Dal sito Il Giudizio cattolico 21 maggio 2014
Ci sembra importante poter offrire un modesto scritto per sapere come orientarsi in merito ad alcuni punti di indiscussa attualità. Ci riferiamo a punti che hanno ovviamente relazione con la vita della Chiesa e con alcune cose di cui si discute in merito alla vita della Chiesa e al suo insegnamento ordinario.
di Corrado Gnerre
Tre precisazioni:
1. Lo stile utilizzato è quello della domanda-risposta perché più chiaro, più semplice, ma anche più capace di facilitare la memorizzazione.
2. Lo stile utilizzato è quello di affermare la verità e di confutare l’errore, senza indulgere in polemiche nei confronti di affermazioni singole e di persone in particolare; non perché ciò non sia lecito. Certamente il “rimprovero evangelico” ha una sua legittimità (in alcuni casi perfino doveroso) nei confronti di chiunque (anche nei confronti delle autorità), ma, per evitare equivoci e scandali di sorta, se la polemica diretta non è necessaria, è sempre bene astenervisi.
3. Lo stile è volutamente semplice e colloquiale. I problemi sono seri, ma la gravità dei nostri tempi sta nel fatto che questi problemi sono problemi di tutti, che si ripercuotono negativamente su tutti, dall’intellettuale al semplice fedele.
Si sente spesso dire che il cristianesimo sia unicamente una “esperienza e che bisognerebbe soprassedere sulla conoscenza della verità. È giusto?
No, non è corretto parlare in questi termini.
Il Cattolicesimo non è riducibile ad esperienza, ma è verità che produce e giudica esperienza. Non è l’esperienza che giudica la verità, bensì è la verità che giudica l’esperienza. Facciamo un esempio molto semplice, se io dico: sono cristiano perché mi sento felice di esserlo … come la mettiamo con il musulmano o con il testimone di geova che può ovviamente rispondere: anch’io sono felice di essere quello che sono?
Certamente è importante il riscontro dell’essere cristiano nella propria vita, ma non è determinante. Come abbiamo detto prima, è la verità che giudica l’esperienza, non il contrario. Identificare Gesù con la felicità non è affatto sbagliato, anzi è verissimo, ma non basta. Cristo è la felicità perché è la Verità. Si sa che oggi non è molto efficace un metodo ben strutturato come quello tomista che parte dalla centralità della verità, mentre può essere più persuasivo quello agostiniano che parte dalle esigenze esistenziali dell’uomo, ma ciò non vuol dire che anche partendo dalle aspettative dell’uomo e dal suo bisogno di senso non si debba poi completare l’annuncio facendo capire la priorità logica della Verità.
Facciamo un esempio: l’ideale è vedere un film partendo dall’inizio; ciò non toglie però che lo si può capire anche se si arriva al cinema a proiezione in corso; poi, una volta che lo si vede per intero aggiungendo la parte iniziale a cui si è mancati, la trama diviene comprensibile.
Indubbiamente l’uomo di oggi non è quello del XIII secolo, è un uomo completamente destrutturato che – appunto – deve essere prima di tutto coinvolto attraverso i bisogni esistenziali; ma ciò non toglie – come abbiamo già detto – che una volta utilizzato questo approccio, gli si faccia capire che tutto inizia dalla Verità e tutto ha senso nella Verità.
La Verità cattolica non solo è vera ma è anche bella, cioè non solo soddisfa l’intelligenza ma anche il cuore. È una sorta di cattedrale di cristallo; “cattedrale” perché è tutto logico, ordinato, consequenziale; “di cristallo” perché questa logicità, ordine e consequenzialità si traducono in una bellezza armonica irresistibile, così come il cristallo sa far risplendere le forme dell’oggetto di cui è materia.
Inoltre, bisognerebbe precisare cosa significa “felicità”. Felicità non è lo stato dell’animo che riconosce che tutto è positivo e che quindi si trova sempre in una condizione di consolazione e di gaudio. Se fosse questa la felicità, i santi avrebbero qualche problema in merito; basterebbe pensare a tutte le prove che contrassegnano la loro vita: desolazioni, notti, tentazioni… la felicità in senso cristiano non è alternativa alla sofferenza ma alla disperazione; la felicità è la pace dell’anima che può e deve coniugarsi anche con l’esperienza delle prove più terribili.
Ma per capire questo – e torniamo al punto iniziale – bisogna che l’esperienza cristiana sia sempre esito del riconoscimento di ciò che è vero.
Dunque come dobbiamo intendere l’espressione “vieni e vedi”? Molti oggi dicono che più che fare catechesi, basterebbe “invitare” nelle proprie comunità a vivere l’’esperienza cristiana. Come facevano i primi cristiani.
Prima di tutto va detto che ciò che facevano i primi cristiani andrebbe ben chiarito, perché ci sono molti luoghi comuni da sfatare, ma eventualmente su questo ritorneremo più avanti.
Dicevamo: l’espressione “vieni e vedi” potrebbe anche andare bene, ma va correttamente intesa. Certamente il riscontro della vita cristiana sta nelle opere, le quali – lo sappiamo bene – concorrono alla salvezza dell’anima. Ebbene, in quella frase si voleva dire proprio questo: vieni a vedere quanto è diversa la vita dei cristiani rispetto a quella dei pagani; per esempio, quanto è diversa dal modo come trattano le donne, gli schiavi, i bambini… Ecco, prendiamo i bambini: nel mondo pagano era diffusissimo l’infanticidio, cosa che ovviamente fu subito rifiutata dai cristiani. Insomma, la frase “vieni e vedi”, lungi dal voler essere una negazione dell’importanza della verità, era piuttosto l’attestazione e la dimostrazione concreta dell’accoglienza della verità: la vita dei cristiani è diversa da quella falsa e violenta dei pagani.
In questi tempi s’insiste molto sulla dimensione pastorale piuttosto che sulla proclamazione della Verità. La stessa espressione secondo cui la Chiesa sarebbe una sorta di “ospedale da campo” chiamata a curare le ferite di ognuno s’inserisce all’interno di questa prospettiva. Che dire in proposito?
Prima di tutto va detto che non c’è pastorale senza verità. Come recentemente ha affermato il cardinale Müller (Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede) non c’è contrapposizione tra pastorale e verità, Cristo Maestro e Cristo Pastore non sono due Cristo diversi; Cristo è Maestro ed è Pastore, ed è Pastore proprio in quanto Maestro.
La pastorale è la traduzione della verità sul piano della predicazione e dell’azione cristiana. E’ sempre la verità che “informa”, nel senso di “dare forma”, “dare contenuto”, alla pastorale, non il contrario.
Il pastore cosa deve fare? Deve guidare le pecore e proteggerle dai lupi, cioè dai pericoli. Guidare significare orientare verso una mèta e non c’è mèta senza conoscenza. Proteggere significa mettere in guardia dai pericoli, non solo individuarli, ma anche denunciarli e renderli riconoscibili a tutti affinché nessuno possa lasciarsi irretire.
Recentemente sembrava che stesse per risorgere un nuovo interesse per l’apologetica. A partire dagli ultimi anni del pontificato di Giovanni Paolo II e per tutto quello di Benedetto XVI molti si erano rivolti allo studio dell’apologetica. Lo stesso termine “apologetica” sembrava non far più paura… poi si è ritornati al clima tipicamente postconciliare di occultamento dell’apologetica, allorquando si pensò di sostituire la definizione di “apologetica” con quella di “teologia fondamentale”.
Il Cattolicesimo è logica inappuntabile, in esso tutto è razionale e ragionevole.
“Razionale”, perché ci sono verità che possono essere dimostrate con la ragione; “ragionevole” perché i misteri della fede, pur non essendo di per sé dimostrabili, sono comunque credibili: essi sono oltre ma non contro la ragione. A proposito dei misteri della fede ci si accorge che paradossalmente occorre più fede nel credere che non siano veri piuttosto che nel credere che siano veri. È il caso – per esempio – della Resurrezione di Cristo dove le due ipotesi che sono state teorizzate per negare questo evento (trafugamento del corpo e allucinazione) non reggono alla prova della ragione e avrebbero bisogno di una fede nell’improbabile, nell’incredibile e quindi nell’assurdo.
Insomma, non si può e non si deve fare a meno dell’apologetica, che è la difesa razionale della verità cattolica.
Le cause che sono alla base dell’oblio dell’apologetica sono indicative per capire. Sono tre: due teologiche e una filosofica.
La prima causa è legata ad una certa “protestantizzazione” del cattolicesimo. Per la dottrina tradizionale cattolica la fede è assenso dell’intelletto alle verità rivelate da Dio; Lutero diceva invece che la fede sarebbe un sentimento di fiducia nell’onnipotenza e nella misericordia di Dio. La differenza è chiara: per il Cattolicesimo la fede è accettare la Rivelazione perché è credibile; per il Protestantesimo la fede sarebbe un’esperienza d’abbandono rifiutandosi di valutarne la credibilità.
La seconda causa è ancora teologica ed è l’influenza del modernismo nella Teologia cattolica contemporanea. Modernismo che fu condannato da papa san Pio X all’inizio del secolo XX, ma che ha saputo bypassare la condanna arrivando ad influenzare la Teologia cattolica contemporanea. Il Modernismo adottò il motivo luterano della fede-sentimento, facendo del dogma un qualcosa di provvisorio che verrebbe fuori solo contestualmente da uno specifico senso religioso, e quindi (il dogma) non sarebbe affatto vincolante. E’ scritto nel giuramento antimodernistico di san Pio X: “Ritengo certissimamente e sinceramente professo che la fede non è un cieco sentimento religioso, che scaturisce dal fondo del sub-coscienza sotto la pressione del cuore e dell’inclinazione della volontà […] ma un vero assenso dell’intelletto alla verità ricevuta dal di fuori.” Concetto questo ribadito anche da Pio XII nell’Humani generis.
La terza causa è filosofica e riguarda il cosiddetto personalismo cristiano, che è andato ad intaccare il concetto tradizionale di persona (sostanza individuale di natura razionale) per presentarla come qualcosa d’indefinibile, una sorta di “fluido” di emanazioni e manifestazioni psicologiche, laddove viene svalutato l’elemento logico-razionale.
A cosa serve denunciare gli errori? Non può bastare semplicemente affermare la verità?
No, non basta dire la verità, occorre anche condannare l’errore. La verità non solo costruisce, preserva anche.
La convinzione secondo cui basterebbe affermare ciò che è vero senza condannare nulla è sbagliata sul piano pratico e su quello teorico.
Ora, oltre al fatto che da quando si afferma una tal cosa non si annuncia più il vero con chiarezza e continuità (è sotto gli occhi di tutti quanto il munus propheticum della Chiesa sia sensibilmente venuto meno negli ultimi decenni) la convinzione per cui basterebbe affermare ciò che è vero senza condannare nulla è sbagliata sul piano pratico e su quello teorico.
Sul piano pratico, perché concretamente l’uomo ha bisogno di capire ciò che è vero anche e soprattutto cogliendo la differenza rispetto a ciò che è falso. Un conto è dire che il bene per essere bene avrebbe bisogno del male. Un’affermazione di questo tipo è falsa e pericolosa, sarebbe in odore di gnosi, perché il bene avrebbe bisogno del male e il male del bene. Altro è affermare che la bellezza del bene la si coglie anche nella sua comparazione con il male. Una bella giornata di sole viene apprezzata anche comparandola all’esperienza che si è fatta di una pessima giornata di pioggia; così la bellezza della primavera ci colpisce dopo il trascorrere di un duro inverno.
Sul piano teorico perché la verità non è un’astrazione. Fa specie che in un tempo in cui si sottolinea che la verità non è un’idea ma una persona (il che è vero, ma se ne devono capire bene il significato e le implicazioni), contraddittoriamente si cade nel pericolo di porre il vero in una dimensione di alienazione, sganciato cioè dalla vita. Il vero si “aggancia” alla vita quando se ne sottolinea l’irriducibilità nei confronti del falso. Non c’è comprensione e individuazione del vero se non nel riconoscimento del principio di non-contraddizione. D’altronde se io dico: ciò è vero, di fatto distinguo il vero da ciò che vero non è. Perché sorvolare su domande legittime che possono sorgere, del tipo: se ciò è vero, allora cosa è falso? Ebbene, questa domanda non si può eludere, pena l’astrazione completa del concetto di vero, che in tal senso diventa irrimediabilmente un’astrazione, un concetto, una teoria.
Spesso si sente parlare di “essenza del cristianesimo” e di una sorta di gerarchia delle verità, per cui alcune sarebbero più importanti e altre di meno. E’ proprio così?
Nella teologia cattolica del XX secolo per motivi ecumenici si è fatta strada l’idea di un Cristianesimo essenziale distinguibile da un Cristianesimo da accettare nella sua interezza. Ma questa posizione è completamente da rifiutare. Quando due persone non vanno d’accordo è da saggi proporre di pensare a ciò che è importante e di trascurare il superfluo. Le discussioni umane riguardano l’umano e nell’ambito dell’umano si può tendere alla verità ben sapendo che è difficilissimo raggiungere la verità tutt’intera. Questo vale per le discussioni umane, ma non può e non deve valere per le questioni religiose, perché, in tal caso, non siamo più nell’ambito della verità umana ma della Verità rivelata; quindi non più del tendere verso la verità, ma della conoscenza della Verità tutt’intera.
Almeno dall’inizio del secolo XX nell’ambito di una certa teologia cattolica (diciamo “certa” perché non sempre coincide con la vera Teologia cattolica) si è fatta strada la cosiddetta teoria dell’ “essenza del Cristianesimo”, ovvero la teoria secondo la quale il Cristianesimo sarebbe costituito da un’essenza e da elementi puramente accidentali, cioè meno importanti. Un po’ come la differenza tra la bistecca e l’insalata: la bistecca è la sostanza; l’insalata, il contorno. Insomma, questa teoria afferma che il Cristianesimo avrebbe un “cuore” che lo renderebbe tale e la semplice adesione a questa “essenza” basterebbe per definirsi cristiano.
Come abbiamo già detto la teologia cattolica ha tenuto a lanciare una simile teoria per motivi ecumenici. E’ evidente che il dialogo con gli ortodossi e i protestanti, in tal modo, sarebbe molto più facile, ma si tratterebbe di pura svendita e rinnegamento del patrimonio di verità del Cattolicesimo; il dialogo si deve fare nella verità non a discapito della verità.
Per capire quanto questa posizione sia sbagliata basterebbe ricordare il noto adagio “Bonum ex integra causa, malum ex quocumque defectu”. Il bene, infatti, è nell’accettare la verità tutt’intera, perché nell’ambito della verità assoluta solo l’interezza conta.
Sant’Agostino, nel Commento al salmo 54 (precisamente al numero 19), afferma: “In molte cose (di fede) concordano con me; in alcune con me non concordano; ma per quelle poche cose in cui non convengono con me a nulla serve loro essere con me d’accordo in molte”.
Scrive Leone XIII nella sua Satis Cognitum: “Ripugna infatti alla ragione che anche in una sola cosa non si creda a Dio che parla. (…) Gli Ariani, i Montanisti, i Novaziani, i Quartodecimani, gli Eutichiani (qui Leone XIII elenca alcune famose eresie) non avevano abbandonato in tutto la dottrina cattolica, ma solo questa o quella parte; e tuttavia è cosa nota che essi sono stati dichiarati eretici ed espulsi dal seno della Chiesa (…). Tale è infatti la natura della fede che essa non può sussistere se si ammette un dogma e se ne ripudia un altro. (…) Colui che anche in un sol punto non assente alle verità da Dio rivelate, ha perduto tutta la fede, perché ricusa di sottomettersi a Dio, somma Verità e motivo proprio della fede. (…) Perciò la Chiesa, memore del suo ufficio (di custodire il deposito della fede), non si è mai con ogni zelo e sforzo tanto affaticata come nel tutelare in ogni sua parte l’integrità della fede.”
Anche Benedetto XIV allude a questo errore, precisamente nella sua Ad Beatissimi Apostolorum Principis: “La Fede o si professa intera o punto non si professa, perché la natura della Fede è tale che essa non può sussistere se si ammette un dogma o se ne ripudia un altro, perché colui che anche su di un solo punto non assente alle verità da Dio rivelate, ha perduto tutta la Fede, poiché ricusa di sottomettersi a Dio, somma verità e motivo proprio della Fede.”
E anche il Magistero attuale ne accenna. Nell’udienza generale del 20 agosto del 1997, Giovanni Paolo II pronunciò delle parole che richiamano chiaramente la condanna di questo errore. Il Papa disse in quell’occasione: “Il Concilio esorta i fedeli a guardare a Maria, perché ne imitino la fede ‘verginalmente integra’, la speranza e la carità. Custodire l’integrità della fede rappresenta un compito impegnativo per la Chiesa chiamata ad una vigilanza costante, anche a costo di sacrifici e di lotte. Infatti, la fede della Chiesa è minacciata, non solo da coloro che respingono il messaggio del Vangelo, ma soprattutto da quanti, accogliendo soltanto una parte della verità rivelata, rifiutano di condividere in modo pieno l’intero patrimonio di fede della Sposa di Cristo. Tale tentazione, che troviamo sin dalle origini della Chiesa, continua purtroppo ad essere presente nella sua vita, spingendola ad accettare solo in parte la Rivelazione o a dare alla Parola di Dio un’interpretazione ristretta e personale, conforme alla mentalità dominante e ai desideri individuali. Avendo pienamente aderito alla Parola del Signore, Maria costituisce per la Chiesa un insuperabile modello di fede ‘verginalmente integra’, che accoglie con docilità e perseveranza tutta intera la Verità rivelata. E con la sua costante intercessione, ottiene alla Chiesa la luce della speranza e la fiamma della carità, virtù delle quali, nella sua vita terrena, è stata per tutti esempio ineguagliabile”.
Sempre in merito alla teoria dell’essenza del cristianesimo, si fa riferimento al cristianesimo delle origini, e si dice che allora si badava solo all’amore e alla misericordia, nucleo portante ed essenziale del cristianesimo. Che dire?
Che anche il cristianesimo delle origini (in quanto cristianesimo) si fondasse sull’amore e sulla misericordia è fuori di dubbio. Dobbiamo però ben capire che anche in quei tempi l’amore era sempre giudicato dalla verità e la misericordia sempre esito del pentimento e del riconoscimento del peccato. Anzi verrebbe da dire a tanti archeologisti che mitizzano quei tempi: perché non tornare anche alle pratiche penitenziali allora in vigore? Forse si cambierebbe idea. Ma lasciamo perdere … e ritorniamo alla questione.
A differenza di quanto si crede, soprattutto quel cristianesimo si fondava sull’annuncio della verità e sulla condanna del peccato; d’altronde se così non fosse stato, non si capirebbe come mai quei “pochi” siano riusciti a cambiare il mondo, a convertire uomini e strutture politiche e far sì che nascesse la civiltà cristiana.
Per indicare chi è attento al rispetto di tutti i precetti si utilizza sempre più spesso la definizione “cattolici eticisti”. C’è stato poi chi ha utilizzato la definizione “cattolici alla Dezinger” per indicare chi solitamente fa uso di tutto il magistero citando tutti i papi e non solo quelli più recenti, intravvedendo possibili contraddizioni in certi insegnamenti. Ha senso tutto questo?
Il nostro è il tempo in cui si esalta la bio-diversità. Vi è la convinzione che “diverso” è bello, che più c’è e meglio è, che più la realtà è varia e più essa sarebbe affascinante … insomma, un po’ come si dice a proposito della pizza piena: più ci metti e più ci trovi! Anche nella Chiesa in un certo qual modo si vive questa atmosfera. Ma fosse l’atmosfera della sinfonia, non ci sarebbe nulla da ridire, perché la sinfonia è l’“unità nella diversità”, diversità nei modi ma unità nella dottrina. Questo c’è sempre stato nella Chiesa, anzi è stata la sua caratteristica principale. Ma ciò che c’è adesso non è questo. Domina non l’esaltazione della sinfonia ma della contraddizione, che è ben altra cosa.
In questi tempi abbiamo scoperto che esiste anche il cattolico ideologico ed eticista. In realtà, se proprio volessimo dare la giusta interpretazione alle parole, una simile scoperta doveva essere fatta da tempo. Se infatti le parole hanno un senso, il cattolico ideologico dovrebbe essere colui che deforma il proprio credo in ideologia, e l’ideologia è la pretesa di ridurre il reale in costruzione intellettuale e soggettiva.
D’altronde il padre dell’ideologia fu il razionalista Cartesio. E – sempre se le parole hanno un senso – il cattolico eticista dovrebbe essere colui che trasforma la morale naturale e soprannaturale in etica umana, ovvero che opera il passaggio dalla Legge (con la “L” maiuscola) alle regole, quelle regole fondate solo sulla debolezza delle opinioni umane e dei contesti socio-culturali. Ma invece abbiamo scoperto in questi giorni non solo l’esistenza del cattolico ideologico ed eticista come se fosse una novità, ma anche che con questa etichetta (cattolico ideologico ed eticista) deve intendersi tutt’altra cosa rispetto al vero significato delle parole, deve intendersi il cattolico fedele alla Tradizione (che è il Dio vivente ed immutabile nella storia, quindi tutt’altro che ideologia) e alla morale di sempre (che è la sequela al Dio vivente e immutabile nella storia, quindi tutt’altro che eticismo).
Ma perché questa confusione? Per un motivo molto semplice: perché si è persa la bussola, né più né meno. Venendo meno la consapevolezza della verità e di quanto soprattutto la verità debba “in-formare” tutto (“in-formare” nel senso di dare forma) non solo la diversità diventa fine a se stessa, ma lo stesso significato dei termini va a carte quarantotto. E così si trascura il problema e ci si concentra sul metodo e sulla forma.
Il cattolico eticista insisterebbe troppo sulla morale. Ma ci siamo mai chiesti cosa è la morale nell’ambito della teologia cattolica? Il Dio Logos è un Dio che non è al di là del bene e del male, ma che è costitutivamente buono; per cui la legge morale non è una decisione arbitraria di Dio ma la sua stessa natura. I Dieci Comandamenti, per esempio, altro non sono che la natura stessa di Dio codificata per la vita quotidiana dell’uomo. Dunque, rispettare la legge di Dio vuol dire aderire alla Sua natura, abbracciare Dio; per cui, di converso, non è possibile scegliere e convivere con Dio se non si rispetta la Sua Legge.
In questo non c’è nulla di moralistico, perché il moralismo è un’accettazione senza motivi persuasivi della legge morale, convincendosi tutto sommato che la morale è una pura astrazione e decisione intellettuale che è in un modo, ma poteva anche essere in tutt’altro modo.
I Santi invece hanno capito che non c’è Dio senza Legge morale e non c’è Legge morale senza Dio. Definire eticista il comportamento di chi è attento alla Legge morale e invita a tutti a fare altrettanto significa contraddire il comportamento dei Santi. Che dire, per esempio, di un San Pio da Pietrelcina e della sua risaputa intransigenza. Gesù parla chiaro: Chi dunque trasgredirà uno solo di questi precetti, anche minimi, e insegnerà agli uomini a fare altrettanto, sarà considerato minimo nel regno dei cieli. Chi invece li osserverà e li insegnerà agli uomini, sarà considerato grande nel regno dei cieli. (Matteo 5,19).
Per questo Benedetto XVI insisteva molto sui cosiddetti principi non-negoziabili, perché dal giudizio concreto sulla vita, da come ci si rapporta alle grandi questioni che danno il tono del tempo attuale (per esempio Benedetto XVI definì l’ideologia del gender come la più grave sfida a cui la Chiesa di oggi deve fare fronte) si esprime la testimonianza e l’amore del cristiano a Colui che è l’unica Via, l’unica Verità, l’unica Vita.
Ragioniamo sui contenuti invece che sparare definizioni offensive di catalogazione dei cattolici a mo’ di entomologia ecclesiale. Vogliamo risolvere sì o no i problemi? Dire che basterebbe seguire la percezione soggettiva del bene e del male per salvarsi, dire che si può non perdere la Fede prescindendo dalla fede in Cristo, dire che Dio non è cattolico, dire che lo scopo del cristiano non sarebbe quello principalmente di convertire… tutto questo dire pone o no dei problemi? La questione è qui.
Sono tempi questi in cui si parla anche di “cattolici ideologici”…
Un tipico errore della Chiesa post-conciliare è quello di non voler essere attenti alla realtà delle cose. La Vita di Grazia diminuisce… non fa nulla. Il senso del peccato diminuisce… non fa nulla. Le famiglie si sfasciano… non fa nulla. I matrimoni civili aumentano e in alcune zone d’Italia sono più numerosi di quelli religiosi… non fa nulla. I giovani hanno dimenticato completamente l’obbligo e il valore della castità prematrimoniale… non fa nulla. Le leggi dello Stato recepiscono sempre più il relativismo etico dominante… non fa nulla. Va tutto bene, è inutile preoccuparsi. E’ questo un tipico errore che si manifesta in due atteggiamenti.
Il primo è minoritario ed è di chi dinanzi allo sfacelo fa silenzio, in un certo senso apprezza e -sempre in un certo senso- quasi spera che il trend continui su questa falsariga. Si tratta – diciamocelo francamente – dell’atteggiamento di quei cattolici che non hanno la coscienza pulita, che hanno molti disordini nella vita privata e che in questo modo sperano di poter tacitare la propria coscienza convincendosi che tutto sommato ciò sarebbe la dimostrazione che la morale cattolica non può essere completamente rispettata e che deve cambiare radicalmente.
Il secondo atteggiamento è invece maggioritario ed è anche più complesso. Si riconosce che ci sono molte che cose che non vanno, ma nello stesso tempo ci si sforza di dimostrare che ciò che non va rientrerebbe in una sorta di crisi fisiologica della Chiesa. Non può non andare così: per liberarsi da “incrostazioni storiche” di contaminazioni con il potere e con certi conservatorismi, la Chiesa deve vivere una crisi, una crisi che la porterà ad una maggiore “spiritualizzazione” e ad essere più fedele al suo mandato. Gli argomenti che si adducono ovviamente sono complessi, ma si capisce bene come alla base di questi vi è un’altra questione piscologica.
Se per il primo atteggiamento la questione è più “bassa”, in un certo senso è una questione “di pancia”, per il secondo atteggiamento la questione è “di testa”. E’ la posizione ideologica che impedisce di capire. L’ideologia – si sa – è un’ipertrofia dell’intelligenza, che, proprio perché ipertrofia, si traduce in un accecamento dell’intelligenza stessa. Una realtà quando cresce troppo finisce con l’annullare se stessa. Il cancro altro non è che una crescita impazzita delle cellule e un uomo che fosse troppo alto non riuscirebbe a vivere bene, non passerebbe facilmente attraverso le porte, non entrerebbe facilmente in un auto, non troverebbe facilmente vestiti da poter indossare o scarpe da poter calzare. L’ideologia è l’intelligenza sproporzionata e ipertrofizzata che vuole prescindere dall’osservazione per affidarsi esclusivamente alle proprie costruzioni teoriche e intellettuali.
Spesso si sente parlare contro i cristiani “ideologici” e molti leggono questa definizione come un riferimento a cristiani di formazione tradizionale che sono soliti denunciare uno stato della Fede e della Chiesa tutt’altro che positive. Ora, la definizione è senz’altro da utilizzare perché c’è tanto “cattolicesimo ideologico” ai nostri giorni, ma chiediamoci: in chi c’è questo atteggiamento? A chi bisogna davvero affibbiare una simile etichetta? A chi legge le cose come stanno o a chi si illude che le cose vadano bene quando invece non vanno assolutamente bene?
Molti conoscono la celebre frase di un noto teorico del socialismo sovietico: “Se i fatti non ci daranno ragione, peggio per i fatti!” Ebbene, in tanti – troppi – cattolici oggi si attaglia bene questa massima. Dinanzi alla crisi evidentissima della Vita di Grazia, dinanzi all’altrettanto evidentissima crisi della Chiesa, non bisognerebbe mutare i dettami pastorali, le linee di tendenza, le programmazioni dei recenti decenni, il problema non starebbe lì, non può e non deve stare lì. Eppure, per evangelica sapienza, i cristiani dovrebbero essere arciconvinti che dai frutti si riconoscono gli alberi.
Monsignor Giacomo Biffi, vescovo emerito di Bologna, utilizzando il suo inconfondibile stile nel suo Il Quinto Evangelo scrisse a proposito di questo atteggiamento così diffuso: “Il Regno dei cieli è simile a un pastore che avendo cento pecore e avendone perdute novantanove, rimprovera l’ultima pecora per la sua scarsità di iniziativa, la caccia via e, chiuso l’ovile, se ne va all’osteria a discutere di pastorizia”. E pensare che queste cose monsignor Biffi le scrisse nel lontano 1969: una vera profezia.
Nell’ultimo Avvento il cardinale di Vienna, monsignor Schonborn, ha predicato nella diocesi di Milano e per l’occasione ha detto parlando della Chiesa attuale:“(…) lasciamo la nostalgia degli anni Cinquanta, quelli della mia infanzia, nel villaggio, quando la chiesa si riempiva di gente per tre volte ogni domenica. Tutti in chiesa. Lasciamo la nostalgia per la vitalità dei nostri oratori degli anni Cinquanta e Sessanta.”Eccolo il vero cristianesimo “ideologico”. Un conto è dire che, constatando la diversità fra il passato e il presente, il cattolico non debba abbattersi, altro è dire che vada abbandonata la nostalgia. Parole incomprensibili. Quando si perde qualcosa di bello, la nostalgia è più che opportuna, ed è l’unico atteggiamento umanamente ragionevole.
Certo, non bisogna deprimersi, anzi è necessario ancora più attivarsi, rimboccarsi le maniche e agire, convinti che le sorti della storia non sono nelle nostre mani ma in quelle di Dio e della Sua Santissima Madre, ma un simile impegno può essere motivato solo da una costatazione intelligente: le cose ora non vanno bene, bisogna agire per modificarle. Dire di “lasciare la nostalgia” è quanto di più “ideologico” possa essere affermato in una simile situazione … a meno che non si desideri “apostatare”, cosa che non riteniamo possibile, ipotizzabile e concepibile in un cardinale di Santa Romana Chiesa.
Si ha paura di vedere la realtà così come essa è, ma ciò non è un atteggiamento realmente cristiano, perché il cristiano è prima di tutto uomo di osservazione che fa della virtù della prudenza il timone del proprio giudicare e del proprio agire.
Nella Chiesa degli ultimi tempi c’è un evidente “pluralismo”, sembra che ognuno tutto sommato possa pensare come vuole. Lo si nota soprattutto nelle confessioni dove spesso ai penitenti si presentano in tema di morale delle posizioni molto diverse e anche assai discordanti dal Magistero. Quando si legge sant’Alfonso o ciò che fece il Santo Curato d’Ars o ancora san Pio da Pietrelcina; e poi si pensa a ciò che diceva un cardinale Martini o addirittura un don Gallo che arrivò ad affermare pubblicamente di essersi sentito nell’obbligo morale di accompagnare una prostituta ad abortire, e si constata che in merito a questi personaggi non si sono lesinati complimenti e belle parole, ci si chiede come si possa credere che ci sia continuità tra i primi e i secondi.
Per questo c’è una spiegazione.
Coloro i quali non si scandalizzano nel veder lodati contemporaneamente un sant’Alfonso e un don Gallo è perché ormai in loro si è fatta strada una nuova idea di Chiesa. Non la Chiesa che rende presente Cristo nella storia, che è l’alfa e l’omega della storia stessa, che è il Logos che dall’eternità è se stesso e mai muterà. Cioè ciò che deve chiamarsi Tradizione. No, si tratta di una Chiesa come popolo in cammino.
Ovviamente una definizione di questo tipo non è di per sé errata se per “cammino” si intende l’andare verso l’eternità. Il problema però che questo termine “cammino” è stato inteso in modo molto diverso, cioè come continuità di una comunità nel tempo che cammina nella storia conservando come dato immutabile non l’adesione al vero quanto la comunità in sé. Si tratta di un’evidente svolta di tipo antropocentrico. Da qui non ci sarebbe scandalo lodare tanto un sant’Alfonso quanto un don Gallo perché la questione non sarebbe l’evidente contrasto tra ciò che i due affermano (di fatto si tratta di due religioni diverse) quanto il fatto che entrambi nel divenire storico fanno parte dello stesso popolo in cammino. In tal senso ciò che fonda il tutto non è la Verità, il Logos, la Tradizione, bensì il divenire stesso, la prassi.
Da qui anche il modo d’intendere la pastorale, non come “traduzione” dell’unica ed immutabile verità, bensì nell’adattarsi continuamente al dato storico e sociologico. Un chiaro esempio è ciò che oggi affermano molti teologi e anche cardinali a proposito dei divorziati risposati: dal momento che sono molti, troppi, si deve farli sentire quanto a più agio possibile nella Chiesa, non limitandosi a ritenerli membri sì della Chiesa, ma morti, bensì addirittura dando loro la possibilità – senza che siano costretti cambiare vita – di ricevere l’assoluzione, facendoli accostare all’Eucaristia e ritenendoli pertanto membri vivi della Chiesa. Insomma sarebbe il dato sociologico, storico a determinare la verità, non il contrario.
Bisogna capire che non è l’unità a fare la verità, è invece la verità che fa l’unità. L’assurdo però è che proprio in questo clima in cui tutto andrebbe bene, in cui va bene il cardinale Merry dal Val (Segretario di Stato durante il pontificato di san Pio X) e il cardinal Martini, in cui va bene san Pio da Pietrelcina e padre Alex Zanotelli, ecc … non ci sarebbe posto per chi la pensa come sempre è stato pensato nella Chiesa Cattolica. Insomma, c’è l’evidente sospetto che oggi nella Chiesa Cattolica ci sia posto per tutti tranne che per i cattolici.
Di esempi se ne potrebbero fare tanti. Indubbiamente l’ultimo eclatante è quello dei Francescani dell’Immacolata. Le suore americane favorevoli alla contraccezione e all’aborto vanno bene, i Francescani dell’Immacolata no. Prima abbiamo parlato di “assurdo”; in realtà c’è una logica in tutto questo. Chi la pensa come sempre è stato pensato nella Chiesa dà fastidio perché è proprio questo pensiero ad essere elemento di contraddizione con la nuova idea di Chiesa così come si è diffusa nei nostri tempi. Per cui va bene tutto, ma non chi afferma giustamente che nella Chiesa non può andare bene tutto.