Dissidenti perseguitati, turismo sessuale, aborto di massa. Gli orrori del regime castrista
di Francesco Agnoli
Nel febbraio dello scorso anno Orlando Zapata, dissidente cubano, ostile al regime dittatoriale di Castro, è morto in ospedale, dopo 85 giorni di sciopero della fame. Zapata era un ex muratore di Santiago di Cuba, e aveva solo 42 anni.
La sua morte, così spettacolare, ha destato per qualche tempo l’interesse dei giornali e dell’opinione pubblica per una delle dittature comuniste ancora vive nel XXI secolo. La protesta tramite scioperi della fame, sino alla morte, è una consuetudine degli oppositori cubani, sin dal principio del regime, come dimostra, tra le altre, la vicenda di Pedro Luis Boitel.
Costui, già nemico di Batista, era anche un oppositore di Fidel Castro, e fece l’errore di candidarsi alla presidenza della Federazione studentesca universitaria. Arrestato di lì a poco, venne condannato a dieci anni di prigione, durante i quali in più occasioni fece degli scioperi della fame per protestare contro il feroce trattamento subito.
Il 3 aprile 1972 Boitel iniziò l’ennesimo sciopero: al quarantanovesimo giorno cadde in uno “stato di semicoma”: morì dopo altri quattro giorni, senza cure e senza che alla madre fosse neppure permesso di vedere il corpo del figlio. Il fatto è che a Cuba non solo è estremamente facile finire nella galere-gulag di Castro, ma è altresì terribile rimanervi.
In più occasioni infatti sono stati denunciati l’uso dell’elettrochoc, di cani da guardia lanciati contro i prigionieri, la privazione del sonno e la rottura del ritmo del sonno come modalità per sfiancare i detenuti e portarli, non di rado, alla pazzia
Le celle cubane godono di soprannomi inquietanti. Tostadoras (tostapane), per il caldo insopportabile che vi regna; ratoneras (buchi per topi), quelle piccolissime e sotterranee; gavetas (gabbie), quelle piccole e strette come delle gabbie…
A marcirvi dentro, per anni e anni, magari in mezzo agli escrementi, senza acqua né assistenza medica, gli oppositori, religiosi e politici, a cui è negato persino il titolo di uomini: vengono infatti definiti, dal regime, gusanos cioè vermi.
Dal 1959 a oggi, secondo Pascal Fontaine, collaboratore del “Libro nero del comunismo”, circa centomila cubani “hanno sperimentato i campi di lavoro” e “sono state fucilate dalle quindicimila alle diciassettemila persone”. In verità queste cifre sembrano prudenziali, visto che i cubani che sono riusciti a scappare all’estero, evitando la morte, frequente, nelle acque dello stretto della Florida, parlano di cifre anche quattro volte superiori.
La morte di Zapata, cui si accennava, ha portato a conoscenza del grande pubblico l’esistenza di altri dissidenti che coraggiosamente affrontano il regime con incredibile coraggio e speranza. Tra questi il celebre Guillermo Farinas, psicologo e giornalista che lo scorso 23 febbraio aveva cominciato un lunghissimo sciopero della fame che lo ha ridotto alla condizione di uno spettro, ormai solo pelle e ossa. Farinas ha interrotto proprio in questi giorni la sua protesta grazie alle trattative tra chiesa cattolica e regime, che hanno portato alla liberazione di 52 prigionieri politici.
Ma se queste notizie sono più o meno note, molto meno conosciuto è il fatto che uno dei motivi che hanno spinto diversi cubani a dare la propria vita per combattere il regime – oltre alla mancanza di libertà, politica ed economica –, è la dissoluzione morale del paese promossa dal regime di Castro.
Già in un messaggio ai presidenti statunitense e centroamericani in occasione del vertice di Costa Rica, del 7 maggio 1997, i dirigenti degli esuli cubani descrivevano il dramma della loro isola anche sottolineando l’“enorme tragedia di un’isola carcere comunista con i più elevati indici di suicidi e di aborti dell’emisfero e con una prostituzione, anche infantile, che ha trasformato Cuba in un vergognoso ‘paradiso sessuale’ per turisti senza scrupoli” (Cristianità, n.265-266, 1997).
Quando Castro andò al potere, infatti, dichiarò in più occasioni un concetto che anche i bolscevichi russi avevano espresso chiaramente sin dalle origini: il comunismo realizzerà il bene dei lavoratori e dei proletari, e la nuova condizione sociale ed economica eliminerà anche la piaga della prostituzione. Quanto all’aborto, si proclamò che la sua legalizzazione avrebbe sconfitto prima l’aborto clandestino e poi l’aborto stesso.
Le cose, a Cuba come nell’Unione Sovietica, non sono andate propriamente così. Per tanti anni Cuba è stato uno dei paradisi per pedofili del mondo, in cui giungevano persone da vari paesi, sapendo di trovare giovani donne ed anche bambine, disposte a tutto, per qualche soldo.
Con il regime che non solo chiudeva gli occhi, ma in molti casi favoriva lo squallido commercio del turismo sessuale, pur sempre portatore di ricchezza. Chiaramente, insieme alla prostituzione e alla pedofilia, nell’isola si è diffusa terribilmente la piaga dell’aborto: secondo alcune fonti tra il 1968 e il 1996 si sono registrati 5,6 milioni di nati vivi e si sono effettuati 2,3 milioni di aborti.
Un dato sicuro, di cui semmai si può dubitare che sia per difetto, sono i centomila aborti annui che si compiono in questo paese, con solo undici milioni di abitanti! Una cifra che colloca Cuba ai primissimi posti al mondo per ricorso all’interruzione violenta di gravidanza, nonostante nel paese vi sia un altissimo ricorso alla contraccezione (ne fanno uso circa il 72 per cento delle donne) e persino alla sterilizzazione, secondo gli insegnamenti del Cenesex (Centro nazionale di educazione sessuale di Cuba), oggi diretto da Mariela Castro Espìn, figlia di Raul.
Ai centomila aborti legali di Cuba, vanno poi aggiunti quelli forzati, a scopo di “ricerca” e di “cura”. La radicale Mirella Parachini ricorda infatti che a Cuba, secondo la testimonianza di molti medici locali, tessuti fetali e neuronali vengono procurati a scopo di ricerca o di cura, a scapito di piccole e innocenti vite umane.
Dopo aver richiamato la testimonianza della dottoressa cubana Hilda Molina, secondo la quale a Cuba la medicina rigenerativa vive di “sostanza nera fetale” procurata anche nei modi più delittuosi, per fornire a malati stranieri cure presunte, che fruttano però soldi verissimi allo stato, la Parachini scrive: “Altri due dottori che avevano lavorato al Ciren (Centro Internacional de Restauración Neurológica de Cuba) sono scappati da Cuba e dall’esilio hanno denunciato come a quei malati di Parkinson, per lo più stranieri, che pagavano in dollari, venivano praticati questi innesti di materiale fetale (con esiti tutti da dimostrare, ndr).
Il dottor Antonio Guedes racconta che quando il centro ne aveva necessità urgente, in qualche centro ginecologico venivano ingannate delle donne in gravidanza, veniva loro detto che il figlio che aspettavano aveva gravi malformazioni, e veniva offerta la strada dell’aborto. Il tessuto era così procurato facilmente. Il dottor Julian Alvarez ha scritto un libro, “Artigiani della vita”. Spiega come a Cuba “attualmente si realizzano centomila aborti ogni anno. Il Ciren si trova di conseguenza a ottenere, con relativa facilità, il tessuto embrionale per il suo impiego in questi trattamenti”.
Alvarez specifica che le donne danno il loro consenso sia per l’aborto che per la cessione del materiale biologico alla medicina, ma poi aggiunge un dettaglio non rassicurante: “tutti quelli che conoscono da dentro la vita di Cuba, sanno che le ‘pazienti’ non possono decidere nulla in merito. Molti degli aborti o ‘interruzioni’ si fanno in accordo con le necessità del Ciren”
Per la Molina vedi Repubblica 13/8/1995: “Per assicurare al governo preziosa valuta estera, una dottoressa cubana sarebbe stata costretta a eseguire trapianti di tessuto cerebrale di feto, ottenuto da aborti appena fatti, su ricchi pazienti stranieri affetti dal morbo di Parkinson. Lo ha scritto ieri il quotidiano britannico Independent in una corrispondenza dall’America latina basata sulle confessioni della dottoressa Hilda Molina, la quale ha personalmente eseguito i trapianti, che fruttavano al governo fino a ventimila dollari ciascuno”).
Ancora oggi tra gli oppositori in carcere dei fratelli Castro, spiccano le figure di Eduardo Dìaz Fleitas, vicepresidente del movimento clandestino “5 agosto”, colpevole di aver protestato contro l’aborto forzato nel paese, e soprattutto quella del medico cattolico Oscar Elìas Biscet.
Biscet è nato all’Avana, nel 1961. Nel 1985 si è laureato in medicina, per poi creare, nel 1997, la fondazione Lawton per i diritti umani: tra questi egli pone, al primo posto, il diritto alla vita. Nello stesso anno 1997 il dottor Biscet ha effettuato uno studio per documentare le tecniche di aborto utilizzate nell’ospedale Hijas de Galicia. Lo studio, che espone rivelazioni raccapriccianti su infanticidi, aborti forzati e sull’uso del Rivanol come abortivo utilizzato sino alla XXV-XXVI settimana, è intitolato: “Rivanol. Un metodo per distruggere la vita”.
In questo lavoro sono enumerati i metodi abortivi comuni utilizzati nel sistema sanitario cubano e si denuncia che nel caso di fallimento del Rivanol, cioè in un’alta percentuale di casi, il bambino viene ucciso per soffocamento, per emorragia, tagliando il cordone ombelicale, o lasciandolo morire senza assistenza. Inoltre Biscet elenca statistiche preoccupanti su quanto siano numerosi gli aborti su bambine molto piccole, probabilmente vittime del turismo sessuale e della promiscuità ormai diffusa.
Le conseguenze della battaglia pro life di Biscet non tardano ad arrivare: nel febbraio 1998 viene ufficialmente espulso del Sistema sanitario nazionale. Ma Biscet continua a portare avanti la sua battaglia in difesa della vita tramite manifestazioni davanti agli ospedali e scioperi della fame, alternando libertà e carcere. Amnesty International e Freedom Now ricordano che Biscet è stato arrestato il 3 novembre 1999 e rilasciato il 31 ottobre 2002 con l’accusa, fasulla, di “insulti ai simboli della patria”, “pubblico disordine” e “incitamento a commettere crimine”.
Nel 2003 Biscet è stato nuovamente condannato, questa volta a 25 anni di prigione: oggi è in condizioni terrificanti. Secondo Human rights first, Biscet, “difensore dei diritti umani”, soffre di “gastriti croniche e ipertensione”, e ciononostante è confinato in celle solitarie o con “violenti criminali”. Inoltre è privato per lunghi periodi della possibilità di comunicare, di ricevere visite o medicazioni. La sua cella è senza finestre, senza bagno, umida, sporca, infestata dai vermi e senz’acqua.
Quello che però non si capisce bene, leggendo buona parte dei comunicati di Human rights first, come del resto quelli di Amnesty International, sono due cose: che il diritto umano primario per cui Biscet si batte è quello alla vita (“No a la pena de muerte, no al aborto”); e che nella sua lotta questo eroe sconosciuto è sostenuto dalla fede e dalla preghiera. Paradossalmente sono verità, almeno la prima, che neppure il regime vuole far conoscere, visto che Biscet è in galera, ufficialmente, per motivi politici.
Molto più espliciti i siti cubani, di esuli o di suoi amici ed estimatori, che dicono apertamente che Biscet e la sua fondazione combattono per la libertà dei prigionieri e di tutti, e “contra del aborto, eutanasia y el fusilamiento”, “derechos fundamentales para la sociedad y el individuo”. Inizia infatti così un appello del dottore cubano ai suoi colleghi medici, il cui unico fine dovrebbe essere “promuovere la salute e preservare la vita”: noi siamo in difesa della famiglia, “la cellula fondamentale della società. La famiglia che è oggi in crisi per un sistema che promuove e stimola la mentalità antinatalista con metodi che offendono la dignità umana. Ci riferiamo all’aborto, crimine abominevole”, violenza contro la persona umana.
E finisce: “Diciamo no alla pena di morte per aborto, eutanasia o fucilazione… Abbasso l’aborto, abbasso la pena di morte, viva il diritto alla vita”.