Il Secolo d’Italia Domenica 13 agosto 1995
Giovanni Cantoni
L’IMPERO socialcomunista è in via di liquidazione dal punto di vista statuale e di consistente trasformazione da quello culturale; di questa liquidazione anche l’opinione meno sensibile ai valori religiosi è disponibile ad attribuire parte del merito alla nazione polacca e al «Papa polacco», il Sommo Pontefice Giovanni Paolo II, cioè a considerarla frutto di una lenta ma inesorabile erosione del sia pur minimo consenso sociale del regime instaurato in questo paese all’ombra dell’Armata Rossa nel 1945, un’erosione accompagnata dalla conservazione e dall’alimentazione del corpo sociale con valori naturali e cristiani.
Con la liquidazione dell’impero socialcomunista nella sua incarnazione statuale è in via di conclusione, sotto i nostri occhi, la «terza guerra mondiale», così da poter dire, con Furio Colombo, che stiamo vivendo «il terzo dopoguerra».
Il protagonismo riconosciuto della nazione polacca in questa terza guerra mondiale accresce anche l’interesse per la storia polacca, cioè per le premesse della situazione attuale; e, visitando questa storia, si scopre che vi è già stato un altro dopoguerra — quello seguente la Grande Guerra —, in cui la nazione polacca ha avuto una parte tutt’altro che insignificante, benché quasi completamente ignorata. A tale dopoguerra è dedicata questa ricerca — ricostruzione, interpretazione e documentazione —, volta a illuminare il passato, ma intesa pure — confessatamente — a essere utile anche quanto al presente e al futuro, prossimo e remoto.
Lo «scaltro sfruttatore»
Il 1 maggio 1917, Papa Benedetto XV, salito sulla Cattedra di Pietro poco dopo l’esplosione del conflitto, lo qualifica come «il suicidio dell’Europa civile» e nota che le «devastazioni morali della guerra» vengono «[…] scaltramente sfruttate da chi spia le sventure e le abiezioni, per volgerle a profitto della irreligione e dell’abbrutimento sociale».
E appunto Vladimir Ilyc Lenin si candida come «scaltro sfruttatore» delle «devastazioni morali della guerra» con un articolo pubblicato sulla Pravda del 2 luglio 1918, nel quale esalta come «profezia scientifica» un testo di Friedrich Engels del 15 dicembre 1887 — più un programma che una «profezia», per quanto «scientifica» —, in cui si osserva che «infine non è possibile altra guerra per la Prussia-Germania che una guerra mondiale, e in verità una guerra mondiale di una ampiezza e di una violenza finora mai viste», al cui termine vi sarà «[…] soltanto un risultato assolutamente certo: l’esaurimento generale e la creazione delle condizioni per la vittoria definitiva della classe operaia».
Con una «situazione geopolitica molto diffìcile» come pure con «una storia molto difficile, specialmente nell’arco degli ultimi secoli» — le notazioni sono di Papa Giovanni Paolo II — «[…] dall’anno 1918 […] la Polonia come Stato sovrano si ritrovò sulla carta dell’Europa», dalla quale era scomparsa dopo le tre spartizioni, avvenute a opera dei tre imperi confinanti, quello russo, quello germanico e quello austro-ungarico, fra il 1772 e il 1795.
Ma «il ritorno della Repubblica alla vita dopo una schiavitù di più di un secolo — scrive lo storico polacco Oskar Halecki — fu il primo atto di un dramma, non ancora concluso, che la Polonia moderna vive pienamente consapevole dell’importanza storica di esso e con incrollabile fede di un esito felice». Il rinato Stato polacco infatti venne considerato dalla diplomazia europea come «un errore di produzione», una conseguenza non gradita, se non assolutamente «non prevista».
Se il Trattato di Versailles, del 28 giugno 1919, ne fissava a grandi linee le frontiere occidentali, secondo il tenore dell’articolo 87 rimanevano da definire quelle orientali, verso la Russia bolscevica, forse — come non ipotizzarlo? — per lasciare aperta la possibilità di eliminare la «conseguenza non gradita».
Proprio a questo fine — nella prospettiva strategica del Weltoktober, dell’«Ottobre mondiale», che apre la via alla Weltrevolution, alla «Rivoluzione mondiale» — il maresciallo sovietico Michajl Nikolaevic Tuchacevskij, in un ordine del giorno del 2 luglio 1920 diretto alle forze dell’Armata Rossa sul Fronte Occidentale e intitolato Verso Occidente!, proclama che «è giunto il momento della resa dei conti.
«L’esercito della Bandiera Rossa e l’esercito dell’Aquila Bianca predatrice stanno l’uno di fronte all’altro in uno scontro mortale.
«La via della conflagrazione mondiale passa sul cadavere della Polonia Bianca».
Il 19 febbraio 1919 la dieta costituente polacca affida le funzioni di capo della rinata Repubblica a Jozef Pilsudski, che ha già guidato sul fronte russo le legioni polacche addestrate in territorio austro-ungarico; il 19 marzo 1920, su richiesta dei capi militari, lo stesso statista assume il grado di maresciallo. In questa veste lancia un esercito in Ucraina, costituito da polacchi e da ucraini comandati dall’atamano Simon Vasilovic Petljura, capo del governo della Repubblica Popolare d’Ucraina Indipendente; e questo esercito entra in Kiev il 7 maggio.
L’aggressione dell’Armata Rossa
L’Armata Rossa, che nel 1919 si era limitata a difendere le regioni vitali della Russia contro gli Eserciti Bianchi al comando del generale Anton Ivanovic Denikin, è ora in grado di concentrare i suoi sforzi sulla Polonia mentre a Varsavia non manca chi è già pronto ad acclamare un governo sovietico polacco. I polacchi e i loro alleati ucraini vengono respinti alle porte di Leopoli e di Varsavia, mentre sulla Bassa Vistola corpi di cavalleria sovietica, guidati da Ghaia Dmitriyevic Ghai Khan, premono verso Torun.
L’indifferenza, quando non l’ostilità, dei governi occidentali è generale: se si esclude una missione interalleata di cui fa parte il generale Maxime Weygand, ogni aiuto viene rifiutato e quelli da tempo previsti vengono ostacolati o indirettamente da ondate di scioperi nei paesi da cui dovrebbero partire oppure direttamente dai governi stessi, come nel caso di quello cecoslovacco, la cui politica estera è guidata da Edvard Benes, che rifiuta il passaggio a truppe ungheresi che il reggente, ammiraglio Miklos Horthy di Nagybànya, vorrebbe inviare a sostegno dell’esercito polacco in difficoltà.
Il 24 luglio si costituisce in Polonia un governo di coalizione, di cui è primo ministro Wincenty Witos, leader del Partito Contadino Piast e più di cinquecentosettantamila coscritti, più di centosessantamila volontari sono inviati al fronte. A metà del mese di agosto del 1920 — fra il 14 e il 16, ma è decisivo quanto accade il 15, nella solennità dell’Assunzione della Beata Vergine Maria — il maresciallo Jozef Pilsudski lancia una controffensiva che, guidata dal generale Jozef Haller, ferma l’Armata Rossa davanti a Varsavia, mentre sulla Bassa Vistola il generale Wladyslaw Sikorski minaccia di isolare l’ala marciante dei bolscevichi, che battono in ritirata e firmano a Riga l’armistizio il 12 ottobre dello stesso anno e la pace il 18 marzo dell’anno seguente.
L’episodio bellico va sotto il nome di «miracolo della Vistola» — l’espressione è attribuita al generale Jozef Haller, che, prima dell’offensiva, aveva ordinato un ottavario di preghiere — per manifestare gratitudine verso la divina Provvidenza per un successo umanamente insperabile, e costituisce il momento più alto e quasi il coronamento della guerra sovietico-polacca, «[…] una delle pagine più gloriose nella storia della ricostituzione della Repubblica» polacca nonché «[….] un episodio importante per la storia in generale, perché — scrive ancora Orkar Haiecki — questa guerra difensiva salvò non solo la Polonia da un annientamento che minacciava di avvenire subito dopo la riconquista della libertà, ma preservò l’Europa dal flagello del bolscevismo che, se fosse venuta a mancare la resistenza polacca, avrebbe potuto unirsi ai moti rivoluzionari tedeschi e ungheresi». Nella stessa campagna merita di essere ricordata, accanto alla battaglia di Varsavia, l’eroica resistenza degli ucraini a Zamosc, preludio della disfatta della Cavalleria Rossa del maresciallo Semen Michajlovic Budenniyj.
Il coronamento della guerra
Circa la portata dell’accadimento, non mancano conferme dalla parte degli sconfitti, sia dopo che prima della sua realizzazione: Vladimir I. Lenin, conversando con i delegati francesi al II Congresso del Komintern chiuso a Mosca il 7 agosto 1920, afferma in modo categorico: «Sì, le truppe sovietiche sono a Varsavia. Fra poco avremo anché la Germania. Riconquisteremo l’Ungheria, e i Balcani si solleveranno contro il capitalismo. L’Italia tremerà. L’Europa borghese scricchiola da tutte le parti, in mezzo a questa tempesta»; nell’autunno dello stesso anno, invita la militante comunista tedesca Clara Zetkin a «[…]; non […] ritornare su quanto è accaduto in Polonia»: infatti — confessa — «noi abbiamo contato sulla Rivoluzione in Polonia, e questa non si è prodotta».
Nel mese di luglio del 1920, mentre l’Armata Rossa avanza minacciosamente fino alle porte di Varsavia, i vescovi polacchi indirizzano una lettera pastorale alla nazione e, dopo aver chiesto a Papa Benedetto XV la benedizione per la Polonia, inviano all’episcopato mondiale una lettera che colpisce per la puntualità e la chiaroveggenza e che anticipa con espressioni di grande efficacia quanto dovranno scrivere i vescovi spagnoli il 1 luglio 1937, dopo l’Alzamiento del 1936, dopo l’inizio della Cruzada che si protrarrà fino al 1939 e in seguito all’incomprensione di cui è fatta oggetto in tutto il mondo, cattolico non escluso.
Alla supplica dell’episcopato polacco il Pontefice risponde con una lettera, datata 5 agosto 1920 e indirizzata al Cardinale Vicario; né il Santo Padre manca di felicitarsi, dopo la conclusione provvidenziale del dramma, con una nuova lettera, questa volta indirizzata a tutti i presuli polacchi, datata 8 settembre 1920, «nella festività della Natività della Beata Vergine Maria», documento in cui afferma il carattere straordinario dell’accadimento.
Dopo il miracolo della Vistola» nasce di necessità e di fatto la riflessione socialcomunista sulle modalità di conquista del potere in paesi i cui popoli non sono soltanto società elementari — dominanti e dominati — e in qualche modo statiche, ma sono segnate dalla dinamica della storia, cioè sono «nazioni», e caratterizzate da un’articolazione pluralistica, quindi sono «democrazie»; dunque si articola l’incarnazione culturale dell’impero socialcomunista.
«In Oriente lo Stato era tutto, la società civile era primordiale e gelatinosa: nell’Occidente fra Stato e società civile c ‘è un giusto rapporto e nel tremolio dello Stato si scorgeva subito una robusta struttura della società civile. Lo Stato era solo una trincea avanzata, dietro cui stava una robusta catena di fortezze e di casematte»: su questa constatazione di Antonio Gramsci si fonda la riflessione che vede all’avanguardia la Rivoluzione in Italia; riflessione che subirà un’accelerazione dopo la «lezione spagnola» del 1936-1939, e il cui frutto sarà sperimentato in Cile negli anni di Salvador Allende come «rivoluzione nella libertà» e conoscerà il suo apice come «eurocomunismo» nella politica italiana di «compromesso storico», arrestata nel 1979 dalla «lezione italiana», tutt’altro che insignificante per il decorso e per l’esito della Rivoluzione mondiale nell’intero mondo cattolico ma, soprattutto, in America Latina.
Il tempus meditandi et lugendi concesso dalla divina Provvidenza a quanto rimane della Cristianità, all’Europa cristiana, è rapidamente cancellato dalla memoria storica e, quindi, messo in condizioni di non esser fatto fruttare adeguatamente; e nel 1939, all’inizio della seconda guerra mondiale, scocca l’ora della «vendetta» sul «miracolo della Vistola» e, con il patto Molotov-von Ribbentrop, vengono poste le premesse perché dell’antemurale polacco non rimanga pietra su pietra.
Anche il dopoguerra della terza guerra mondiale offre a tutti gli occidentali — in un certo senso a tutti gli uomini — un , un tempo per riflettere sulla domanda: anzitutto, che cosa hanno fatto gli europei del tempo che è stato loro dato dopo la Grande Guerra, attraverso la vittoria polacca, prima dell’irruzione del socialcomunismo in Europa e nel mondo a partire dalla fine della seconda guerra mondiale?
Quindi: che cosa stiamo facendo del tempo che ci viene concesso dopo l’implosione dell’impero socialcomunista, grazie anche alla resistenza polacca e all’opera del Papa polacco? In quest’ultimo caso, si tratta di un tempo in cui la promessa di Fatima — «Infine, il mio Cuore Immacolato trionferà» — si presenta agli uomini come una meta non solo da attendere e per cui pregare, ma al cui perseguimento e al cui raggiungimento collaborare attivamente. La mancanza di questa collaborazione umana, cioè la mancata utilizzazione efficace di questo tempo di riflessione e di conversione, apre però sull’eventualità che la punizione, in qualche modo sospesa, si realizzi e il giudizio abbia corso.