di Massimo Introvigne
L’assassinio dell’arcivescovo caldeo di Mossul, monsignor Paulos Faraj Rahho, induce a porre, senza più attendere, la domanda se sia in atto un disegno per cancellare dall’Iraq la presenza di una componente cristiana. Al riguardo, occorre anzitutto sfatare alcuni miti.
Anche dopo l’invasione, per quasi cinque secoli, fino alla fine del secolo XI, i cristiani sono rimasti in maggioranza. Solo dal XII secolo i rapporti si sono rovesciati, a causa della progressiva conversione all’islam di cristiani che, finché restavano tali, mantenevano lo stato di dhimmi, cittadini di serie B che tra l’altro dovevano pagare tasse più alte. Ma questo non impediva loro di dare un rilevante contributo alla cultura araba nella regione.
Durante il califfato abbaside molti testi della cultura filosofica, scientifica e medica greca furono tradotti in arabo e messi a disposizione del mondo islamico non dal greco, ma dal siriaco, da traduttori cristiani. I primi direttori della famosa «Casa della saggezza» voluta a Baghdad dagli abbasidi erano cristiani.
I grandi traduttori arabi musulmani di Baghdad erano a loro volta discepoli di questi cristiani, in particolare del primo responsabile della «Casa della saggezza», Yuhanna ibn Massway, e del suo successore Hunayn ibn-Isahq. Così fu tradotta in arabo la geometria di Euclide. Su cento opere di Galeno tradotte in arabo nel Medioevo, novantasei lo furono a opera di cristiani dell’attuale Iraq. Lo Jundi shapour bimarestan, un’istituzione cristiana, divenne il modello per la costruzione a Baghdad e altrove di ospedali, una realtà inizialmente ignota all’islam. I califfi continuarono per secoli ad affidarsi a medici di corte cristiani.
L’invasione mongola del XIII secolo, in cui, naturalmente, furono uccisi anche molti musulmani, portò un grave colpo alle comunità cristiane. Ma esse rimasero una componente importante di quelli che sarebbero diventati le tre vilayet, cioè province, ottomane di Mossul, Baghdad e Bassora. Oltre alla presenza delle Chiese siriache (cattolica e ortodossa) e a minoranze più piccole di rito latino e armeno, rimaneva rilevante la Chiesa assira, separata dalla Chiesa cattolica fin dal V-VI secolo e spesso chiamata «nestoriana» anche se rifiuta questa etichetta. Una sua branca, la Chiesa caldea cui apparteneva il vescovo ucciso, nel 1553 si riconciliò con Roma.
Si parla molto, e giustamente, dei massacri degli armeni prima della Grande guerra del 1914-1918 e nel corso di essa. Ma anche i cristiani dell’Iraq furono considerati quinte colonne delle potenze occidentali e sistematicamente massacrati. Sulle cifre esiste un ampio dibattito, ma non è irragionevole stimare che siano stati uccisi diverse centinaia di migliaia di cristiani ortodossi e assiri, e 75 mila cattolici. Come risultato, dopo la Prima guerra mondiale i cristiani dell’Iraq, anche a causa dell’emigrazione causata da un sentimento di profonda insicurezza, si sono ridotti sotto il 10 per cento della popolazione. Oggi sono il 3-4 per cento, circa 800 mila persone.
Il secondo mito da sfatare è che tutto andasse per il meglio per i cristiani sotto Saddam Hussein. Non è così. La presenza di un caldeo, Tariq Aziz, come vice-primo ministro e ministro degli Esteri era la classica foglia di fico del regime, un’operazione cosmetica per nascondere perduranti discriminazioni.
Lo stesso Tariq Aziz aveva dovuto adottare questo nome arabo, mentre si chiamava Mikhail Yuhanna, per potere partecipare alla vita politica. In ogni caso, il fatto che molti cristiani assiri e caldei sostenessero le rivendicazioni di autonomia dei curdi ne fece delle vittime del regime di Saddam Hussein fin dai suoi primi anni di governo, in cui il dittatore si proclamava laico ma nello stesso tempo stroncava nel sangue le proteste curde.
Migliaia di cristiani hanno dato il loro tragico contributo alle fosse comuni che continuano a essere scoperte e dove si ritrovano centinaia di cadaveri di curdi spesso uccisi con gas asfissianti (un’”arma di distruzione di massa” certamente in possesso di Saddam). Dopo la guerra del Golfo del 1991, poi, Saddam (ci credesse o meno) giocò la carta religiosa, imponendo elementi della legge islamica in tutto l’Iraq e discriminando le minoranze.
Mentre Tariq Aziz intratteneva uomini politici, dirigenti di associazioni cattoliche e sacerdoti europei, e si assicurava la collaborazione anche di qualche vescovo, la leggenda del regime «più tollerante del Medio Oriente nei confronti dei cristiani» si scontrava con la realtà dei fatti, che continuava a parlare di chiese distrutte e sacerdoti uccisi. Monsignor Jean Sleiman, arcivescovo dei latini di Baghdad, ha recentemente ricordato la gravità della persecuzione dopo il 1991, che ha tra l’altro convinto un sesto dei cristiani iracheni, 150 mila persone, ad abbandonare i loro beni per fuggire dal Paese ed emigrare.
E tuttavia nonostante tutto questo l’invasione americana è stata accolta dai cristiani iracheni con sentimenti piuttosto ambivalenti. Da una parte, nessuno, tranne alcuni che ne avevano avuto benefici piuttosto concreti, rimpiange il regime di Saddam Hussein. Dall’altra, vi era la consapevolezza che la persecuzione non era soltanto “dall’alto”, una manovra politica del regime, ma era applaudita e condivisa da molti musulmani che pure odiavano Saddam Hussein.
Ancora, soprattutto dopo il 1991 Saddam (che aveva bisogno, dopo l’invasione del Kuwait, di ricostruirsi nel mondo arabo l’immagine di un paladino dell’islam aggredito dall’Occidente) aveva lasciato penetrare in Iraq elementi ideologici ultra-fondamentalisti e militanti radicali utilizzati per il “lavoro sporco” contro i curdi nel Nord del Paese.
Le idee di costoro avevano fatto presa su una parte dei sunniti, con soddisfazione del regime che preferiva certamente che i guai dell’Iraq fossero imputati dalla popolazione a un complotto dell’Occidente presentato come “crociato” e anti-islamico e non alla pessima amministrazione di Saddam.
Quanto agli sciiti, che erano certamente ostili al sunnita Saddam, idee radicali penetravano in Iraq dall’Iran. I cristiani si chiedevano con ansia se, caduto Saddam, i loro guai sarebbero finiti o se invece (neppure più controllati da una polizia di regime che era sì brutale ma almeno funzionava) gruppi di musulmani eccitati da una predicazione ultra-fondamentalista e semplici teppisti si sarebbero ancora accaniti sulle loro comunità.
Purtroppo si è verificata la seconda ipotesi. I vari governi iracheni che si sono succeduti dopo il 2003 non sono stati in grado di garantire l’ordine pubblico e di proteggere le minoranze. Alcuni vescovi iracheni che hanno analizzato la situazione con particolare lucidità hanno sì denunciato un disegno per cancellare la presenza cristiana dall’Iraq, ma ne hanno distinto vari protagonisti le cui posizioni non sono uguali.
Oggi la minaccia principale viene da terroristi stranieri, che cercano di esacerbare le tensioni fra le diverse comunità irachene pescando nel torbido per i loro fini. Nel mondo sunnita esistono gruppi ultra-fondamentalisti che sono però minoritari. La maggioranza degli sciiti, e certamente le loro gerarchie, a partire dal grande ayatollah Sistani, non vuole lo scontro con i cristiani e denuncia puntualmente gli attentati e i rapimenti.
Nel buio di una situazione che resta drammatica s’intravede una luce. La maggioranza dell’islam iracheno ha capito che lo scontro fra cristiani e musulmani è solo lo strumento di cui si servono terroristi, in maggioranza stranieri, che non vogliono né il bene dell’Iraq né la pace. Una collaborazione fra cristiani e musulmani per isolare questi terroristi è possibile.
(A.C. Valdera)