Avvenire 9 ottobre 2015 – lettere al direttore
I divieti previsti diventerebbero subito discriminazioni che le Corti europee cancellerebbero
Caro direttore,
i precedenti non mancano. Il più emblematico è quello della legge 194/1978 sulla «interruzione volontaria della gravidanza»; il comma 1 del suo art. 1 recita testualmente che «lo Stalo (…) riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio». Peccato che poi il resto della legge disciplini l’aborto su richiesta, quindi neghi «la vita umana dal suo inizio», e vada in senso contrario al «valore sociale della maternità», permettendo di sopprimere «legalmente» colui/colei che rende madre una donna.
Con la nuova – si fa per dire – ipotesi di testo sulle unioni civili la scena rischia di ripetersi: l’art. 1, recependo l’emendamento di un gruppo di senatori del Pd, qualifica l’unione fra persone dello stesso sesso come «specifica formazione sociale» per distinguerla dalla famiglia fondata sul matrimonio; ma poi il testo individua un regime in larghissima parte sovrapponibile a quello del matrimonio e pone le condizioni perché in breve tempo l’assimilazione sia integrale.
Così, infatti, quello che oggi manca sarà completato da chi arriverà per prima fra le due Corti europee: esse finora hanno sempre scritto che – salvi i diritti essenziali – ciascuno Stato ha piena autonomia nel normare i conviventi e i coniugi in modo distinto o eguale; se però un ordinamento di fatto pari fica la disciplina delle convivenze a quelle delle coppie sposate, diventa discriminatorio escludere per le prime ciò che si prevede per le seconde.
Non sappiamo ancora quale sarà il testo su cui si esprimerà il Senato. Ma sappiamo che nel testo, così com’è, la prima applicazione concreta riguarderebbe i figli: oggi infatti il ddl sulle unioni civili rilancia la stepchild adtption, cioè la possibilità per il convivente dello stesso sesso di diventare genitore adottivo del figlio biologico del partner. Se si aprirà davvero questa strada, domani sarà necessario rimuovere la “discriminazione”: finora la stepchild adoption, nelle rare sentenze di tribunali italiani che l’hanno riconosciuta, ha riguardato l’unione civile costituita da due donne; ma perché mai non dovrebbe interessare anche due uomini conviventi? E come realizzarla?
Legittimando la coppia dello stesso sesso alla domanda di adozione di figli estranei alla coppia; ovvero – ma non in alternativa – permettendo di “commissionare” i figli a una donna destinataria del seme di uno dei due o di entrambi. L’utero in affitto sarebbe lo sviluppo coerente del ddl; chi – fra i sostenitori del testo – nega sdegnosamente questa prospettiva e chiama in causa il divieto già contenuto nella legge sulla fecondazione artificiale non considera che più d’un giudice – da ultimo, il Gip di Napoli – ha scritto in sentenza che quella preclusione è aggirabile “legalmente” se l’utero è stato “affittato” fuori dai confini nazionali.
Un gruppo di senatori di Area Popolare e di Forza Italia hanno proposto una riscrittura “rinforzata” del divieto: in Commissione è stata bocciata, a conferma che i promotori delle unioni civili negano l’utero in affitto a parole, ma non lo respingono nei fatti. Arrivare nell’aula del Senato imponendo un testo che contiene perfino qualcosa di più rispetto a quanto finora discusso – per esempio la riconoscibilità dei matrimoni gay contratti all’estero – avrebbe il significato dell’arroganza ideologica.
Se la preoccupazione fosse di mettere in chiaro, uno dietro l’altro, i numerosi diritti riconosciuti ai componenti di una convivenza, a prescindere dal sesso, si iscriverebbe all’ordine del giorno il testo unico Sacconi-Pagano, che fa emergere tutto quel che già esiste nell’ordinamento: costituirebbe un punto di arrivo rassicurante e non incontrerebbe opposizione da parte di nessuna persona ragionevole.
Alfredo Mantovano
vicepresidente del Centro studi Levatino
Massimo Introvigne
presidente del Comitato Sì alla famiglia