di Augusto Del Noce
Nella bellissima lettera aperta indirizzata a Salvatore Valitutti, Presidente della Commissione della Pubblica istruzione al Senato, è apparsa su queste colonne il 14 marzo, Giovanni Gozzer ha insistito su quel «fatto politico di eccezionale importanza» così da esser detto veramente segno dei tempi, però generalmente trascurato dalla stampa quotidiana, e non sufficientemente valutato dai politici, che è stata la marcia pacifica su Versailles di 800.000 cittadini francesi, di tutte le estrazioni e orientamenti, in favore della scuola libera. A quel che egli dice e che io sottoscrivo riga per riga, aggiungo alcune considerazioni che mi sembrano perfettamente concordanti .
Benissimo ne ha compreso il senso l’arcivescovo di Parigi, Cardinale Lusiger, pronunziando, nel suo discorso ai partecipanti, le parole che Gozzer ha riferito: «Nessun partito, nessuna Chiesa, nessuna organizzazione specifica, a sfondo sindacale o politico potrebbero connettersi o rivendicare la vostra appartenenza a loro. I vessilli non sono né politici né religiosi; vogliono solo dire che c’è un inalienabile diritto di scelta dei propri vessilli» e aggiungendo in una successiva intervista «per me l’essenziale in questa materia è che venga riconosciuto il diritto delle famiglie a decidere liberamente dell’educazione dei figli».
La crisi della famiglia è sotto gli occhi di tutti. Ma che rapporto ha con la questione scolastica? Perché, a curarla, si rivendica il principio della scuola libera? Al fondo c’è una crisi più profonda, la crisi dell’idea di laicità.
Prendo la cosa un po’ alla lontana. Ricordo di aver letto, or è trascorso molto tempo, il libro di un grande giornalista americano, finissimo interprete dei fenomeni morali del nostro tempo, Walter Lippman, sul possibile declino delle democrazie. Vedeva egli la minaccia che gravava su di esse nell’eclissi dell’idea di una legge comune trascendente, della idea di legge naturale insomma, obbligante l’intera comunità dei mortali, Papi e imperatori inclusi; certamente veniva spesso trasgredita, ma non però, almeno generalmente, negata nel suo principio.
Il fenomeno nuovo, successivo alla seconda guerra mondiale, era da lui ravvisato nella progressiva scomparsa di questo «mondo comune» di riferimento ai valori e nella sua sostituzione col principio che «quel che è giusto, quel che è vero, quel che è buono, è soltanto quel che l’individuo ha scelto di diventare». Spariva così la distinzione tra liberà e licenza, perché era la credenza in quest’ordine trascendente a fondare la loro diversità; che sia oggi scomparsa non v’è chi non lo veda.
Il pericolo che il Lippman ravvisa intono alla metà degli anni ’50 si è pienamente realizzato negli anni ’70. Successivamente trovai le stesse idee, più motivate teoricamente, in uno dei maggiori, se non il maggiore,tra i filosofi della politica contemporanea, Leo Strauss, nella sua critica del «diritto naturale moderno» che, ponendo a diversità di quello classico, i diritti a fondamento della società genera quel che sul dirsi «permissivismo».
«Permissivismo» e «consumismo» sono termini entrati così nell’uso da apparire logori, senza però che ci sia chiarezza di idee sulla loro genesi e su loro significato. Perché «consumismo» non significa affatto aumento dei consumi materiali come comunemente si crede, ma riduzione delle stesse idee a oggetto di consumo, quali strumenti provvisori di stimolo della vitalità. Il disprezzo consumistico degli ideali può permanere anche quando la società cessi di essere «opulenta».
Ma che cosa c’entra, si dirà, questo con la questione della scuola pubblica e della scuola libera o con la riforma della scuola secondaria? Moltissimo. La vecchia scuola laica si professava «neutrale». Lo era, almeno in linea di principio, rispetto alle convinzioni metafisiche e religiose (che poi di fatto spesso non lo fosse, ora non importa; non bisogna però esagerare nell’attribuirle un laicismo aggressivo; io, allievo di scuole laiche, non ricordo alcun mio insegnante che fosse, in questo campo, tendenzioso).
Non lo era però rispetto a quell’ordine morale comune e alla sua obbligatorietà; su questo punto si stabiliva il rapporto di fiducia con la famiglia; libera, questa, di integrare, o no, l’insegnamento morale con quello religioso; né si poteva parlare, in linea generale, di una crisi della famiglia, se la sua funzione essenziale è di trasmettere quelli che erano pensato essere, e sono, i valori permanenti nell’evoluzione storica che erano valori «morali» su cui tutti concordavano.
Ma è chiaro che la scuola laica «neutrale» non può non subire l’influenza della società; gli imperativi categorici della moralità rischiano ora di apparire appartenenti all’archeologia; il consumismo, in quel senso che si è detto, elimina il problema del significato della vita, i valori nel loro senso forte, la finalità; perduto, o messo comunque a repentaglio il momento morale, la scuola «neutrale» si trova a dover accentuare il momento informativo e l’appropriazione di strumenti operativi.
Il che conviene con la tendenza della presente società occidentale all’assolutizzazione del momento economico, assolutizzazione coincidente con la fine dell’etica (che, infatti, viene sostituita dalla sociologia). Con i rischi ben noti e connaturati a questa società, della degradazione dell’uomo a puro strumento produttivo, da riciclare di volta in volta a seconda dei bisogni creati dalla società medesima, o della sua tentazione a ribellioni che vanno dalla droga al terrorismo.
Certamente la categoria degli insegnanti ha fatto molto, almeno in una notevole sua parte, per arginare questo processo; ed è davvero l’ora che le sue benemerenze vengano riconosciute. Resta tuttavia che il male da cui la scuola laico-neutrale è affetta è, oggi, costituzionale. Né vale parlare di sviluppo dello spirito «critico», perché nelle circostanze che si sono dette, il pensiero critico viene inteso non come «distinguente» secondo l’accezione esatta, a come distruttivo e dissolutivo.
Né si vede possibile rimedio alla crisi della scuola idealmente neutrale e in realtà diventata ideologizzata nel modo che si è detto, se non a condizione di riconoscere un effettivo pluralismo nell’istituzione scolastica (direi che il termine «pluralismo», usato oggi al di fuori di ogni possibile misura, ritrova qui un suo significato adeguato); riconoscendo il carattere di servizio pubblico alle scuole libere che diano particolari garanzie di responsabilità educativa e di qualifica culturale. Ciò non già in nome di privilegi clericali, ma di una democrazia liberale,che voglia sottrarsi a quel processo degenerativo che si è accennato.
Ma in Italia le cose come stanno? Non diversamente che in Francia, dato che il fenomeno, nei suoi aspetti morali, investe l’intero mondo occidentale. Che nella classe politica, e anche tra i politici cattolici, ve ne sia una chiara consapevolezza, non direi. E di proposte che mi sembrano alquanto discutibili, sul tempo prolungato e sull’insegnamento etico-religioso scriverò prossimi articoli.