Studi Cattolici Marzo 2018
di Luigi Negri (*)
Ricordo ancora con commozione il momento in cui, tanti anni fa – durante il Meeting di Rimini – Jean Guitton mi fece omaggio della traduzione italiana di un suo capolavoro, tuttora illuminante: Il Cristo dilacerato. Crisi e Concili nella Chiesa.
In quell’occasione Jean Guitton mi disse: «Ho dimostrato, in questo libro, che tutte le eresie sono sempre il ripresentarsi, con maggiore o minore persuasività, della tentazione di ridurre l’evento di Cristo a un dato della mondanità naturale, perché il problema di ogni generazione cristiana è soltanto questo: è la fede che giudica il mondo o il mondo che giudica la fede?». Il discriminante dell’eresia e dell’ortodossia sta proprio qui.
L’ortodossia ripropone continuamente la capacità di giudizio della fede sul mondo; l’eresia, invece, nasce affermando che esiste un mondo particolare, o una particolare situazione del mondo, che ha il diritto di giudicare la fede. Ritengo che oggi ci troviamo di fronte alla ripresa terribile di un’eresia che attenta alla natura profonda del dogma cristologico e che, per una spaventosa mancanza di criticità anche nello corpo ecclesiale, si sta diffondendo in maniera statisticamente impressionante.
Il Cristo, sulla cui presenza reale nella storia ormai non ci si pronuncia più, è un Cristo che dà spunto a una buona vita, giustificata naturalmente, che fa riferimento alle risorse che l’uomo possiede da sé, ossia l’intelligenza e l’affezione, la capacità di conoscenza e di manipolazione. Ovviamente, per parlare di Cristo come semplice ispiratore bisogna dimenticare un particolare, ossia che l’uomo è anche peccatore: è dunque un Cristo che non deve misurarsi con il peccato.
Noi sappiamo, però, che il Cristo Figlio di Dio si è misurato certamente con il peccato di tutto il mondo e di tutta la storia, ed è morto proprio per affermare la vittoria di Dio sul peccato dell’uomo, mentre il «Cristo» che ispira una vita naturalisticamente buona, starebbe acquattato sul fondo della nostra coscienza, e senza parlarci del peccato.
Pertanto tale concezione non può più contemplare Cristo come redentore dell’uomo e del mondo, centro del cosmo e della storia, come lo ha definito san Giovanni Paolo II nel documento più importante per il terzo millennio della fede cristiana, ovvero l’enciclica Redemptor Hominis (1979).
Mons. Enrico Galbiati, un grande esegeta che ha guidato i miei primi passi nel mondo della Scrittura, insegnava che il peccato originale ha un solo contenuto: l’uomo che sostituisce sé stesso al mistero di Dio e quindi a Cristo. Perché il mistero di Dio è una realtà storica con cui si è costretti a fare i conti ogni giorno ed è Gesù Cristo, Figlio di Dio e figlio dell’uomo.
A queste considerazioni si deve aggiungere che per molti, oggi, Cristo può anche essere svuotato in senso moralistico. Cristo non sarebbe soltanto l’ispiratore di una vita naturalisticamente buona, ma il fondamento e il movimento di una serie di azioni pratiche personali, sociali e storiche che dimostrerebbero come l’uomo può produrre il bene sulla terra, proprio nel punto più delicato che è quello della vita sociale.
Buona parte del cristianesimo, e anche del cattolicesimo, sono inficiate oggi da una concezione calvinista: la fede ha una dimostrazione inesorabile nel successo politico e mondano, dunque con la creazione di società efficienti nelle quali ci sia posto anche per un formale rispetto della tradizione religiosa, ma soprattutto società in cui si rappresentano e si vivono valori come l’uguaglianza, la legalità, l’ordine, la promozioni delle varie classi che convergono nella vita sociale.
Che ne è del Cristo Figlio di Dio, nato nella famiglia di Maria e di Giuseppe, venuto al mondo nella fascia degli emarginati sociali, rifiutato da tutti e su cui si avventò l’odio del mondo?
Oggi anche dentro la Chiesa si considera l’opposizione al mondo come un fatto negativo, da superare in nome della tranquillità. In tal senso andrebbe abbandonata la promozione della tradizione cattolica se si avvertisse anche solo il rischio di scomodare i manovratori di questa società. La tranquillità come virtù etica, virtù cattolica, e qui mi ritorna alla mente don Giussani che, concludendo uno dei suoi interventi più grandi davanti a migliaia di giovani al Meeting dell’amicizia dei popoli, a un giornalista che gli chiedeva che cosa augurasse a questi giovani rispose: «Che non rimangano mai tranquilli».
Noi siamo cristiani perché – come hanno detto i nostri primi fratelli di Antiochia – ci denominiamo da Lui, siamo una cosa sola con Lui, e prima dei nostri nomi viene il nostro essere di Cristo presente nel mondo, qui e ora, nel mistero della sua Chiesa.
(*) + Luigi Negri, Arcivescovo di Ferrara-Comacchio