Tempi n.3 Marzo 2018
Il Sessantotto in cattedra
di Giancarlo Cesana
Nella puntata precedente ho indicato senza mezzi termini il comunismo come fenomeno espressivo di quel che è accaduto nelle università nel ’68. L’ho fatta un po’ breve, ma ho descritto l’esperienza che ho vissuto e, non essendo né filosofo, né sociologo, non mi sono soffermato nell’analisi delle motivazioni di quella insurrezione giovanile.
Da tempo sono usciti contributi in tal senso e ancora di più ne usciranno in questo anno cinquantenario. Io ne segnalo uno vecchio, di Augusto Del Noce (1910-1989), pubblicato su Vita e Pensiero, la rivista dell’Università Cattolica, nel numero 5 del 1968, quindi mentre le cose stavano succedendo. Le considerazioni di Del Noce sono acute e, visto il tempo in cui sono state pensate, profetiche. Le riassumo molto brevemente per invogliare a leggerle.
Del Noce individuò l’insurrezione giovanile del ’68 come una “rivolta contro la società del benessere” – o “tecnocratica” – fine a stessa, ovvero priva di tensione a una verità più grande, religiosa. Il marxismo venne adottato come sostituto religioso, tuttavia in quanto ateo e inevitabilmente relativista, impotente a questo fine. Di qui la degenerazione nell’estremismo e il riassorbimento della rivolta nei miti tanto criticati della società opulenta.
Altre analisi, a mio avviso meno profonde, hanno sottolineato come elementi dell’esplosione studentesca la ribellione contro il tradizionalismo oppressivo e autoritario dell’accademia, della cultura e dell’educazione delle generazioni precedenti, quindi la liberazione del desiderio e il percorso della vita come avventura e costruzione nuova, sia degli individui che della convivenza. Nelle interpretazioni moderne il comunismo non è quasi più citato o lo è come fatto di rilevanza non decisiva nella comprensione del fenomeno.
Tali interpretazioni sono alquanto indulgenti perché è diffusa la tendenza a dar ragione ai giovani e soprattutto perché, come già detto, i giovani di allora sono frequentemente gli intellettuali che commentano adesso.
Comunque non voglio entrare in merito dettagliato alle analisi e al loro tono. Sono disposto ad ammettere che tutte le motivazioni individuate siano poco o tanto giuste. Quel che mi interessa mettere in evidenza qui sono le conseguenze, quel che è successo dopo. Per due motivi: le conseguenze fanno comprendere la chiarezza e la sincerità delle motivazioni; mettono in evidenza il valore attuale delle motivazioni e dei fatti da queste prodotti nel passato. Non voglio celebrare il ’68, voglio capire a cosa e se è servito, a me e a tutti.
La trasformazione dell’università
Le prime conseguenze che prendo in considerazione sono quelle verificatesi dove tutto è cominciato: l’università, appunto. Come brevemente descritto nella puntata precedente, alla fine degli anni Sessanta, l’università italiana era il terminale di un processo di selezione marcata. La sua impostazione tradizionale era sicuramente elitaria, sia da un punto di vista culturale, che di censo. Essa pretendeva di fornire a chi la frequentava il titolo di “dottore”, ovvero non solo di esperto, ma anche di professionista, insegnante e ricercatore al massimo livello nella materia studiata. Di qui l’insistenza su un’accurata formazione metodologica di base, tanto selettiva quanto produttiva di conoscenze, che gli studenti stranieri non avevano rispetto ai loro coetanei italiani.
L’università italiana era concepita come il punto di arrivo di una scuola inferiore e media, anch’essa dotata di standard formativi molto alti, sconosciuti all’estero. Arrivarci era un duro cammino, che, in una società uscita da una guerra persa e con uno sviluppo non omogeneo, era difficilmente possibile ai meno abbienti, il cui impegno nello studio doveva andare di pari passo con i sacrifici economici loro e delle loro famiglie.
A mia mamma, che, soprattutto lei, voleva mandarmi all’università, nonostante l’unico occupato della famiglia – eravamo in quattro – fosse mio papà, bigliettaio sul tram, dicevano che era matta. Bastava ed era già tanto studiare da perito.
Così, gli studenti, di fronte a una simile situazione, insorsero rivendicando per tutti il diritto allo studio, ovvero per tutti il diritto all’accesso ai gradi più alti dell’istruzione. E gli accessi vennero liberalizzati, ovvero tutti gli studenti con diploma di scuola media superiore poterono iscriversi all’università, alla facoltà che volevano. Pertanto la frequenza della scuola media superiore, che in quegli anni era già in sensibile crescita, si riversò nelle università, che cominciarono, se così si può dire, a scoppiare.
Gli studenti erano assai più numerosi dei posti a diposizione nelle aule e le aule erano insufficienti. Si ascoltavano le lezioni seduti per terra e anche fuori della porta. Per trovare spazio rettori e presidi prenotarono i cinema. Gli studenti dopo un po’ si stufavano e non andavano più a lezione, perché era difficoltoso e inutile. Si diffuse l’autodidattismo, il lavoro accoppiato allo studio, il fenomeno tutto italiano dei fuoricorso.
Come disse Giorgio Amendola, storico esponente del Pci di “destra”, in un’intervista tv a Costanzo – Bontà loro mi pare si chiamasse la trasmissione; era il 1977 o giù di lì – «non è la scuola che seleziona, ma la vita». E infatti la selezione non scomparve, semplicemente si spostò a durante e dopo l’università. Si abbassò sensibilmente la percentuale di studenti che si laureavano negli anni prescritti e si abbassò allo stesso modo la percentuale di laureati che riuscivano a trovare un’occupazione corrispondente alle loro aspirazioni e all’ampiezza delle nozioni acquisite.
Il senso del numero chiuso
Merito e qualità dell’insegnamento passarono in secondo piano rispetto alla rivendicazione del diritto allo studio. Di numero chiuso nemmeno a parlarne. Alla facoltà di medicina della Statale di Milano, negli anni Settanta, a strutture didattiche praticamente invariate rispetto agli anni precedenti, si iscrisse un numero di matricole superiore a tutte quelle iscritte nel Regno Unito. E andò avanti così per anni, facendo sì che diventassimo il paese con il più alto numero di medici dopo Cuba – loro 7 per mille abitanti, noi 6. Da allora si intasarono progressivamente dì assunzioni gli ospedali pubblici, che oggi presentano il personale medico con l’età media più alta in Europa.
I medici giovani faticano molto a entrare, a essere come si suol dire strutturati, assunti a tempo indeterminato, che, come mostra Quo Vado? di Zalone, sembra essere l’aspirazione fondamentale degli italiani. Gli specializzandi nelle varie branche della medicina sono medici laureati e abilitati a tutti gli effetti, ma sono considerati come studenti, ovvero negli ospedali non possono esercitare autonomamente. Questo per evitare che i giovani, a costo minore e più disponibili all’impegno spesso gravoso degli ospedali, sopravanzino i più anziani o siano preferiti a loro.
La ragione proclamata è che gli specializzandi sono ancora professionalmente immaturi e quindi non in grado di affrontare la complessità della clinica. È vero, ma essendo inseriti strutturalmente nell’ospedale possono imparare e rendersi progressivamente più utili. È quanto avviene in tutto il mondo civile. D’altra parte la cautela nell’assunzione dei giovani medici non impedisce che essi, anche se non sono né specializzandi, né specializzati, vengano adibiti alla cosiddetta continuità assistenziale, ovvero ai turni di guardia notturni e festivi che i medici di famiglia da tempo non coprono più.
Così medici non buoni per un’attività ospedaliera relativamente protetta dalla presenza o dalla reperibilità di colleghi più esperti, sono buoni per interventi solitari su pazienti che possono presentare di tutto, anche nel senso della gravità. Poi ci si lamenta dell’affollamento e delle attese in pronto soccorso.
Mi scuso se mi dilungo un po’ sulla medicina, ma è il mio campo e un ottimo esempio delle conseguenze sessantottesche. Comunque, quanto sopra è per sottolineare che primo compito di una scuola è dire il numero di studenti che può formare e quindi accettare. Questa serietà è la ragione fondamentale del numero chiuso ed è appunto compito della singola scuola e non del ministero, che con stime da piano quinquennale staliniano, stabilisce il fabbisogno di medici, dentisti, architetti e veterinari, che sono le lauree a numero programmato nazionale.
Certo, come già succede, le scuole possono essere accreditate preventivamente in base alle dotazioni. La loro qualità sarà poi dimostrata dai risultati ottenuti nella attrazione e formazione degli studenti, che le scuole devono poter scegliere in base a criteri da loro stesse determinati.
Merito e disuguaglianza
Qui entra in gioco il problema del merito, che formalmente è sempre sottolineato come primario criterio di avanzamento nello studio e nella professione. Dico formalmente perché il ’68 ha sensibilmente ridimensionato il dovere del merito rispetto al diritto ad accedere al titolo di studio. Ciò in parte giustamente perché lo studente povero che deve lavorare per mantenersi fa ovviamente grande fatica a ottenere risultati brillanti nello studio. Tuttavia il superamento di questa disuguaglianza non si ottiene dando borse di studio a tutti coloro che sono in difficoltà economiche a prescindere dal merito. La diseguaglianza infatti persiste come minor preparazione e non è abbattuta, ma solo spostata a dopo la fine degli studi.
Il merito, come dicono in molti, non può essere stabilito con quiz a crocette, come nei test di ammissione all’università e nemmeno con una media di voti, ma richiede una valutazione della persona, più completa e accurata. Questa valutazione non può essere fatta contemporaneamente in un maxi concorso pubblico, svolto nello stesso giorno per 63 mila candidati, come è avvenuto quest’anno a medicina
Appunto, devono essere le singole scuole a scegliere valutando test, curriculum e se possibile altri criteri espressivi del carattere e delle inclinazioni individuali. Ma a questo punto interviene un’altra bandiera sventolata nel “68, quella dell’uguaglianza.
(2. continua)