L’uomo della tarda modernità sembra non più fruire della posizione d’eminenza definita in altre epoche della sua storia: l’erosione, intuita già dalle correnti strutturaliste negli anni Sessanta e Settanta del passato secolo, trova a terzo millennio inoltrato riscontri manifesti in numerosi teorici delle tecnoscienze.
In queste pagine Hervé Pasqua, rettore dell’lnstitut Catholique di Rennes e docente di Filosofia nell’Università della Borgogna, delinea i tratti salienti delle antropologie nuove che vanno maturando sulla scorta degli sviluppi tecnico-scientifici. In particolare l’autore mostra come la perdita di fondamentali categorie dell’ontologia classico-cristiana porti l’uomo a farsi esperimento continuo di sé, nel folle progetto di realizzarsi come oltreuomo chiuso alla trascendenza divina
di Hervé Pasqua
(Traduzione di Andrea Vannicelli)
La filiazione umana si presenta da un lato come avente in comune con la filiazione divina il fatto d’essere personale; dall’altro, si distingue da essa come anche la creazione si distingue dalla generazione.
Vorremmo mostrare, in questa breve riflessione, che il concetto di filiazione umana conferma questa tesi. Di fatto, la filiazione ha la sua origine fuori di sé e si afferma perciò come opera di una creatura generata e creata. Rifiuta l’auto-fondazione e contraddice la morte del Padre, cioè la morte di Dio. Nulla viene da noi. Non possediamo niente che non abbiamo ricevuto.
Nascere, non vuoi dire venire dal nulla. Non è possibile disgiungere la nascita dal passato, dall’origine. Si tratta di un’origine biologica. Il dono della vita è una trasmissione che passa attraverso l’atto naturale della riproduzione. La procreazione umana si distingue però dalla procreazione animale perché è un atto libero e amorevole. Consiste in un atto etico aperto alla vita che un altro uomo è in diritto di ricevere. In questo senso, la generazione naturale si distingue dalla produzione tecnica.
La trasmissione della vita presuppone il dono. Il dono della vita si distingue da chi la dona e da chi la riceve. Negare questa distinzione vuoi dire ridurre il dono a una donazione astratta che si confonderebbe con la vita in generale. La vita verrebbe allora ridotta a una forza cieca costitutiva di tutto ciò che vive, senza tener conto delle differenze tra gli esseri viventi. Si tratterebbe di una totalità anonima contro la quale la differenza sarebbe da costruire.
La differenza, nella fattispecie, non sarebbe data, ma da farsi: si tratterebbe di un progetto. La «teoria del genere» si pone in questa prospettiva, sostenendo che la differenza sessuale non è determinante per la filiazione. La differenza naturale tra maschile e femminile potrebbe far posto a un progetto culturale fondato sul semplice riconoscimento di un’alterità, qualunque essa sia. In questo contesto si è sostenuta la «morte del Padre».
Ne è risultata l’idea che la filiazione deve bastare a sé stessa. L’uomo sarebbe per sé medesimo il dono di sé stesso. L’essere è sostituito dal fare. Non esisterebbe un antecedente. Ciò che esiste, esisteva già: la vita perciò sarebbe fonte anonima di sé stessa, una sorta di nascita continua. Vorremmo brevemente mostrare che tale concezione, alla base delle attuali teorie sulla filiazione, poggia su cattive basi e conduce a un’impasse.
La distinzione fra «praxis» & «poiesis»
Nel parlare d’azione, occorre distinguere tra agire e produrre, praxis e po’iesis. La praxis differisce dalla poìesis: l’agire non corrisponde al fare. La finalità della poiesis è la produzione di una realtà esterna al soggetto. Produzione di qualcosa di bello, come nel caso dell’artista che produce un’opera d’arte: la statua, il quadro, la cattedrale, sono presenti davanti a me, sono offerti alla mia contemplazione. La poìesis può anche essere produzione di qualcosa di utile, come nel caso dell’artigiano che fabbrica un mobile, un tavolo, una sedia, oggetti che sono davvero davanti a me, offerti al mio uso personale.
La finalità della praxis rimane invece all’interno del soggetto che agisce, come nel caso dell’uomo buono, ed è di natura etica: agendo bene, per esempio facendo l’elemosina, l’uomo diventa più generoso. Questa distinzione, applicata alla generazione umana, permette di capire che essa comprende sia praxis sia poìesis. Da un lato i genitori, generando un bambino, danno vita a un altro uomo: l’effetto della loro azione è a loro esterno.
D’altro canto però, dando la vita, diventano essi stessi genitori: l’effetto della loro azione rimane in loro. Generare significa dare la vita senza perderla. Nel darla, il genitore non diventa un altro, il suo essere non passa in colui al quale lo dona. Il dono della vita non cancella la differenza tra chi la dona e chi la riceve. L’atto del dono non è ontologico, ma etico: è un atto di generosità conforme al bene diffusivum sui (che cioè si diffonde per sua natura). Non è un passare dall’essere dell’uno a quello dell’altro, poiché l’essere è ciò che non passa. Chi riceve la vita, la riceve con un atto d’essere che gli è proprio. «Vivere, per un essere vivente, significa essere» (1).
Nel dare la vita a un altro uomo, l’uomo e la donna si arricchiscono sul piano umano: diventano padre e madre. Approfondire tale riflessione — cosa che non ci è possibile fare i questa sede — mostrerebbe che senza paternità non può darsi filiazione. La «morte del padre», intesa come assenza di un’origine, comporta la morte di qualsiasi possibile filiazione. Non si da figlio senza padre.
Il nichilismo risulta dalla negazione d’ogni origine. La parola nihilum è suggestiva al riguardo, se è vero che la sua etimologia rinvia all’hilum, ovverosia al filo grazie al quale ciò che è si riannoda all’origine del proprio essere. Il filo della filiazione pone ogni essere vivente in stato di dipendenza dai suoi genitori. La filiazione umana si caratterizza altresì per il fatto che l’uomo e la donna possono decidere liberamente di dare alla luce un bambino. La libertà non è ciò che si oppone alla natura, cioè all’essenza. Opporre libertà e natura, significa opporre l’uomo alla sua essenza.
In questa prospettiva, l’uomo non sarebbe più come nasce, ma come progetterebbe di essere. L’esistenza diventerebbe proiezione; l’uomo risulterebbe strappato a sé stesso, gettato fuori e abbandonato a sé senza alcun legame che lo riconduca a una qualunque origine. Essere libero significherebbe allora nascere a sé: io sarei il prodotto della mia azione. «Fare e, facendo, produrmi», tale è il motto del progetto prometeico mediante il quale l’uomo prende il posto di Dio creatore.
Questo progetto lo ritroviamo nel postmodernismo tecnoscientifico. È rafforzato dal progresso scientifico e tecnologico che permette di sperare che l’uomo sarà prodotto e non generato. La libertà, in quest’ottica, è materialmente, fisicamente, biologicamente operativa, vale a dire capace di attualizzare tutto ciò che è possibile: essere vuoi dire poter essere prodotto. La libertà è messa al servizio dell’autonomia della persona.
Tuttavia le persone non s’identificano più con gli esseri umani, vale a dire con gli «animali dotati di ragione». L’umano si riduce a una specie biologica, apparsa nel corso dell’evoluzione, ma potrebbero esserci persone biologicamente diverse dagli attuali umani. Perciò gli umani che desidereranno modificare la propria forma corporale o la loro eredità biologica in funzione delle loro scelte saranno ridotti allo stato di artefatto.
Il postmodernismo tecnoscientifico apre la porta alla possibilità di una ri-creazione cosmica. «Se la natura umana non ha più nulla di sacro (vale a dire se non c’è più natura umana)», scrive H. T. Engelhart nel 1986, «non ci sono ragioni perché essa non venga radicalmente modificata…». Cambiamenti profondi sono inevitabili, secondo Engelhart, e non c’è motivo di pensare che solo una specie deriverà dalla nostra. I presupposti e le conseguenze di una tale concezione sono evidenti: portano al rifiuto di una natura umana che rinvierebbe a un Creatore. Si tratta, in fin dei conti, di un nichilismo che nega tutto ciò che è. La sua formula è: fare, rompendo ogni legame che tesse l’esistenza dell’uomo.
I teorici della cultura tecnoscientifica credono nella capacità di migliorare e di trasformare radicalmente la condizione umana, che da loro non viene più giudicata come immodificabile. Professano così una fede inedita nell’avvenire, che riposa esclusivamente sul progresso della tecnica. Questo progresso consiste in una crescente individuazione degli oggetti tecnici e dell’uomo come produzione anch’esso tecnica, e tende alla assolutizzazione della tecnica la quale consacra la totale autonomia di ciò che è autoproduzione.
L’oggetto tecnico finisce allora con l’imporre le proprie norme alla condotta umana, norme che sarebbero oggettive e universali in virtù di una «normatività intrinseca e assoluta» (2). La libertà consiste, secondo questa sinistra prospettiva, nello scegliere le norme che orientano il progresso e la ricerca. I grandi progetti tecnoscientifici riguardano ormai non tanto la potenza o la gloria di una determinata nazione — come accadde con i progetti di egemonia mondiale del nazismo e del comunismo — quanto piuttosto l’evoluzione della specie umana.
Se il nuovo diventa criterio del vero
Certo, l’emancipazione consentita dallo sviluppo della tecnoscienza risiede nelle sue virtù liberatrici rispetto alle servitù materiali della condizione «incarnata» dell’uomo. Tuttavia il carattere «oggettivo e universale» della nuova normatività che essa impone non è mai definitivo, poiché lo sviluppo tecnoscientifico è sempre in movimento e in evoluzione. Il nuovo è qui criterio del vero. Detto altrimenti, non c’è una verità permanente e immutabile. Una società che si adegua a questo sviluppo è quindi chiamata a inventarsi forme e norme sempre nuove. Ragion per cui essa rifiuta qualsiasi affermazione «identitaria» della verità, qualsiasi istituzione come la Chiesa, depositaria della verità rivelata e immutabile, e inventa un’inedita forma d’intolleranza: l’intolleranza proveniente dall’imperativo del cambiamento tecnoscientifico.
Il dottor Frankenstein aveva concepito il progetto di una produzione dell’uomo attraverso la sua disorganizzazione, in vista della sua riorganizzazione. Oggi Frankenstein è diventato un clone. Il clonaggio umano si scontra però con un problema di natura metafisica, quello di un doppio esatto dell’uomo, che sarebbe un altro sé stesso. È proprio questo problema dell’altro che riguarda la questione della salvezza. La salvezza, in questa ottica, consiste in effetti nel diventare un altro, nell’ex-sìstere uscendo da sé mediante la pratica di un distacco ontologico. Le modalità tecnoscientifiche sono tali che l’idea di creazione è rifiutata. Eppure la filiazione mette in luce la necessaria articolazione dello stesso e dell’altro. Essa squalifica la volontà di ricondurre l’altro allo stesso e abbandona l’altro alla sua alterità.
La filiazione è collegata per natura, vale a dire per essenza — poiché la nascita ha a che fare con l’essenza — a un padre e a una madre. Il legame tra il padre, la madre e il figlio o la figlia è un legame che permette di capire che l’uomo non è un individuo isolato, ma che è uno zoon politikon, un essere vivente sociale. Ragion per cui è la famiglia la cellula costitutiva della società, non l’individuo. È il progetto prometeico che vuoi fare dell’uomo un dio, facendone un essere autosufficiente e autofondato, a rimettere in discussione il riconoscimento del legame naturale che unisce padre, madre e figlio.
La filiazione non è una differenziazione che crea un altro senza riferimento allo stesso. L’identità famigliare è il fondamento dell’identità sociale. Tuttavia tale identità a sua volta è un’identità vivente, non una totalità negatrice. È un’unione che unisce tra di loro coloro che sono altri e che si rapportano a un’origine comune. In origine, c’è l’unione feconda di due esseri diversi e non l’unità sterile di uno stesso essere. Quest’origine suppone la differenza dei sessi, una differenza naturale e non culturale, cioè non soltanto biologica, ma essenziale; e, in un certo senso, essenziale perché biologica.
Il dibattito attuale sulla differenza dei sessi, trattata come se essa fosse una tra l’infinità delle differenze possibili, dibattito che rende ogni identità sospetta e ogni unione dubbia, conduce alla «teoria del genere»: ogni genere sarebbe opera della cultura e non della natura.
In questa prospettiva, la filiazione corrisponderebbe a un progetto da mettere in atto e risulterebbe da una produzione escludente la generazione naturale, vale a dire l’unione naturale dei sessi, a vantaggio di una produzione tecnica. Un figlio non sarebbe più una parte di sé stesso, grazie al quale il padre e la madre perpetuano la discendenza; non sarebbe il frutto di una procreazione, bensì di una produzione programmata. Non serve più che ci sia un genitore perché ci sia un padre, né una genitrice perché ci sia una madre e perché nasca un figlio. Basterebbe che il figlio fosse istituito dal diritto di nascere o di non nascere.
I figli non avrebbero di conseguenza più necessità di credere che i genitori siano l’unica fonte della loro vita, poiché la «vita», come il «Grande Veicolo» del buddhismo, è essa stessa ciò che si trasmette o che si dona senza differenziare chi la dona, ciò che è donato e chi la riceve. Ci troviamo davanti alle ultime conseguenze della negazione della natura e, in ultima analisi, della nozione di creazione.
I tecnofili nutrono quindi una fiducia ottimistica nel divenire umano, che sostituirà la natura umana grazie all’avventura tecnoscientifica. Pensano che ormai l’uomo diventerà padrone e possessore di sé stesso. L’esistenza sarebbe esclusivamente nelle sue mani e la sua azione diventerebbe teurgica, poiché si vuoi fare dell’uomo il creatore dell’uomo. In realtà, si tratta di una fiducia illusoria, basata sull’idea che i problemi dell’umanità siano tecnici, e quindi risolvibili grazie allo sviluppo tecnoscientifico e a quello dell’organizzazione sociale.
Questo progresso d’ordine escatologico consiste nell’utopia realizzata e coincide con la fine della storia: fine che significa che l’uomo sarà interamente rassegnato a morire. Morirà guarito da una morte felice (eutanasia).
Questa tecnofilia sfocia alla fine in un umanesimo mediocre chiuso alla trascendenza. In realtà, la vera coerenza della cultura tecnoscientifica conduce a una visione tragica dell’esistenza ripiegata su sé stessa e identificata con la sofferenza. La tecnofilia rappresenta per di più una minaccia. Oggi si può costatare che, di fatto, gli interventi sulla natura mettono in pericolo i grandi ritmi e gli equilibri della biosfera, l’autoconservazione della natura. Inoltre l’esistenza dell’umanità è in balìa dei mezzi tecnologici di distruzione di massa. Infine, l’essenza dell’uomo è messa in pericolo perché le tecnoscienze si occupano sempre più dell’essere umano come di una realtà biofisica modificabile, manipolabile e operabile a piacimento.
Perché il sapere scientifico non può avere valore morale
In questo contesto, la salvezza si configura come un «si salvi chi può». Occorre, a tal fine, accumulare il massimo della potenza grazie al progresso della tecnoscienza per staccarsi da tutti i condizionamenti naturali, da tutto ciò che limita l’uomo o arreca pregiudizio alla sua salute. L’azione deve diventare produttrice di un altro uomo, essa farà dell’uomo un dio per l’uomo. Tale progetto di un uomo nuovo si rivela, tuttavia, disumano.
Questo «disincanto» è caratterizzato dalla scomparsa di qualsiasi spiegazione religiosa della vita. La religione è sostituita dalla scienza, la quale vede nella realtà esterna a ogni organizzazione razionale soltanto un insieme di forze cieche, prive di significato trascendente, le quali vanno sottomesse a un ordine. In un mondo senza Dio, spogliato del suo fascino, le società si ritrovano a poco a poco assoggettate alla tirannia della ragione tecnoscientifica e corrono il rischio di diventare sempre più dispotiche, trasformandosi progressivamente in realtà burocratiche.
«Tra la libertà e me», diceva Victor Hu-go, «si frappongono ventimila leggi». Oggi avrebbe detto: «duecentomila leggi»! Un mondo noioso e inquietante si sostituisce così, insensibilmente, a un universo poetico e religioso. In effetti, se «è possibile controllare tutto mediante il calcolo» (3), ciò che è si riduce a ciò che è calcolabile, cifrabile, vale a dire a ciò che non è. Almeno se risaliamo all’origine araba della parola Zifr, dalla quale viene la nostra parola cifra. Zifr vuoi dire zero, nulla.
Il calcolo umano, divenuto onnipotente, è capace, di fatto, di ridurre qualsiasi situazione umana a un dato quantificabile, a un problema da risolvere, a una realtà da dissolvere. A forza di aspettarsi tutto dal calcolo, il potere calcolatorio acquista una dimensione magica e fa scomparire ciò che è a vantaggio di ciò che non è, rendendosi «padrone e possessore della natura».
Le scienze, accanto a un progresso incontestabile i cui benefici inondano la vita quotidiana, finiscono, come abbiamo visto, per pretendere di avere un valore normativo in campo morale, dettando i comportamenti e imponendo la loro immagine dell’uomo e del mondo. L’esperienza insegna invece che, a mano a mano che chiediamo al sapere scientifico soluzioni per i problemi della vita, ci allontaniamo dalla saggezza. La scienza diventa mitogena e la speranza impazzisce, per riprendere una formula di Chesterton.
Di conseguenza, escludendo qualsiasi tipo di spiegazione metafisica o teologica, vale a dire non scientifica, dell’esistenza, il disincanto del mondo porta alla mistificazione della ragione scientifica. Che esista qualcosa e non il nulla, tale è la causa del taumazein, di quella meraviglia che feconda la vita dell’intelligenza. Questo punto di partenza ha ispirato le più alte opere dei filosofi greci e dei teologi cristiani.
Facendo della realtà un punto d’arrivo, una produzione della ragione tecnica, le teorie moderne della conoscenza hanno chiuso l’intelligenza alla trascendenza. Le conseguenze per la vita umana sono terribili: l’uomo, ormai «solo sul suo pianeta in viaggio», secondo l’aforisma del filosofo Alain, è condannato a errare alla ricerca di un senso cui finisce per rinunciare, perché da solo non può rinvenirlo.
1) Aristotele, De anima II, 37.
2) Gilbert Simondon, L’individuation psychique et colìective, Aubier, Parigi 1989.
3) Max Weber, La scienza come vocazione, in Gesammelte Aufsàtze zur Wissenschaftslehre, Mohr, Tubingen J.C.B. 1951, p. 578.