Roberto Giorni
L’economia dell’Europa, fino al XVIII secolo, era prevalentemente agraria. In tale situazione, quando la popolazione aumentava i salari diminuivano, a causa dei limiti della produttività agricola.
Mentre all’inizio del Settecento la popolazione era in fase decrescente, poco dopo la metà del secolo si registrò un’imprevedibile inversione di tendenza per effetto dei primi risultati del progresso tecnologico, della medicina e dell’igiene. Il fatto costituisce una premessa importante perché dall’inizio dell’Ottocento, per la prima volta nella storia dell’umanità, mentre la popolazione cresceva fortemente aumentavano decisamente anche i solari.
Nel passato i salari erano a volte cresciuti in maniera significativa. Un esempio si ebbe dopo la peste del 1348, che fece in Europa 10 milioni di vittime pari a 1/6 degli abitanti. I sopravvissuti, in quel momento, beneficiarono di un notevole aumento dei salari; ma la ripresa demografica del Quattrocento riportò le paghe dei lavoratori al precedente livello di mera sussistenza.
L’analisi di Malthus
Studiando questi dati, Thomas R. Malthus pensò che la caduta dei salari, a causa dell’aumento della popolazione, si sarebbe ripresentata anche dopo il fenomeno che non aveva ancora il nome di Rivoluzione industriale. Invece i salari continuarono a crescere e i redditi dell’industria ben presto superarono quelli dell’agricoltura. Anche Marx si accorse di quanto stava accadendo. Ciò nonostante, per non smentire le sue tesi, nelle ultime edizioni del Capitale non aveva più aggiornato i dati statistici sui salari reali in Gran Bretagna.
La tesi di Malthus (espressa nel Saggio sul principio della popolazione: prima edizione 1798, seconda edizione 1803), secondo cui la popolazione aumenta «in progressione geometrica» mentre la disponibilità di alimenti aumenta «in progressione aritmetica», non era inedita. Infatti, quello che indichiamo come «principio malthusiano» era già stato formulato da Boterò nel 1589 e la legge della progressione geometrica era stata suggerita da Petty in un saggio del 1686.
Per Malthus, senza una volontaria restrizione delle nascite qualunque progetto di miglioramento sociale era destinato a fallire, sconfitto dalla demografia. Malthus, pastore anglicano, non suggeriva alcun controllo artificiale dei concepimenti: insisteva sulla necessità del rinvio dei matrimoni al punto da consigliare al governo irlandese di demolire un buon numero di case per rendere impossibile il matrimonio ai giovani.
Dopo il 1850 l’interesse degli economisti per il problema della popolazione declinò; ma, pur non adoperandolo nella loro opera teorica, raramente essi mancarono di rendere omaggio al feticcio costituito dal principio malthusiano. Alla fine del secolo l’unico economista di rilievo a prenderlo sul serio fu Wicksell, che riproponeva anche la teoria dell’ottimo della popolazione.
Si potrebbe pensare che queste avvisaglie non avrebbero avuto seguito. Invece, dopo la Prima guerra mondiale, come ci ricorda Schumpeter, «si presentò Mr Keynes a sostenere che la questione maltusiana era come sempre d’importanza vitale; e che in realtà era entrata in un nuovo periodo di vita da quando la natura aveva incominciato a dare compensi decrescenti alle fatiche dell’uomo.
Gli economisti furono sconcertati e sir William Beveridge sposò l’opinione contraria» (Storia dell’analisi economica, Einaudi, Torino 1959, p. 707). Ma la polemica si esaurì presto perché, tra l’altro, bisognava pensare agli urgenti problemi economici della fine degli anni Venti.
I «profeti della fame»
Nella seconda metà del XX secolo sono tornati i «profeti della fame». Ce ne parla, nel suo famoso saggio Il mito dell’esplosione demografica (Ares, Milano 1974), Colin Clark (economista, docente di statistica e direttore dell’Istituto di economia agraria dell’università di Oxford) a cui si deve, tra l’altro, il concetto di «prodotto interno lordo» enunciato in una sua opera del 1937.
Il caposcuola dei profeti, per Clark, è il professor Paul Ehrlich autore, con Arm Ehrlich, di una summa su Population Resources Environment (San Francisco 1970) e del breve saggio dal titolo The population bomb (New York 1971). La prima opera, dice Clark, «è uno strano miscuglio di dubbia consistenza teorica e di evidenti errori di fatto»; la seconda «contiene una minore percentuale di scienza e una maggiore quantità di asserzioni erronee». Queste conclusioni dell’economista inglese scaturiscono da dati e precise argomentazioni.
Fra gli epigoni di Ehrlich, Clark indica il professor Forrester del MIT che, in collaborazione con altri, fornì al «Club di Roma» il famoso rapporto I limiti dello sviluppo. Il documento aveva il preciso obiettivo di patrocinare la limitazione delle nascite e degli investimenti di capitale nel mondo, ponendo un livello di vita pari a metà di quello americano (50% di quello degli anni Settanta) come frontiera insuperabile del benessere, per interrompere il presunto cammino verso l’ecocatastrofe.
Il prestigio del rapporto, per Clark, derivava dall’impiego del computer, incolpevole elaboratore delle inesattezze o semplici sciocchezze di cui era stato nutrito. Il principio è noto: «garbage in, garbage out» introducendo spazzatura non esce che spazzatura.
La «svista» principale riguardava la quantità di terra coltivabile necessaria per l’alimentazione di una persona. Essa, nel rapporto Forrester, veniva calcolata in 4.000 metri quadrati, cioè il doppio del reale, poiché in realtà erano sufficienti 2.000 metri quadrati (con riferimento non a un raccolto teorico, ma a valori reali ottenuti che in seguito sono anche migliorati) per garantire non soltanto uno standard alimentare americano (pari al 100%), ma anche la necessità di fibre tessili e tabacco.
Eppure, negli anni 1968-1975, questi neomalthusiani stabilirono che prima del 2000 decine, centinaia di milioni di persone sarebbero morte di fame, principalmente in Asia e in India. Sappiamo, infatti, com’è andata: grazie alla popolazione i Paesi asiatici stanno diventando ricchi e da un po’ investono anche da noi (ci compreranno?).
Diversamente dal «principio malthusiano», l’esperienza ha dimostrato che la produzione agricola aumenta molto più velocemente della popolazione, persino nei Paesi in via di sviluppo. Una storia completamente falsa è che tutto l’aumento della produzione proveniente dalla diga di Assuan (iniziata alla fine degli anni ’50) viene cancellato dalla crescita della popolazione egiziana. Invece, scrive Clark, «da quando la diga è stata costruita, la produzione agricola è cresciuta più in fretta della popolazione. Malthus si sbagliò su tutti fronti» (Il mito…, cit.,p. 117).
Ciononostante, non si può certo dire che si tratti di un argomento chiuso come dimostrano, per esempio, gli esiti della Terza Conferenza Internazionale su Popolazione e Sviluppo, tenutasi a II Cairo nel settembre del 1994.
In tale sede, calcoli allarmistici ancora una volta sono stati portati a sostegno di proposte sostanzialmente mirate a un forte controllo delle nascite, spesso senza tener conto in maniera adeguata della complessità delle dinamiche demografiche, del progresso tecnico e delle differenti abitudini alimentari nelle diverse aree interessate. Per non contare poi le pressioni dell’Onu per il controllo delle nascite e la diffusione di contraccettivi e pillole abortive.
Come non ricordare che, già prima di questa terza conferenza del1994, nei Paesi occidentali i tassi di natalità erano precipitati in modo da superare la caduta dei tassi di mortalità? Come si è potuto ignorare che ciò provocava, tra l’altro, l’inquietante fenomeno dell’invecchiamento della popolazione?
È opportuno aggiungere, a proposito della caduta dei tassi di natalità dell’Occidente, che nel 1993 in Italia si registrava (dati Istat) un tasso di natalità di 9,6 (N: numero annuo dei nati vivi ogni 1.000 abitanti) di fronte a un tasso di mortalità di 9,7 (M: numero annuo di morti ogni 1.000 abitanti). Quando N = M, si parla di popolazione a «crescita zero». Nel 2001 l’Italia era il secondo Paese al mondo per bassa natalità (9,4), subito dietro la Germania (8,9) (fonte: 36° Rapporto Censis/2002). Nel 2012 i tassi erano i seguenti: in Italia N 9,3 e M 9,93; in Germania N 8,33 e M 11,04; negli Stati Uniti N 13,68 e M 8,39 (dati Index mundi, fonte: da World Factbook).
Il crollo delle nascite
C’è una connessione tra l’attuale crisi economica e l’andamento delle nascite nel mondo occidentale? «La crisi in corso», scrive l’economista Ettore Gotti Tedeschi, «nasce grazie al crollo delle nascite nel mondo occidentale, iniziato intorno al 1975. Tale caduta ha provocato la flessione dello sviluppo economico, l’aumento dei costi fìssi (i costi sociali, con sanità e farmaci) a causa dell’invecchiamento della popolazione» e, conseguentemente, «l’aumento delle imposte e il crollo del tasso di crescita del risparmio prodotto» («Riprendiamo a fare figli e l’economia ripartirà», Corriere della sera, 23.7.2010).
L’analisi dell’economista prosegue ricordando che per compensare tali fenomeni prima si utilizzarono due modelli corretti: maggiore produttività e delocalizzazione (di molte produzioni in Asia), poi, progressivamente, si provocò la crescita consumistica a debito delle famiglie e dell’intero sistema economico. In America, sperando di far crescere il PIL, le famiglie sono state incoraggiate secondo la dottrina keynesiana a indebitarsi per consumare fino a creare la bolla speculativa dei mutui subprime.
In questa vicenda (che abbiamo descritto su queste colonne: Se n. 588, febbraio 2010), in sostanza, le banche — con insufficiente capitale proprio — inseguivano anche clienti non affidabili per offrire mutui per l’acquisto della casa. Dov’era la FED americana addetta ai controlli? In Europa si sono indebitati gli Stati per sostenere i costi sociali derivanti dalla mancata crescita demografica.
Negli Stati Uniti, continua Gotti Tedeschi, il governo ha nazionalizzato il debito privato «alleviando – quasi a volersi scusare – le famiglie dall’indebitamento imposto loro in passato». Al contrario, in Europa, «si privatizza il debito pubblico attraverso l’utilizzazione del risparmio delle famiglie virtuose. E senza neppure scusarsi» («Chi paga il debito pubblico», L’Osservatore Romano, 21.7.2010).
Ciò viene fatto con la politica keynesiana dei tassi zero (che con l’inflazione diventano negativi). In sostanza, dice Gotti Tedeschi, «si tratta di una tassa occulta sui poveri risparmiatori, una tassa trasferita ai ricchi: Stati, imprenditori e banchieri troppo indebitati» («Keynes colpisce ancora», L’Osservatore Romano, 14.1.2011).
È questo il modo per distruggere il risparmio, la risorsa base per la creazione del credito bancario. Inoltre, i tassi zero favoriscono la speculazione mobiliare e immobiliare; impediscono il corretto funzionamento dei mercati lasciando credere che non sappiano autocorreggersi; permettono ai Governi di gestire l’economia senza correggere l’inefficienza. Il contesto, sottolinea Gotti Tedeschi, «lascia anche immaginare che la manovra scelta per assorbire in futuro il debito creato – sia negli Stati Uniti che in Europa circa tre volte il PIL — sia l’inflazione» («Keynes colpisce ancora», cit).
Dove sta la soluzione per superare il grave impaccio dei Governi? Oggi che le idee per la ripresa mancano, per Gotti Tedeschi il ruolo della famiglia è fondamentale: «Incoraggiando la ripresa a sposarsi e a fare figli si avvia immediatamente un ciclo economico». Anche perché la famiglia onera su quattro fasi economiche: «E produttrice di reddito, di risparmio, di investimento (in capiale umano soprattutto) e redistribuisce il reddito al suo interno. Infatti, i Paesi preoccupati della non crescita della natalità hanno stabilito fondi a supporto: la Francia ha stanziato da tempo un 2,5% del PIL, la Germania un 3,2%, la Scandinavia un 4%. E l’Italia? Solo un 1%…
Se è vero che la famiglia è stata inventata dal cristianesimo, solo questo basterebbe a renderlo benemerito per i valori economici creati nei secoli» («Riprendiamo a fare figli…», cit.). Ottimismo di un economista cattolico? Per comprendere a pieno il valore del pensiero di Gotti Tedeschi forse è opportuno ricordare, in tema di popolazione, anche il pensiero di Friedrich A. von Hayek.
Il pensiero di Hayek
Secondo Hayek, l’agire umano non è guidato prevalentemente da considerazioni tecniche, ma innanzitutto da norme che lo limitano a tipi ammissibili di comportamento. Le convenzioni e regole delle relazioni sociali servono a garantire quel minimo di uniformità di comportamento che permette una cooperazione inintenzionale (ossia, una compatibilita delle azioni che si forma senza obbedire a un piano unitario) e la formulazione di un ordine spontaneo. Ciò corrisponde a quanto espresso da Adam Smith con l’immagine della «mano invisibile».
Gli obblighi e divieti della tradizione costituiscono, infatti, un processo di selezione guidato non dalla ragione, ma dal successo: tra le tante regole sperimentate sono sopravvissute quelle in grado di far conseguire migliori risultati ai gruppi presso i quali sono prevalse.
Queste regole, scrive Hayek, «furono adottate e si diffusero perché consentivano al gruppo di adeguare la propria struttura a effetti dell’azione individuale situati ben al di là della sfera di percezione degli individui, spingendoli inoltre alla soddisfazione di bisogni di cui non erano coscienti, e a far uso di risorse di cui non erano consapevoli» («Le regole della morale non sono le conclusioni della nostra ragione», in Libertà giustizia e persona nella società tecnologica, a cura di S. Ricossa – E. Di Robilant, Giuffré, Milano 1985, p. 6).
In altre parole, le regole di condotta sono prevalse perché aumentavano il successo del gruppo e non perché si sapeva che avrebbero condotto a effetti desiderati. L’ordine spontaneo di mercato, tessuto inintenzionalmente e inconsapevolmente dagli esseri umani attraverso il rispetto delle norme di condotta della tradizione occidentale, costituisce il miglior sistema di trasmissione, raccolta e impiego delle innumerevoli e sperse conoscenze. Per Hayek, infatti, il problema economico della società coincide col problema di come utilizzare la conoscenza che, nella sua totalità, non appartiene ad alcuno (e non è centralizzabile come credevano i comunisti).
Per utilizzare questa conoscenza, che è dispersa in tutta la società, si deve ricorrere al processo di mercato -non deformato da interventi dei Governi – che consente di mobilitarla. Infatti, il sistema dei prezzi di mercato è in grado di comunicare informazioni e, nello stesso tempo, di coordinare le azioni separate di persone differenti, spesso lontane e sconosciute tra di loro, ignare le une dei bisogni e dei mezzi delle altre.
Il problema economico della società, nel pensiero di Hayek, riguarda principalmente la necessità di rapidi adattamenti ai cambiamenti spesso imprevedibili che intervengono nelle particolari circostanze di tempo e di luogo: il sistema dei prezzi comunica ad alcuni operatori che ciò che fanno o possono fare è diventato più o meno richiesto, ad altri fa scoprire la convenienza dell’introduzione di nuove tecnologie per la produzione o la necessità di offrire un nuovo servizio, ad altri ancora mostra la possibilità di sostituire alcune risorse con altre, sia come mezzi di produzione dei beni sia per la soddisfazione di specifici bisogni, e così via.
In sintesi, le regole di condotta, che consentono a ciascuno di impiegare le proprie conoscenze per perseguire i propri obiettivi, garantiscono — tramite la cooperazione inintenzionale dell’ordine spontaneo del mercato – l’utilizzo più efficiente delle risorse. E ciò consente il conseguimento di gradi di soddisfazione dei bisogni altrimenti non raggiungibili.
«Non fu la ragione, ma la morale», conclude Hayek, «a mettere in grado l’uomo di formare l’ordine esteso dell’interazione umana che tiene in vita l’attuale popolazione della terra», la quale altrimenti sarebbe di minore ammontare («Le regole della morale non sono le conclusioni della nostra ragione», cit., p. 6). L’economista austriaco non si riferisce solo alla «moralità innata» (solidarietà, decisioni di gruppo e simili), non sufficiente a sostenere il nostro attuale ordine esteso, ma principalmente alla «moralità evoluta» (risparmio, proprietà privata, onestà e così via) che ha creato e sostiene l’ordine esteso.
Si potrebbe dire, nella prospettiva di Hayek, che siamo stati portati ad adottare il codice morale del capitalismo dal fatto che questo era il codice che favoriva la crescita della popolazione. Istituzioni come la famiglia e la proprietà individuale si sono sviluppate non perché gli uomini ne conoscessero le virtù e pertanto mirassero alla loro realizzazione. Al contrario, questo processo si è svolto contro i loro desideri, al punto da ingenerare un intenso conflitto tra i loro istinti innati e l’evoluzione che ha dato forma a quelle istituzioni che costituiscono significativi limiti imposti agli istinti naturali.
Un errore di calcolo
Nel suo ultimo saggio, pubblicato nel 1988 (trad. it: La presunzione fatale. Gli errori del socialismo, Rusconi, Milano 1997), Hayek tra l’altro completa il suo discorso in tema di popolazione. Dopo aver ribadito che né il socialismo né alcun altro sostituto del mercato potrebbe sostenere l’attuale popolazione mondiale, afferma che «l’odierna idea che la crescita della popolazione minacci di produrre un impoverimento a livello mondiale è semplicemente un errore» (p. 198).
Per Hayek un aumento della popolazione è stato sempre un successo, nel senso che ha migliorato il livello di vita. A sostegno di questa tesi l’autore austriaco ha proposto due distinte argomentazioni. Vediamo, in sintesi, la prima.
La preoccupazione che la crescita della popolazione sia destinata a portare all’impoverimento generale e al disastro «è dovuta alla non comprensione del calcolo statistico» (La presunzione fatale…, cit, p. 200). Se la crescita avviene nelle famiglie della fascia più povera (molte delle quali non sarebbero sopravvissute in una società a economia non di mercato), quando si somma l’incremento demografico alla popolazione già esistente, si registra una riduzione del reddito medio pro-capite.
Ma è scorretto concludere che tutti sono diventati più poveri nel processo. In realtà, dice Hayek, «ognuno che era già lì potrebbe essere diventato più ricco; e tuttavia i redditi medi possono essere diminuiti se grandi numeri di persone povere si sono aggiunti a quelli di coloro che erano presenti precedentemente.[…] Sarebbe, però, più accurato concludere da ciò che il processo di crescita beneficia maggiormente il più grande numero dei poveri che il piccolo numero dei ricchi. Il capitalismo ha creato le possibilità di occupazione e ha fatto nascere e ha tenuto in vita milioni di persone che altrimenti non sarebbero vissute» (p. 201).
In sostanza, «la dimensione dello stock di capitale di un popolo, insieme con le sue tradizioni e le sue pratiche per produrre e comunicare informazione, è fattore determinante perché quel popolo possa essere in grado di mantenere grandi numeri di persone» (p. 202). La seconda argomentazione di Hayek – a sostegno della sua convinzione che la crescita della popolazione non costituisca una minaccia di abbassamento del livello di vita — si fonda sulla costatazione che il lavoro non è più un fattore produttivo omogeneo e pertanto può fornire rendimenti crescenti invece che decrescenti.
L’economista austriaco ritiene che l’assunzione di Malthus, di considerare il lavoro un fattore omogeneo (cioè che il lavoro salariato fosse tutto dello stesso tipo, impiegato in agricoltura con gli stessi strumenti e le stesse opportunità), rappresentasse in maniera adeguata la realtà economica allora esistente. In tale contesto, ogni aumento del numero dei lavoratori avrebbe provocato una riduzione della produttività marginale e, di conseguenza, una diminuzione del salario. Ma, ai nostri giorni, il lavoro non è più omogeneo, ma è diversificato e specializzato: abilità diverse, naturali o acquisite, costituiscono fattori diversificati, spesso complementari. E la specializzazione volontaria è provocata dalle differenze nei compensi attesi.
In questo contesto, con le continue nuove possibilità di specializzazione degli individui che costituiscono la base di un uso migliore delle risorse della terra, «l’aumento della popolazione», conclude Hayek, «può essere un prerequisito di un aumento della civiltà materiale e (a causa dell’individualizzazione che è resa possibile) spirituale» (p. 200). Possiamo anche in questo caso parlare di ottimismo di un cattolico?
No, perché Hayek si è definito un «agnostico dichiarato» nell’intento di aiutare le persone religiose a perseguire con minore esitazione quelle conclusioni che con lui condividono. Tuttavia, al di là del suo agnosticismo, l’economista austriaco ha una grande considerazione per il ruolo avuto dalla tradizione cattolica nella formazione della nostra civiltà. Questo rispetto viene ricambiato da M. Novak e A. Tosato — esperti di punta nel campo delle relazioni tra il pensiero cattolico e le istituzioni economiche e culturali del capitalismo – che ritengono la morale di Hayek (e di Mises) compatibile con la morale cattolica