Convocato per trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni e travisamenti (Discorso di apertura), dopo quarant’anni il Concilio Vaticano II sembra dimenticato. E da molti frainteso. Urge tornare ai testi conciliari.
di Marco Invernizzi
Sono passati quarant’anni dall’11 ottobre 1962, il giorno in cui il beato Papa Giovanni XXIII tenne il discorso di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II In questo tempo sono accaduti avvenimenti di grande importanza, che hanno cambiato i connotati del mondo. In particolare dopo il 1989, con il venir meno del tentativo comunista di conquistare il mondo e con la caduta del muro di Berlino, l’umanità non ha ritrovato la pace ma, al contrario, si trova coinvolta in un conflitto inusuale, ma reale, fra il terrorismo e l’Occidente. Un terrorismo non più ideologico, ma che utilizza sentimenti religiosi e che rende più visibile un contrasto tra diverse civiltà che l’epoca delle ideologie aveva messo in secondo piano.
La Chiesa ha cambiato il suo approccio nei confronti del mondo proprio in seguito al Concilio Vaticano II. Non più la Chiesa di una cristianità aggredita e minacciata, che doveva essere difesa, ma la Chiesa missionaria in una sorta di deserto, qual è il mondo moderno, privo di valori, dopo il “secolo breve”, il XX, dopo il definitivo venir meno delle società ancora cristiane, come per esempio l’Italia, in seguito ai referendum su divorzio e aborto, nel 1974 e nel 1981.
Tuttavia questo passaggio verso una Chiesa missionaria non è stato facile e non è ancora compiuto. Lo spirito missionario stenta a nascere nei fedeli, soprattutto in quelli dei paesi europei, di antica tradizione cristiana, perché il Concilio non è stato letto con questo spirito missionario, ma come una sorta di cedimento verso le idee dominanti. La Chiesa non sarebbe andata incontro al mondo per riportarlo a Gesù Cristo, ma perché convinta che il mondo moderno aveva sostanzialmente ragione nel suo distacco polemico dalla fede cristiana, almeno così come veniva insegnata dalla Chiesa cattolica.
Questo modo di intendere il Concilio ha sconcertato molti fedeli, ha contribuito a provocare fratture dolorose, come quella del vescovo francese mons. Marcel Lefebvre, ma non era il modo con cui lo intendevano i Papi che hanno indetto e condotto i lavori conciliari, Giovanni XXIII e Paolo VI. Quest’ultimo, in particolare, ha pronunciato parole così forti e drammatiche sulla crisi determinatasi dopo il Concilio, anche a causa di una cattiva interpretazione dello stesso, che mi limito a riportarle, senza commenti, così come fece Giovanni Cantoni, nell’ottobre 1985, sulla rivista Cristianità, per ricordare i vent’anni trascorsi dalla chiusura dell’assise conciliare. “[…] la chiesa attraversa […] un momento di inquietudine. Taluni si esercitano nell’autocritica, si direbbe perfino nell’autodemolizione. È come un rivolgimento interiore acuto e complesso, che nessuno si sarebbe atteso dopo il Concilio. […] La Chiesa è colpita pure da chi ne fa parte” (7 dicembre 1968).
“[…] l’interesse per il rinnovamento [conciliare] è stato da molti rivolto alla trasformazione esteriore e impersonale dell’edificio ecclesiastico, e all’accettazione delle forme e dello spirito della Riforma protestante, piuttosto che a quel rinnovamento primo e principale che il Concilio voleva, quello morale, quello personale, quello interiore” (15 gennaio 1969).
“molti fedeli sono turbati nella loro fede da un cumulo di ambiguità, d’incertezze e di dubbi che la toccano in quel che essa ha di essenziale. Tali sono i dogmi trinitario e cristologico, il mistero dell’Eucarestia e della presenza reale, la Chiesa come istituzione di salvezza, il ministero sacerdotale in mezzo al popolo di Dio, il valore della preghiera e dei sacramenti, le esigenze morali riguardanti, ad esempio, l’indissolubilità del matrimonio o il rispetto della vita umana. Anzi, si arriva a tal punto da mettere in discussione anche l’autorità divina della Scrittura, in nome di una radicale demitizzazione” (8 dicembre 1970).
Nel 1972 vennero le parole più forti, quelle meno dimenticate, quando Paolo VI sostenne di avere la sensazione che “da qualche fessura sia entrato il fumo di Satana nel tempio di Dio” e che “anche nella Chiesa regna […] incertezza. Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza”. “Crediamo in qualcosa di preternaturale venuto nel mondo proprio per turbare, per soffocare i frutti del Concilio Ecumenico”; a questo nemico il Papa attribuiva un nome: “Il suo nome è il diavolo” (29-30 giugno 1972). Poi ancora, nel 1975: “Basta con il dissenso interiore alla Chiesa; basta con una disgregatrice interpretazione del pluralismo; basta con l’autolesione dei cattolici alla loro indispensabile coesione; basta con la disubbidienza qualificata come libertà! Bisogna, oggi più che mai, costruire, non demolire la Chiesa, una e cattolica” (16 luglio 1975).
Si potrebbe continuare, ma sorge una domanda: non avevano ragione quei profeti di sventura di cui si lamentava Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio, che hanno profetizzato la crisi postconciliare? Oppure la crisi era già in atto ed è soltanto esplosa con il Concilio e, comunque, la Chiesa doveva cercare un modo adeguato ai tempi cambiati per presentare il Vangelo di sempre?
Oggi, si parla poco del Concilio all’interno della Chiesa. Rimangono piccole minoranze che l’hanno rifiutato o che vorrebbero un Vaticano III per approfondire il solco dialettico fra la Chiesa di oggi e quella di sempre. Ma i più si sono dimenticati del Concilio, soprattutto dei suoi documenti. Credo invece che si debba ritornare a questi documenti, come bisogna fare ogni volta che subentra il dubbio e l’incertezza. A cominciare, vista la ricorrenza, dal discorso di apertura dell’11 ottobre di quarant’anni fa. Apprenderemmo così che il XXI Concilio della storia della Chiesa “vuole trasmettere pura e integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, però “studiata ed esposta attraverso le forme della indagine e della formulazione letteraria del pensiero moderno”.
Qui sta il problema, che non risolverò certamente in questo articolo né in altri, ma che rimane. Papa Giovanni XXIII invita a non dimenticare o tradire nulla del patrimonio ricevuto, ma a trasmetterlo con le caratteristiche di un pensiero, quello moderno, nato dall’ostilità nei confronti del cristianesimo. E’ questa la grande difficoltà che ha generato tanti equivoci. Infatti, si deve discernere nel pensiero moderno ciò che è compatibile con la Rivelazione e con le verità naturali e presentare queste ultime con una “formulazione letteraria” moderna.
D’altra parte, se così non facesse, la Chiesa rischierebbe di costituire un’isola separata dal resto del mondo, senza aver la possibilità di comunicare con l’uomo di oggi per presentargli la salvezza. Ma nel far questo, la Chiesa deve rimanere fedele alla sua essenza di custode e trasmettitrice di chi la guida, il Signore Gesù, e di quanto ha ricevuto dalla Tradizione.
Non è stato facile in questi quarant’anni, anche perché qualcuno ha approfittato delle difficoltà del passaggio per cercare di “buttare via il bambino con l’acqua da cambiare”, ma del resto la Chiesa ha operato sempre così, in altre epoche, trattenendo quanto di buono incontrava nelle diverse culture e lasciando, e condannando, il resto.
Ricorda:
“Perciò, si esige che la Chiesa, quando professa ed insegna la fede, sia strettamente aderente alla verità divina, e la traduca in comportamenti vissuti di ossequio consentaneo alla ragione. Cristo stesso, allo scopo di garantire la fedeltà alla verità divina, ha promesso alla Chiesa la particolare assistenza dello Spirito di verità, ha dato il dono dell’infallibilità a coloro, ai quali ha affidato il mandato di trasmettere tale verità e di insegnarla – come aveva già chiaramente definito il Concilio Vaticano I e, in seguito, ha ripetuto il Concilio Vaticano II – ed ha dotato, inoltre, tutto il Popolo di Dio di un particolare senso della fede” (Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Redemptor hominis, n. 19).