli risponde: «”Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle” […] “Tale sarà la tua discendenza”» (Gn 15, 5).
Sappiamo tutti che questa promessa si realizzerà passando attraverso il dramma del sacrificio di Isacco. Nella scrittura ci sono molti esempi del genere. Ne vogliamo citare solo un altro, ed è la promessa di Cristo a Pietro quando Gesù dice al pescatore di Galilea: «Non temere; d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Le 5, 10).
Quelle parole, non dimentichiamolo, vengono pronunciate dopo che è avvenuta la prima pesca miracolosa. Il sogno di un pescatore è pescare. Ed è proprio questo, quello che Cristo gli vuole dire. Gli vuole dire questo ma non solo questo. «Pescatore di uomini»: per noi che veniamo dopo è chiaro che cosa significa. Vuol dire apostolo, apostolato, Chiesa, e così via. Ma qui siamo all’inizio della vita pubblica di Gesù.
Pietro sta compiendo faticosamente i primi passi dietro a Cristo. Quello che Gesù vuol dire è sicuramente quello che Pietro può capire anche se non è solo quello. E Pietro può capire un sì esistenzialmente pieno e veritiero al desiderio profondo del suo cuore. A quel desiderio che quella notte non era stato esaudito e che perciò gli aveva procurato l’inquietudine e l’angoscia che prova ogni uomo che deve mantenere la propria famiglia con il lavoro e che fallisce.
È vero, quelle parole di Cristo hanno anche un aspetto misterioso: «pescatore di uomini». Pietro può pensare solo che sia un modo di Cristo per esprimere qualcosa di ancor più bello. Qualcosa di straordinariamente traboccante. Di inimmaginabile. Ma le parole di Cristo, lo sappiamo, riguardano non solo i desideri che conosciamo, ma anche quelli più misteriosi. Quelli per i quali noi stessi non troviamo parole.