L’intervento dell’arcivescovo di Trieste alla Marcia per la vita: «Negare la natura apre la porta culturale alla manipolazione»
di mons. Giampaolo Crepaldi
1. Dedico questo mio intervento ad una riflessione sulla centralità del tema della difesa della vita umana fin dal concepimento per la Dottrina sociale della Chiesa e, in generale, per continuare a permettere che la religione cattolica abbia un ruolo pubblico, come deve necessariamente avere. Ritengo importante situare la riflessione sulla difesa della vita, anche quella condotta dal punto di vista scientifico-medico come viene fatto in questo convegno, dentro la Dottrina sociale della Chiesa, ossia dentro il rapporto della Chiesa con il mondo.
Perché in questo consiste il ruolo pubblico della fede cattolica, che non parla solo all’interiorità delle persone, ma esprime la regalità di Cristo anche sull’ordine temporale e attende la ricapitolazione di tutte le cose in Lui, Alfa e Omega. La regalità di Cristo ha un significato spirituale, certamente, ma ne ha anche uno cosmico e sociale. Senza questa dimensione pubblica, la fede cattolica diventa una gnosi individuale, un culto non del Dio Vero ed Unico ma degli dèi, una setta che persegue obiettivi di rassicurazione psicologica rispetto alla paura di essere “gettati” nell’esistenza.
2. Innanzitutto il tema della difesa della vita porta con sé il messaggio della natura. Ci dice che esiste una natura e, in particolare, una natura umana. Non ci sono altre motivazioni valide per chiedere il rispetto del diritto alla vita e, per contro, chi non lo rispetta è perché nega l’esistenza di una natura umana o la riduce ad una serie di fenomeni governati dalla necessità. La vita, invece, ci riconduce alla natura orientata finalisticamente, come lingua, come codice.
La nostra cultura ha perso l’idea di fine. Ha cominciato a perderla quando Cartesio ha interpretato il mondo come una macchina e Dio come colui che ha dato un calcio al mondo, o forse anche prima. Oggi viviamo in una cultura post-naturale, come dimostra ampiamente il perversare dell’ideologia del gender, da vedersi come una cultura post-finalstica. Il principio di causalità, che nella filosofia classica, era connesso con quello di finalità, se ne è staccato. La realtà non esprime più un disegno ma solo una sequenza di cause materiali. Rilanciare una cultura della difesa della vita significa allora anche recuperare la cultura della natura e la cultura dei fini.
3. Il concetto di natura porta con sé la dimensione dell’indisponibile. Se la natura è “discorso” e “parola”, essa esprime un senso che ci precede. Non siamo solo produttori di parole, siamo anche uditori della parola che promana dalle cose, dalla realtà, dalla sinfonia dell’essere. Ammettere la vita come dono inestimabile significa riconoscere che nella natura c’è una parola che ci viene incontro e che ci precede. Ogni nostro fare deve tener conto di qualcosa che viene prima: il ricevere precede il fare. C’è qualcosa di stabile prima di ogni divenire.
Negare la natura apre la porta culturale alla manipolazione della vita, perché viene meno la dimensione dell’accoglienza e della gratitudine. Non si è accoglienti e grati nei confronti di ciò che produciamo noi, ma solo di ciò che ci viene incontro e si manifesta come un dono di senso. Se questa dimensione viene meno a proposito della vita nascente si indebolirà anche in tutte le altre situazioni della vita e la società perderà inesorabilmente la dimensione della reciproca responsabilità, come afferma la Caritas in veritate al paragrafo 28.
4. Se la natura è un discorso che ci interpella non ne è però il fondamento ultimo. La natura non dice mai solo se stessa. La vita nascente non dice mai solo se stessa. È discorso che rimanda ad un Autore. Anche nella persona umana nessun livello dice solo se stesso e non c’è nulla nell’uomo di esclusivamente materiale. Nessun livello della realtà è pienamente comprensibile rimanendo al suo proprio livello. Quando pretendiamo di considerare qualcosa solo al suo livello finisce che non la consideriamo più nemmeno a quel livello.
Il Cardinale Caffarra, questa mattina, ha concluso la sua Lezione con una citazione da Gómez d’Ávila, autore che riprendo qui volentieri anch’io: «Quando le cose ci sembrano essere solo quel che sembrano, presto ci sembreranno essere ancor meno. La natura rivela il Creatore, si presenta non solo come discorso ma anche come “discorso pronunciato”, come Parola. Quando si è tentato di staccare la natura dal Creatore si è finito per perdere anche la natura. Quando si vuole staccare il diritto naturale dal diritto divino si finisce per perdere anche il diritto naturale. Quando si stacca la dimensione fisica della persona dalla sua dimensione spirituale e trascendente si finisce per non tutelare più nemmeno la sua dimensione fisica. Se si pensa che la natura dica solo se stessa finisce che la natura non ci dice più niente.
Oggi la vita nascente rischia di non dire più niente, ossia di non venire nemmeno più compresa come vita nascente, ma come semplice processo biologico. Nei suoi confronti ci si comporta sempre più come produttori piuttosto che come uditori. Ma non è la natura a non dirci più niente, è la nostra cultura che ha perso il codice per comprenderla. E questo codice non è solo un alfabeto umano.
5. Allora il tema della difesa della vita rimanda alla natura, rimanda a quanto ci precede e rimanda al Creatore. Difendere la vita è difendere la vita, ma è anche fare un’operazione culturale alternativa alla cultura attuale: ricominciare a parlare di un ordine e non solo di autodeterminazione. C’è un ordine che ci precede voluto da un Ordinatore. Il Creato è un ordine e non un mucchio di cose gettate a caso. Questo ordine è ordinato ed ordinativo, ossia esprime un dover essere e un dover fare. In altre parole è un ordine morale. Se quello ontologico è un ordine, non può non tradursi in un ordine morale. Eliminato il bene ontologico non c’è più spazio per il bene morale. All’ordine morale radicato nell’ordine ontologico appartiene anche la società, la convivenza umana.
Ecco perché il tema della difesa della vita è centrale per la costruzione della convivenza umana degna della dignità naturale e soprannaturale della persona. Ecco perché – credo di poter dire – negli elenchi dei cosiddetti “principi non negoziabili” che in varie occasioni il Sommo magistero della Chiesa ha formulato, il principio del rispetto della vita figura sempre al primo posto e non manca mai.
6. Solo se c’è una natura, e solo se questa natura è in sé un discorso, è possibile l’uso della ragione. Parlo qui non della ragione misurante i fenomeni, ma della ragione che scopre orizzonti di senso. Solo se l’ordine sociale si fonda su una simile natura è possibile l’uso della ragione pubblica. Viceversa, si avrà solo la ragione procedurale. Si capisce quindi perché la difesa della vita abbia una importanza fondamentale per ricostruire la possibilità stessa di un uso pubblico della ragione. Ed infatti – lo vediamo – la negazione del dovere pubblico di proteggere la vita nascente nasce da una diserzione della ragione ad essere ragione pubblica, riducendosi a ragione privata.
La verità accomuna, le opinioni dividono. È molto significativo che anche filosofi come Habermas abbiano di recente riconosciuto la fondamentale importanza del concetto di natura, visto ancora in senso non pieno, ma comunque tale da riconoscere i limiti di una ragione solo procedurale, con il che il dialogo pubblico è inquinato in partenza.
7. L’uso pubblico della ragione è di fondamentale importanza per il ruolo pubblico della fede cattolica. Questa, infatti, non trasferisce immediatamente il diritto rivelato nel diritto civile, ma si affida al diritto naturale, quindi al concetto di natura e di ragione pubblica. A quest’ultima spetta il compito di riconoscere l’ordine sociale come un discorso finalistico sulla convivenza umana. La fede non si sostituisce alla ragione. Ma non la abbandona nemmeno a se stessa. Se non c’è ordine naturale non c’è ragione pubblica, se non c’è ragione pubblica non c’è dialogo pubblico tra ragione e fede. Se non c’è dialogo pubblico tra ragione e fede non c’è dimensione pubblica della fede cattolica. Se non c’è dimensione pubblica della fede cattolica non c’è la fede cattolica.
Lo riscontriamo: man mano che la ragione si privatizza anche la fede si privatizza. Se il credente, quando entra nella pubblica piazza, deve rinunciare alle ragioni della propria fede, alla fine pensa che la propria fede non abbia ragioni. Ma senza ragioni viene meno non solo il versante pubblico della fede, bensì anche quello personale ed intimo. Ecco perché il tema della difesa della vita umana fin dal concepimento è fondamentale per mantenere e sviluppare il dialogo tra la ragione e la fede. E, come si sa, proprio in questo consiste la Dottrina sociale della Chiesa.
8. Da queste semplici e sintetiche osservazioni risulta tutta l’importanza non solo della Marcia di domani, ma anche di questo convegno. Tutta l’importanza del multiforme impegno di chi mi ascolta e delle realtà associative che ognuno di voi ha dietro di sé, a difesa della vita umana nascente. Risultano anche, per contrasto, le gravi conseguenze che un affievolimento di questo impegno porta con sé, e non solo in ordine al tema specifico, appunto la difesa della vita, ma anche in ordine alla vita della fede. La fede nella vita è benefica anche per la vita della fede.
Per ottenere questo risultato è necessario collocare il tema della difesa della vita dentro la Dottrina sociale della Chiesa, come del resto ha fatto il Magistero a cominciare dalla Evangelium vitae. In questo caso non si chiude il tema della vita dentro un recinto. In realtà così facendo lo si colloca là dove la Chiesa si interfaccia con il mondo e dove ragione pubblica e fede pubblica dialogano tra loro dentro l’unità della Verità.