Il Corriere della Sera 7 maggio 2015
«Mi chiedo: ma non è che stiamo esagerando? Non è che finiamo per confondere le idee ad adolescenti che vivono una fase delicata e non sanno neanche loro bene cosa sono?»
di Monica Ricci Sargentini
Io so cosa vuol dire non riconoscersi nel proprio sesso di nascita, perché tra i 5 e i 14 anni volevo essere un maschio. Non un maschiaccio, come si dice bonariamente delle bambine più vivaci, ma proprio un maschio. Odiavo merletti e fiocchi, portavo solo pantaloni ed ero così contenta quando la gente mi scambiava per un bambino. Cercavo di camminare in modo non aggraziato e passavo ore a chiedermi perché mi era toccata la sorte tragica di non avere il pisellino.
Giocavo a pallone, dicevo parolacce perché mi sembrava più virile, schifavo le bambole, il colore rosa mi faceva orrore. I miei ebbero l’intelligenza di assecondarmi senza ingigantire la cosa. Ma quando sono entrata nell’era della pubertà non potevo più fingere di essere quello che non ero. Ero letteralmente disperata. Mi ricordo ancora la tristissima gonna salopette jeans che mia mamma mi comprò a 14 anni. Mi sentivo brutta, goffa, sbagliata. Eppure oggi sono super contenta di essere femmina/mamma e non vorrei proprio per nulla essere un uomo.
A quel tempo, però, nessuno parlava di «disforia di genere» o proponeva di sospendere la pubertà a quei ragazzi/e che non si riconoscono nel proprio sesso come fanno ora in una clinica olandese. Mi chiedo: ma non è che stiamo esagerando? Non è che finiamo per confondere le idee ad adolescenti che vivono una fase delicata e non sanno neanche loro bene cosa sono? Cosa sarebbe successo se qualcuno allora mi avesse detto che potevo veramente fare la transizione e diventare maschio? Io temo proprio che in quel momento avrei detto di sì. E sarei stata infelice per la vita.
Ultimamente siamo bombardati da notizie sui transgender, otto articoli dall’inizio dell’anno solo sul Corriere, e mai si profila il caso che la «disforia di genere» sia solo un momento di crescita dell’adolescenza. A questo si associa un altro dibattito, per me altrettanto spinoso. Un’amica di vecchia data mi scrive: «Firma per favore visti gli attacchi di un certo integralismo cattolico». Il link rimanda a una petizione per introdurre nelle scuole la cosiddetta teoria del gender, quella che, per riassumerla in poche parole, distingue tra il sesso di nascita e il genere con cui una persona si identifica.
«No, non firmo – rispondo – perché da femminista sono contraria a una teoria che annulla le differenze tra uomo e donna». I miei amici della comunità Lgbt mi perdoneranno ma la strada che alcuni di loro hanno intrapreso mi sembra sia nociva anche alla loro causa. È come se si stesse perdendo il contatto con la realtà e si volesse calare dall’alto un modello fissato a priori che ci rende forzatamente tutti uguali cancellando quelle differenze che invece sono la nostra forza.
Una cosa mi sembra abbastanza acclarata: noi umani nasciamo maschi o femmine. E, al di là degli stereotipi e dei condizionamenti, i due sessi sono fondamentalmente diversi per sensibilità e modo di ragionare oltre che fisicamente. Lo sappiamo bene noi femministe che tanto abbiamo insistito sul valore della differenza.
Parità sì ma di certo non per appiattirci sul modello maschile, non per diventare come gli uomini bensì per esaltare le nostre capacità e rivendicare il valore di un nostro modo di sentire, di ragionare. La nostra emotività, per esempio, è un punto di forza non una debolezza. La possibilità di uscire dai binari della razionalità per far parlare l’istinto, le emozioni, la pancia, è una capacità di cui andiamo fiere.
Per questo la cosiddetta teoria gender mi sembra addirittura pericolosa là dove vuole annullare queste diversità. Perché se mia figlia apre l’armadio e guarda tutti i vestiti prima di sceglierne uno di certo io non ci vedo un effetto malvagio dello stereotipo che vuole le bambine leziose e carine ma una manifestazione della sua innata femminilità.
Esattamente come il mio secondo figlio maschio va in brodo di giuggiole ogni volta che vede una palla o una macchinina. E di sicuro non sono io ad averglielo insegnato. Una come me che da bambina disdegnava le bambole e si ostinava a vestirsi come un maschio. Proprio a me doveva capitare la figlia tutta trucchi e fiocchettini. Una bambina che vede il mondo dipinto di rosa. Ma non la contrasto, essendo sicura che crescendo apprezzerà anche altri colori, smetterà di sognare principesse e scalerà il mondo senza paura.
E quelli che non si ritrovano in questo schema? Si sentiranno diversi? Esclusi? Emarginati? Penso che questo sia un falso problema perché il nostro compito è di educare i bambini a rispettare le diversità, a non discriminare, ad essere tolleranti, ad aiutare gli altri. Un principio generale che vale per tutti: gli omosessuali, i migranti, i neri, gli obesi, i portatori di handicap. Non serve un’educazione mirata contro l’omofobia, serve un’educazione e basta.
Mio figlio Simone a tre anni aveva una fidanzatina e io, come tutti i genitori, mi divertivo a raccontare le loro gesta: «Vogliono 11 figli, anzi 99». Tutti ridevano. Finché un mio amico omosessuale, scandalizzato, mi apostrofò così: «Monica ma che fai lo cresci come un eterosessuale?». Ecco questa domanda racchiude tutte le mie perplessità sulla teoria di genere. Quando uno ha un figlio cerca di allevarlo nel migliore dei modi ma certo a tre anni non gli prospetta tutte le diverse opzioni di una sua futura sessualità come se fosse un menu à la carte. È folle anche il solo pensarlo.
Amici della comunità Lgbt è possibile dire quello che sto dicendo senza essere tacciata di omofobia? Non pensate che voler imporre una simile sovrastruttura possa ottenere l’effetto contrario a quello desiderato? Veramente vogliamo imitare quei genitori canadesi che si rifiutavano di rivelare il sesso del figlio/figlia di 3 anni perché non subisse condizionamenti di genere? Una simile ipotesi mi fa orrore.