Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuan – Newsletter n.491 – 2 aprile 2014
Fabio Trevisan
Lo storico e filosofo brasiliano Plinio Correa de Oliveira (1908-1995), fondatore dell’associazione TFP (Tradizione, Famiglia e Proprietà), nominato nel 1940 presidente dell’Azione Cattolica di San Paolo, scriveva nel 1959 un saggio di teologia della storia (Rivoluzione e Contro-Rivoluzione) in cui analizzava la crisi e le cinque caratteristiche di questa crisi: 1) universale (ogni popolo ne è colpito), 2) una (non un insieme di crisi), 3) totale (si estende a tutte le potenze dell’anima e a tutti i campi della cultura), 4) dominante (frutto della congiunzione di tante forze impazzite), 5) un processo (non un fatto isolato ma che ha origine nella storia).
La caratteristica di questo processo della crisi è stata riassunta da Papa Pio XII in un discorso del 1952 agli uomini di Azione Cattolica :“Cristo sì, Chiesa no. Poi: Dio sì, Cristo no. Finalmente il grido empio: Dio è morto; anzi: Dio non è mai stato…”. Ciò che ha determinato la crisi, spiegata da Plinio Correa de Oliveira attraverso la categoria di “Rivoluzione”, è stata un’esplosione di due vizi capitali, l’orgoglio/la superbia e la sensualità/la lussuria: “L’orgoglio conduce all’odio verso ogni superiorità: è l’aspetto ugualitario della Rivoluzione. La sensualità non accetta freni e porta alla rivolta contro ogni autorità e ogni legge: è l’aspetto liberale della Rivoluzione”.
Qual è l’essenza della Rivoluzione ? Il disordine, ovvero la distruzione di un potere o di un ordine legittimo (conforme alla vera natura, ad esempio nel matrimonio tra un uomo e una donna). La “Contro-Rivoluzione”, all’opposto, è la restaurazione dell’ordine legittimo e del Regno di Cristo (Sua Regalità anche sociale).
Correa de Oliveira, circa vent’anni dopo (nel 1976), previde una IV Rivoluzione, che anticipò il crollo emblematico del comunismo del 1989:“Essa dovrà essere il crollo della dittatura del proletariato in conseguenza di una nuova crisi…” .Il pensatore brasiliano aveva assistito nel frattempo alla cosiddetta “rivoluzione dei costumi” del 1968 ed all’avvento con i media della “civiltà dell’immagine”,che l’avevano fatto riflettere sul ritorno del tribalismo e del selvaggio e sull’avversione allo sforzo intellettuale: “L’avversione allo sforzo intellettuale, all’astrazione, alla teorizzazione, alla dottrina, può portare soltanto a una ipertrofia dei sensi e dell’immaginazione…”.
Dove siamo?
Dall’analisi della terza tappa del processo rivoluzionario (“Dio è morto”) si sviluppano altre considerazioni che si contrappongono alle categorie di “Rivoluzione” e “Contro-Rivoluzione” e che possiamo riassumere in tre posizioni: la condizione “post-moderna”, il “pensiero debole”, la “società liquida”.
Andiamo con ordine: chi è l’autore del grido terrificante “Dio è morto!”.
Friedrich Nietzsche (1844-1900) nella Gaia scienza faceva esclamare all’uomo folle: “Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli…”. Con la “morte di Dio”, Nietzsche ci fa intravedere come il nichilismo costituisca l’essenza della crisi: “Ciò che io racconto è la storia dei prossimi due secoli. Io descrivo ciò che viene e che non può fare a meno di venire: l’avvento del nichilismo. La necessità stessa è qui all’opera, questo destino si annunzia dappertutto. Tutta la nostra cultura europea si muove come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa…”.
Attraverso i titoli di alcune sue opere, qui sottolineate, Nietzsche descriveva la decadenza della nostra civiltà, il crepuscolo degli idoli e l’annuncio di una nuova aurora, che avrebbe dovuto sorgere dalle ceneri dell’uomo e del Dio che l’uomo ha costruito a propria immagine e somiglianza (è il capovolgimento dell’Anticristo ed il superamento dell’uomo, dell’umano,troppo umano dell’Ubermensch). In un’altra sua famosa opera:“Così parlò Zarathustra”, Nietzsche descrive la civiltà decadente ed il nichilismo attraverso la metafora del cammello.
Il cammello raffigura il portatore del peso dei valori e degli idoli che l’uomo si è creato lungo la storia e che lo appesantiscono nel suo movimento libero e creativo. Egli criticava il “pensiero forte”, quelle che chiamava “maschere metafisiche” che nascondevano la volontà di potenza. Di questo nichilismo parlava anche Martin (1889-1976): “Il nichilismo non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia”. Nell’opera: “Il superamento della metafisica” Heidegger esprime la tesi che la metafisica è l’origine e l’essenza del nichilismo. Questi due autori, Nietzsche e Heidegger, saranno un punto di riferimento per la comprensione della “post-modernità”
La condizione post-moderna
Il filosofo francese Jean-Francois Lyotard (1924-1998), noto come il primo teorizzatore del post-moderno in filosofia, ha pubblicato nel 1979: “La condition postmoderne”, in cui contrappose alla “modernità” delle grandi narrazioni metafisiche (mutuate da Nietzsche in quanto “maschere metafisiche”) l’essenza della condizione post-moderna. Lyotard propose una partizione storiografica tra l’epoca moderna (iniziata nel XVII secolo e proseguita con l’illuminismo, l’idealismo ed il marxismo) e l’epoca post-moderna (affermatasi con Nietzsche e proseguita nel ‘900).
La frantumazione dei sistemi ideologici e totalitari e delle utopie rivoluzionarie ha rappresentato per Lyotard la fine di una concezione della storia come un processo di emancipazione progressiva e di un visione dell’uomo che è “creatore” e protagonista di una civiltà nuova. Traendo le conseguenze da questo nichilismo dei valori ultimi, anzi compiacendosi di questo rifiuto, Lyotard teorizza (come Nietzsche) la scomparsa del soggetto umano, dell’identità personale. Dalla “morte di Dio” alla “morte del soggetto” (ipotizzato nell’ amor fati e alla negazione del libero arbitrio di Nietzsche) il passo è breve.
Se con l’epoca moderna si ha la fine dei grandi sistemi teorici, con la condizione post-moderna si accrescono i processi di atomizzazione e di frammentazione: “La correlazione tra frammentazione dell’identità e immagine frammentata del mondo e dell’uomo è condizionata dai mass media contemporanei, i quali trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare”. La “post-modernità” è una categoria rilevata empiricamente, la presa di coscienza di uno stato di fatto storico. In questo clima di crisi del senso ultimo e del significato permanente, l’uomo vive la sua stessa crisi.
Il “pensiero debole”
Per Gianni Vattimo (1936) il passaggio dal “moderno” al “post-moderno” si configura come, sulla scia di Lyotard, il passaggio da un pensiero “forte” ad uno “debole”. Per Vattimo il pensiero “forte” (o metafisico) parla in nome della “verità”, della “totalità”; al contrario il pensiero “debole” da lui sostenuto nega, secondo le sue stesse parole, la ragione-dominio della tradizione.
Con il pensiero “debole” la fine della metafisica ed il trionfo del nichilismo sono interconnessi: “L’individuo post-moderno è colui che, dopo essere passato attraverso la fine del pensiero metafisico tradizionale riesce a vivere senza nevrosi in un mondo in cui Dio è morto … In altri termini, l’individuo post-moderno è colui che non avendo più bisogno di Dio ha accettato il nichilismo come chance ed ha imparato a vivere senza ansie nel mondo relativo delle “mezze verità”…”.
Nella Società trasparente, al contrario di Lyotard, Vattimo afferma che i mass media non solo non producono una generale omologazione, ma diventano elementi di una generale esplosione e moltiplicazione di visioni del mondo. In un articolo del 2002 ha scritto: “Ora che Dio è morto, vogliamo che vivano molti dèi. Vogliamo poterci muovere liberamente, ma senza alcuna rotondità classica, tra molti canoni, tra molti stili – di abbigliamento, di vita, di arte, di etica- vivendo come un autentico dovere etico e religioso il tormento della molteplicità”.
Vattimo dà un senso positivo al nichilismo, come rivela il suo saggio Nichilismo ed emancipazione del 2003: “Nella società post-moderna l’emancipazione è resa possibile dal nichilismo: nella misura in cui il mondo vero diviene favola (anche questa espressione mutuata da Nietzsche) e gli assoluti vengono meno, si dà la possibilità di quella reale emancipazione che né il marxismo né il cristianesimo, in forza del loro dogmatismo, sono stati in grado di realizzare”.
La “Società liquida”
Un’analisi della crisi molto interessante è quella proposta dal sociologo e filosofo polacco di origini ebraiche Zygmunt Bauman (1925). Concentrando la riflessione sulla globalizzazione, Bauman parla di un mondo divenuto “liquido”. “Liquido” contrapposto a “solido”, tipico dell’età moderna. Se nulla è contenuto e non ha contorni definiti, confini chiari, liquide e precarie diventano le relazioni umane.
Con L’istruzione nell’età post-modernaBauman scrive: “Tutti punti di riferimento che davano solidità al mondo (i posti di lavoro, le capacità, i legami personali, i concetti di salute e malattia, i valori che si pensava andassero coltivati), tutti questi e molti atri punti di riferimento un tempo stabili sembrano in piena trasformazione. Si ha la sensazione che vengano giocati molti giochi contemporaneamente, e che durante il gioco cambino le regole di ciascuno”.
Come Lyotard e Vattimo, Bauman condivide il giudizio circa la caduta delle “grandi narrazioni metafisiche”; anzi è proprio la loro scomparsa che ha causato la labilità “liquida”, le sabbie mobili della nostra epoca. Nella società “liquida” si ha la trasformazione da produttori a “consumatori” (passività dell’homo consumens).
La critica alla mercificazione delle esistenze e all’omologazione è vista da Bauman all’interno del processo di globalizzazione, che a sua volta porta all’ individualizzazione: “Il confine protegge dall’inatteso e dall’imprevedibile … più i confini sono visibili, più sono “ordinati” lo spazio e il tempo all’interno dei quali ci muoviamo. I confini danno sicurezza. Ci permettono di sapere come, dove e quando muoverci…”.
Fortemente critico verso la globalizzazione (in quanto mina alla base la coesione sociale su scala locale), Bauman sviluppa la dialettica “globale-locale” nell’opera: “Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone”, dove analizza i prodotti della globalizzazione (èlite della mobilità) nelle figure del “pellegrino” (simbolo dell’età moderna, di colui che vuole costruire il suo futuro, destinato a scomparire), del “vagabondo” (risultato delle mancanze di radici e di stabilità) e del “turista” (a differenza del vagabondo ha una casa, ma si sposta alla febbrile ricerca di sensazioni e piaceri).
Anche il corpo, visto come recettore di sensazioni è necessario che sia in buona salute (ecco il concetto di fitness legato ad una maniacale attenzione alle pratiche salutistiche: “… l’attenzione verso il corpo è diventato il più ambìto passatempo della nostra epoca).
La globalizzazione, come un “Giano bifronte” (soprattutto attraverso l’informazione e la finanza) uniforma e, nel momento in cui unisce, divide ed esaspera le differenze sociali (con le drammatiche parole di Bauman: “…nell’attuale mondo liquido vi è un ingresso ma nessuna via d’uscita… tutta la massa dei “rifiuti” umani riempie il vuoto creato dalla crisi della modernità…”).
Interessante in Bauman è pure l’analisi della “rivoluzione digitale” e l’impatto con una divisione (online/offline) che ci ha imposto di vivere in due dimensioni (…i bambini incontrano Internet a 4 anni e crescono senza immaginare che la connessione al web possa non esserci … ciò porta a numerose perdite… i server stanno immagazzinando la nostra conoscenza e la nostra capacità di memorizzare sta scomparendo … Facebook ha intercettato la nostra paura di non essere visti ed essere soli e ha fondato il successo del social network sull’allontanamento di questa paura…). Bauman parla così di “paura liquida”, di “amore liquido”.
Perché siamo in questa situazione?
Giovanni Paolo II nell’Esortazione Apostolica Reconciliatio et paenitentia del 1984 parla di un “mondo frantumato” (che si avvicina alla “liquidità”), prodotto dalle divisioni nei rapporti fra le persone e sperimentate anche nella stessa Chiesa (“…Oltre alle scissioni tra le comunità cristiane che la affliggono da secoli, la Chiesa sperimenta oggi qua e là nel suo seno divisioni fra le sue stesse componenti, causate dalla diversità di vedute e di scelte nel campo dottrinale e pastorale”). Indagando sugli elementi generatori delle divisioni ed andando ben oltre il confronto tra “moderno/post-moderno”, si rileva: “…soltanto osservando in profondità si riesce ad individuare la loro radice: questa si trova in una ferita nell’intimo dell’uomo. Alla luce della fede noi la chiamiamo il peccato…”).
In questo senso l’analisi di Giovanni Paolo II si avvicina a quella di Plinio Correa de Oliveira: il peccato, le ferite dell’anima allontanano da Dio (la “Rivoluzione” vista come un processo peccaminoso contro Dio). Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) in Eugenetica e altri mali parlerà dell’impotenza dell’impenitenza:“… preferiscono (gli eugenisti) non ricordare perché hanno deciso di non pentirsi”.
Cosa dobbiamo fare?
Alla luce della Dottrina sociale della Chiesa, riprendendo ancora l’Esortazione Reconciliatio et paenitentia: “La riconciliazione si fa necessaria, perché c’è stata la rottura del peccato, dalla quale sono derivate tutte le altre forme di rottura nell’intimo dell’uomo e intorno a lui. La riconciliazione, dunque, per essere piena, esige necessariamente la liberazione dal peccato, rifiutato nelle sue profonde radici … la penitenza è strettamente congiunta alla riconciliazione, perché il riconciliarsi con Dio, con se stessi e con gli altri suppone che si sconfigga la rottura radicale, che è il peccato… Esclusione di Dio, rottura con Dio, disobbedienza a Dio: lungo tutta la storia umana questo è stato ed è, sotto forme diverse, il peccato…”.
Cosa fare contro quella che Pio XII (“Il peccato del secolo è la perdita del senso del peccato”) definiva la perdita del senso del peccato? Cosa dobbiamo fare se, con le stesse parole della Reconciliatio et paenitentia: “Il secolarismo è un movimento di idee e di costumi che propugna un umanesimo che astrae totalmente da Dio, tutto concentrato nel culto del fare e del produrre e travolto nell’ebbrezza del consumo e del piacere, senza preoccuparsi del pericolo di perdere la propria anima?”.
La proposta della Dottrina sociale della Chiesa è inequivocabile: “Ristabilire il giusto senso del peccato è la prima forma per affrontare la grave crisi spirituale incombente sull’uomo del nostro tempo. Ma il senso del peccato si ristabilisce soltanto con un chiaro richiamo agli inderogabili principi di ragione e fede, che la dottrina morale della Chiesa ha sempre sostenuto” (presuppone quindi un appello forte a quelli che Benedetto XVI ha definito “principi non negoziabili”).
Dopo la virtù
Una riflessione molto acuta in merito alla crisi che stiamo attraversando è quella proposta dal filosofo scozzese Alasdair MacIntyre (1929) contenuta in un importante saggio di teoria morale: “Dopo la virtù” del 1981. All’inizio di quel saggio MacIntyre rivela un incubo inquietante: “Immaginate che le scienze naturali debbano subire le conseguenze di una catastrofe…L’ipotesi che voglio sostenere è che nel mondo effettuale in cui viviamo il linguaggio della morale sia nello stesso stato di grave disordine in cui si trova il linguaggio della scienza naturale…abbiamo perduto la nostra comprensione della morale”.
Abbiamo perduto l’unità delle virtù, come intuiva già nel 1908 Chesterton, che in Ortodossia scriveva: “Il mondo è pieno di antiche virtù cristiane impazzite… non sono solamente i vizi che dilagando provocano danni, ma anche le virtù”. Per ricomporre il quadro unitario delle virtù che, dall’antichità greca fino all’età “pre-moderna” (prima della “Rivoluzione”), costituiva un punto di riferimento, MacIntyre invita a riconsiderare la tradizione aristotelico-tomista delle virtù (dianoetiche ed etiche). Di che cosa si tratta?
“La distinzione aristotelica fra “virtù intellettuali” e “virtù del carattere” non significa che possano essere separate: le virtù intellettuali sono acquisite attraverso l’insegnamento, quelle del carattere attraverso l’esercizio abituale” (Una rondine non fa primavera). Riprendendo il titolo di un altro capitolo del saggio: “Nietzsche (il post-moderno) o Aristotele (il pre-moderno)? MacIntyre senza alcun dubbio sceglie Aristotele: “Da un punto di vista aristotelico l’etica non può essere serva delle passioni. Infatti l’etica consiste appunto nell’educazione delle passioni…).
Riprendendo la famosa definizione aristotelica dell’uomo animale sociale (naturalmente sociale), MacIntyre suggerisce di aggiungere che è un animale che racconta storie: “… Privando i bambini delle storie, li si trasformerebbe in balbuzienti ansiosi … aveva ragione quella tradizione morale che, dalla società eroica fino ai suoi eredi medioevali, considera la narrazione di storie come parte fondamentale della nostra educazione alle virtù”.
Credo che nel quadro unitario di ricomposizione delle fratture (anima/corpo, fede/ragione, carità/verità, virtù dianoetiche/etiche), alla luce della Dottrina sociale della Chiesa, stia una possibile soluzione alla crisi che stiamo attraversando. A questo fine presenteremo, a conclusione di questo primo ciclo di incontri organizzato dall’Osservatorio Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa, la proposta (poco conosciuta) “distributista” per poter uscire dalla crisi.
Parrocchia di San Pietro Apostolo
Verona, 25 marzo 2014