da Il Giornale.it
10 Aprile 2019
Il piano di staccare il Pci da Mosca scatenò il Kgb Anche Orbán dovrebbe riaprire gli archivi…
di Paolo Guzzanti
Intanto, sono grato anch’io al ministro Salvini per i suoi propositi e, visto che è amico del premier ungherese Viktor Orbán, mi permetto di suggerirgli di chiedere a quel leader di recuperare la promessa valigia di cuoio verde e farmela recapitare o almeno invitarmi a Budapest per esaminarla. Sarebbe l’ora che l’Italia reclamasse ciò che fa parte della sua storia.
In questo articolo vorrei spiegare, specialmente a chi è più giovane e non sa, per quale motivo il dossier Mitrokhin che tutti i Paesi occidentali ricevettero dagli inglesi, soltanto in Italia diventò una vicenda furiosa e scalmanata, conclusa da un bel po’ di morti, sfuggiti all’attenzione dei giornalisti eroici.
Il fatto: quando gli inglesi annunciarono per via diplomatica negli anni Novanta di voler distribuire ai Paesi alleati le schede di loro interesse redatte dal maggiore Vasilij Mitrokhin, in Italia e soltanto in Italia successe il finimondo in casa comunista, divisa verticalmente fra l’ala americana (Giorgio Napolitano era da tempo uno stimato amico di Henry Kissinger) e quella pro-sovietica capeggiata da Armando Cossutta.
Il comunismo sovietico era già crollato e avevano proposto nel 2000 una commissione parlamentare d’inchiesta che non andò in porto, io fui eletto nel 2001 in Senato come giornalista esperto dei fatti e l’anno successivo, varata faticosamente la legge, fui dichiarato presidente eletto da un lividissimo Giulio Andreotti che mi fu contro da subito e per sempre.
Il terrorismo rosso (e in parte nero) era già finito da oltre dieci anni e il presidente emerito Francesco Cossiga era già andato in pellegrinaggio nelle carceri per visitare i brigatisti e certificarli come «bravi ragazzi che avevano un po’ esagerato» o anche «boys scout della rivoluzione».
Quando ero un redattore del quotidiano socialista Avanti!, negli anni Sessanta, fui personalmente avvicinato da uomini del Kgb un po’ troppo entusiasti dei miei articoli, anche perché i sovietici preferivano reclutare fra socialisti e democristiani per non esporre gli iscritti al Pci.
Quando interrogammo nella commissione Mitrokhin l’ex capo della Rezidentura sovietica a Roma, Leonid Kolosov, quello raccontò un sacco di balle, ma era certamente sincero quando disse che davanti alla sua porta «c’era la fila» degli informatori che odiavano l’America e volevano collaborare con i russi.
Ma sui reali informatori e agenti di influenza non indagò nessuno perché era considerata un’attività poco amichevole nei confronti del Pci il cui segretario, Enrico Berlinguer, aveva del resto fallito nel tentativo di sottrarre il suo partito ai finanziamenti di Mosca (vedi L’Oro di Mosca del nostro Valerio Riva).
Berlinguer aveva tentato di installare una nuova ideologia: quella del comunista geneticamente ariano del bene che guarda più a Santa Maria Goretti che a Lenin. Il Kgb sosteneva allora anche gli estremisti di destra e qualsiasi gruppo eversivo in Europa.
Pochi si sono presi la briga di leggere un testo fondamentale: A Cardboard Castle? An Inside Story of the Warsaw Pact 1955-1991. Il grosso tomo, 720 pagine, contiene tutti i verbali delle riunioni del Patto di Varsavia (l’anti-Nato del blocco sovietico) da cui si può vedere come, fino al 1991, l’Est progettasse ogni anno una nuova invasione dell’Europa occidentale anche con atomiche tattiche sull’Italia, col pretesto di reagire preventivamente a un imminente attacco della Nato.
Il progetto era politico oltre che militare: l’Europa tecnologica sarebbe stata resa irrecuperabile agli Stati uniti con una guerra lampo che sigillava porti e aeroporti e sarebbe stata aggregata al sistema sovietico, come spiegò Vladimir Bukowskij in EURSS. Unione europea delle Repubbliche Socialiste Sovietiche nel 2007 quando a suo parere il progetto politico era ancora in svolgimento.
Questo piano aveva bisogno di una continua pressione terroristica in Occidente (Francia e Italia con la banda Carlos e i suoi agenti interni, la Frazione Armata Rossa in Germania, l’appoggio all’Ira irlandese e all’Eta basca, per azioni di infiltrazione). In Italia il progetto del Compromesso storico era stata benedetto dalla Cia americana (vedi Maurizio Molinari
L’Italia vista dalla Cia con i documenti originali) con la garanzia di Aldo Moro nelle vesti di Presidente della Repubblica (si dovette estromettere con una falsa campagna mediatica l’innocente presidente Giovanni Leone sulla base di documenti americani fatti apparire ad hoc) e il senso strategico era di distaccare per sempre il Pci dall’Unione Sovietica e portarlo al governo dopo aver scatenato la famosa operazione «Clean Hands» (Mani Pulite) che avrebbe decapitato la corrotta Prima repubblica per far posto ai comunisti italiani.
Tutto ciò è narrato per filo e per segno con tutti i documenti in The Italian Guillotine: Operation Clean Hands and the Overthrow of Italy’s First Repubblic scritto in inglese da Stanton H. Burnett e Luca Mantovani, un libro che, curiosamente, nessun editore italiano ha avuto il fegato di pubblicare.
La reazione sovietica non si fece aspettare: dopo un primo tentativo fallito di uccidere Berlinguer mandato da Cossutta a visitare la Bulgaria, con la consolidata tattica del camion che sbuca all’improvviso (morì l’autista di Berlinguer il quale rimase lievemente ferito e fu subito fatto riportare in Italia dai corpi speciali, mandati da Cossiga).
Poi arrivò la strage di Via Fani, dove tutti furono uccisi da una sola arma e un solo killer e la neutralizzazione del garante del Compromesso destinato al Quirinale. L’operazione era politicamente ovvia. Attendiamo da Orbàn le carte. Il Compromesso storico fallì, il Pci tornò ad elemosinare la sua paghetta al Cremlino anche se l’operazione mani pulite portò realmente alla ghigliottina la prima Repubblica e certamente Achille Occhetto, leader del rinominato partito comunista, avrebbe vinto con la sua Gioiosa macchina da guerra se l’imprenditore Silvio Berlusconi non si fosse messo di traverso costruendo il bipolarismo impossibile e battendo il vecchio piano degli anni Settanta.
Ciò accadde dopo la fine della Guerra fredda, ma l’apparato di sostegno a tutte le forme di terrorismo in funzione tattica era rimasto funzionante. Il mea culpa dello scrittore francese Daniel Pennac, ipocrita e conformista anche se avverte rossore sulle guance, è esemplare. Quando nel 1999 a dieci anni dalla caduta del Muro di Berlino, per iniziativa di Berlusconi, organizzammo un grande convegno internazionale di cui fui il chairman, conobbi un uomo dagli enormi baffi rossicci furibondo e aggressivo.
Era Lech Walesa, l’elettricista cattolico che aveva organizzato, insieme al papa polacco Karol Wojtyla, il sindacato Solidarnosc che aveva conquistato le piazze polacche, occupato il Paese e paralizzato le manovre militari sovietiche.
Walesa parlava soltanto polacco e una ragazza mesta e gentile traduceva con sbalorditiva rapidità: «Che diavolo vi è venuto in mentre di celebrare la caduta del Muro di Berlino decisa da Gorbaciov? Siamo noi, i polacchi, che abbiamo fatto cadere il sistema, noi del Paese da cui doveva partire la guerra, noi destinati al sacrificio, noi polacchi che ci siamo ribellati e abbiamo vinto. Altro che muro! altro che Berlino!».
Aveva perfettamente ragione. Il Muro venne giù quando Gorbaciov lo decise d’accordo con il presidente Reagan che pronunciò lo storico invito: «Mister Gorbaciov, tear down this wall!».
La nostra storia, quella della contiguità culturale e militare fra terroristi alla Cesare Battisti e sistema sovietico è però ancora tutta da raccontare e da rivelare, almeno per le nuove generazioni che si affacciano al mondo fresche e pulite e che chiedono il sacrosanto rispetto della verità.