Da quale vita nasce Comunione e Liberazione

GiussaniSupplemento a Tracce Litterae Communionis
n.2 febbraio 2010

INTERVISTA A LUIGI GIUSSANI

a cura di Giorgio Sarco, maggio 1979

Questa intervista a don Giussani fu effettuata nel maggio 1979 per il settimanale Il Sabato, che la pubblicò nel n.20 del 19/05/1979 omettendone, per ragioni di spazio, diverse parti. La presentiamo qui nella versione integrale, che fu pubblicata come supplemento a Litterae Communionis CL n.7-8 (1979) e successivamente in Un avvenimento di vita, cioè una storia (Edit – Il Sabato, Roma 1993, pp. 347-371)

l’intuizione originaria

Cos’è propriamente Comunione e Liberazione, un progetto sociale, una cultura, una strategia educativa, o che cosa altro ancora ? 

Comunione e Liberazione è solo una intuizione al cristianesimo come avvenimento di vita e quindi come storia. Fin dagli inizi del movimento è stato sempre sottolineato che un’idea, un valore intuito, si svolge in un metodo di affronto della realtà, che a sua volta opera un cambiamento di tutti i rapporti che si vivono. Egualmente l’intuizione cristiana si svolge in un metodo di giudizio e di vita.

Io credo che la storia e lo sviluppo che il movimento ha avuto dipendono anzitutto dalla centrata autenticità dell’intuizione originaria, cioè del punto di vista dal quale siamo partiti per impegnarci con il fatto cristiano. Ricordare come questa intuizione sia nata in me è risvegliare una delle memorie più belle della mia vita.

Certo, la prima intuizione che l’orizzonte dell’esistenza è l’amore di Dio si è accesa in una situazione spiri­tuale preparata dall’educazione familiare e poi approfondita dalla vita seminaristica; ma propriamente essa è sbocciata e divenuta consapevole quando ho letto e compreso per la prima volta con vera intelligenza l’inizio del vangelo di Giovanni: «II Verbo si è fatto carne».

Ricordo come il mio professore in seminario, don Gaetano Corti (che attualmente mi pare insegni Storia del cristianesimo all’Università di Trieste), spiegava questo passo a noi ragazzi, dicendo che la chiave di volta della realtà ed il centro della vita della persona e del mondo si era reso presenza incontrabile per ciascuno di noi in Cristo.

In quel tempo leggevo Leopardi con grande gusto e passione; ed in particolare mi soffermavo sul Canto alla sua donna, che uno dei maggiori commentatori, il Levi, considera chiave di volta dell’intera vicenda spirituale del poeta. Fino ad allora Leopardi si era innamorato di una donna, poi di un’altra, poi di un’altra ancora; ma capiva che era un’altra cosa quella che cercava dentro il volto di ogni donna: la Bellezza, a cui nessuna figura di donna rendeva totale giustizia.

Scaturì allora in lui quella che si può giustamente chiamare preghiera, la preghiera di un ateo: «Se delle eterne idee / L’una sei tu, cui di sensibil forma / Sdegni l’eterno senno esser vestita, / E fra caduche foglie / Provar gli affanni di funerea vita /… / Di qua dove son gli anni infausti e brevi / Questo d’ignoto amante inno ricevi».

Ho incominciato a capire l’inizio del vangelo di Giovanni, «il Verbo si è fatto carne», mettendolo a confronto con questa Urica che esprime, in un certo senso, il livello più profondo della ricerca umana. L’uomo è, spesso inconsapevolmente, mendicante della Bellezza, della Verità, della Giustizia, senza poterle trovare in alcun luogo. Ma la Bellezza fatta carne, la Verità fatta carne, la Giustizia fatta carne sono fra noi, sono il Verbo di Dio, sono Gesù Cristo

Di quello stesso periodo ricordo anche, e nello stesso senso, il modo con cui il rettore del seminario, attuale cardinale di Milano, Giovanni Colombo, spiegava e commentava la Divina Commedia, opera del genio più espressivo di un popolo formato dall’esperienza della Chiesa.

Da allora, la prima volta che ho sentito ripetere, con un sussulto, l’intuizione originaria chiarita dalle esperienze di quegli anni, e con lo stesso accento, è stata nell’enciclica di Giovanni Paolo II: «Cristo è centro del cosmo e della storia». È questa, infatti, l’intuizione che mi sono portato dentro per tutta la vita seminariale; essa ha costituito il motivo esauriente per cui sono andato ad insegnare religione nelle scuole: appunto per comunicare ai giovani quella verità che mi aveva colpito e la ne­cessità di cambiare la vita alla luce di essa.

Un altro elemento che ha contribuito alla crescita del movimento, a farne quello che è, è stato il tipo umano a cui questa intuizione si è rivolta: i giovani, che hanno portato in quegli anni la freschezza della loro semplicità e della loro generosità, e l’hanno comunicata, attraverso le vie normali di un’amicizia, in tutt’Italia.

Il metodo dell’esperienza

Ci ha detto che all’inizio della storia del movimento di Comunione e Liberazione c’è un’intuizione, svolta in un metodo di vita e di presenza, e ci ha parlato di questa intuizione. Potrebbe ora chiarire in cosa consiste il metodo attraverso il quale essa è cresciuta?

Il cristianesimo è l’annuncio che Dio si è reso presenza incontrabile nella storia, come un qualsiasi fattore dell’esistenza umana. Dio si è reso constatabile nella realtà di un segno che duemila anni fa era l’umanità singolare di Cristo e oggi, per Sua volontà, è l’unità dei credenti, la Chiesa. È imbattendosi in questo segno che l’uomo realmente fa esperienza della presenza di Dio.

Il metodo dunque consiste in questo: che l’intuizione diventa esperienza L’esperienza è anzitutto l’imbattersi in un segno, in una realtà oggettiva che mobilita la persona verso il suo fine, verso il suo destino (ed in questa mobilitazione la persona è provocata ad un cambiamento, ad una conversione). L’esperienza è il luogo in cui si vede se ciò che si è intuito vale per la vita. L’oggetto in cui l’uomo si imbatte, il segno, è una provocazione. La presenza di Cristo nella vita dell’uomo del nostro tempo non arriva in modo storicamente efficace se non come provocazione che perturba il modo di concepire la realtà, anzi addirittura perturba il modo di percepirla e, quindi, perturba i criteri con cui valutare e decidere.

Il primo elemento metodologico è l’insistenza sulla certezza, costitutiva del nocciolo della intuizione cristiana, che Cristo è il centro del cosmo e della storia: questa «parola chiara», questa certezza già in sé è sconvolgente – e lo si vede da questo Papa -, contiene una suggestività profonda in cui si rivela l’attesa continua, anche se inconscia, che l’uomo ha di questo annuncio.

La portata di verità di questo annuncio, la sua densità esistenziale, come tutto nella vita, deve svolgersi in regola organica, in dinamismo sistematico. È in questo l’importanza della verifica, secondo elemento metodologico: essa esige che, avendo ascoltato un annuncio vero, la persona paragoni con esso il flusso della propria vita, e perciò la trama dei propri bisogni, problemi, situazioni, reazioni, esigenze, eccetera.

Solo così l’incontro con Cristo diventa un punto di vista nuovo, una vera e propria ipotesi di lavoro a partire dalla quale vedere ed affrontare tutto ciò che il dinamismo normale della esigenza quotidiana implica. Per questo l’atteggiamento di «verifica» sbocca in una cultura, cioè in una comprensio­ne complessiva e rinnovata della realtà.

Una sfida culturale

Tuttavia Comunione e Liberazione è stata spesso accusata di non capire l’importanza della «mediazione culturale» e di non valorizzarla…

Questa accusa nasce il più delle volte, io credo, da una concezione ristretta e, tutto sommato, meschina di cultura. Al fondo di ogni vera grande cultura umana, come al fondo di ogni vera opera d’arte o di ogni vera filosofia, c’è sempre una intuizione creativa, che si sottopone al rigore di un metodo. Un affronto che dimentichi l’importanza del rigore esigito da ogni singolo oggetto, è sentimentale; ma una cultura che censuri programmaticamente l’intuizione originaria è astratta. In qualche modo l’inizio dell’atteggiamento culturale dei cristiani è delineato dalla esortazione di san Pietro a «rendere ragione della speranza che è in voi» (1 Pt 3,15).

Questo suppone una interrogazione che parte dal mondo e raggiunge il cristiano. Per «rendere ragione» è necessario prima di tutto che la speranza sia così evidente da colpire gli osservatori, costituire per essi un incontro e costringerli a domandare.

Se tale punto di partenza manca, non è possibile nessuna costruzione culturale inserita nella dinamica della fede. La cultura, infatti, è la passione umana sollecitata e potenziata dall’incontro. Nella concezione paolina Cristo è «la chiave di volta cui sono sospesi ontologicamente tutti gli esseri» (Huby). Esistenzialmente ciò significa che Cristo è il punto di vista unitario capace di far affrontare qualsiasi aspetto dell’esistenza.

Chi capisce questo si trova trasportato di colpo nel cuore di un’autentica posizione culturale, anche se gli strumenti conoscitivi di cui disponesse fossero del tutto inadeguati ad esprimere la profondità di quella comprensione a lui donata. È proprio vero quanto sta scritto nel Salmo 118: «Ho più senno di chi mi è più avanti negli anni, perché la Tua legge, Signore, è l’oggetto della mia meditazione».

Questa implicazione globale del cristianesimo è ciò che fin dal principio ha generato nei nostri ragazzi gusto e decisione ad affrontare criticamente e creativamente l’ambiente della scuola, con tutte le sue asprezze e difficoltà. A ripensarci adesso, c’è da rabbrividire per la buona dose di incoscienza, ma molto di più da ringraziare Dio per la semplicità di cuore con cui abbiamo affrontato l’ideologia dominante nelle scuole e nelle università, tecnicamente così meglio attrezzata di noi, ma così povera di proposta per la vita e quindi di cultura vera.

Nella obiezione rivolta fin da allora al nostro atteggiamento culturale, mi sembra ci fosse una meschinità nel comprendere quale sia il metodo del fare cultura. Mancava, in coloro che ci criticavano, la comprensione del fatto che un orizzonte globale ed un punto di vista veramente unitario sono l’implicazione e l’esigenza ultima di ogni vera impresa di studio e di ricerca. Al livello più profondo, infatti, una posizione culturale si identifica con una passione globale per la vita e per il mondo. Infatti, quello che si aveva di mira attaccando noi, era opporsi all’affermazione che la realtà di Cristo è la chiave di volta di una visione sistematica e critica della totalità dell’esperienza umana.

A livello ultimo la posizione culturale coincide dunque con una forma nuova del soggetto in quanto tale. Questo non è sostitutivo di nessuna mediazione, non abilita a scansare nessuna fatica e non provoca il salto di nessun tempo che tale fatica misuri.

Alcune critiche che ci venivano rivolte nascevano dalla giusta preoccupazione che la nostra posizione e volontà culturale si identificassero con talune grandi affermazioni ideali non giocate in un lavoro, come se per fare cultura bastasse un’intuizione, anzi afferma­re di averla avuta. Invece l’intuizione, se è vera, si svolge in un lavoro. Il rischio, comunque, certamente non nasceva dal nostro prin­cipio educativo, tanto è vero che molti dei ragazzi di quei primi anni sono stati fra i migliori dei loro corsi ed hanno poi anche fatto carriera in campo scientifico.

Anche a questo livello bisogna registrare la sostanziale ingenerosità di tante critiche nelle quali intellettuali di professione si mettevano a misurare, pedanti, parole e virgole dei primi tentativi culturali di un gruppo di ragazzi, con sordità verso ciò che questi incominciavano a mendicare.

Questa scelta dipartire con tanta decisione dall’affermazione che «Gesù Cristo è il centro del cosmo e della storia» non portava ad una chiusura integristica delle comunità studentesche, ad un rifiuto di vivere il rapporto con il mondo moderno e la sua cultura, che ha tutt’altro segno?

Per nulla affatto. Mi spiegherò con un esempio: fin da quando ero ragazzo il mio poeta preferito era, come ho detto, Leopardi, perché poneva in modo clamoroso e perentorio quella domanda di senso ultimo e quindi di felicità che percepivo definire l’essenza stessa dell’animo umano. Questo livello di profondità, l’attesa di Dio, definisce la no stra epoca storica, come qualunque altra, tanto è connaturata all’esserci dell’uomo come tale. Perciò l’apertura ad essa è potenziata dalla nostra certezza di fede.

Le faceva problema il dichiarato materialismo di Leopardi?

Assolutamente no. Era così potente la domanda che lo agitava, che l’insufficienza ideologica della risposta non poteva non risultare subito evidente

L’intuizione di fondo del movimento è più etica, più filosofica o più poetica?

Posta così la domanda, sono tentato di dire che è più poetica. Ma vorrei dire che è semplicemente religiosa. Nello stesso atto di conoscenza stanno l’emozione per l’unità dell’essere che da la poesia e la sete di chiarezza razionale propria della filosofia. Lo dice anche Von Balthasar: l’inizio della teologia è una percezione estetica, e l’avventura della forma svolge tale percezione, facendone un principio di comprensione.

Del resto, io ripeto sempre ai ragazzi: attraverso cosa noi giudichiamo? Attraverso quell’attrattiva dell’essere che ci costituisce. Per questo anche dentro un sistema teoretico strutturato bisogna sempre individuare l’intuizione originaria che tenta di dare ragione di sé attraverso lo sviluppo teorico. Ma al fondo c’è sempre l’attrattiva di un qualcosa sperimentato come vero e che da corposità esistenziale all’affermazione teorica. A questa impostazione si deve il fatto che, all’inizio del movimento, noi abbiamo avuto una posizione culturale attiva. Certo il suo tradursi, il suo specificarsi ed edificarsi implicherà un tempo, l’uso di tutti i debiti strumenti, l’umiltà, il sacrificio ed il rischio necessari.

In questa sottolineatura così decisa dell’importanza della intuizione originaria non c’è forse un rischio di irrazionalismo, di svalutazione del momento razionale della ricerca?

Per nulla affatto. Abbiamo sempre detto che l’intuizione «Cristo è il centro del cosmo e della storia» genera immediatamente una ricerca che la illustri; non è mai un’affermazione vuota; ha sempre un contenuto ragionevole ed umano. Oggetto dell’intuizione è la verità, il fondo dell’essere; e tutto lo spazio della vita e del sapere è il luogo della verifica. Irrazionalistica è la posizione che pone a principio un’intuizione che si rifiuta di svolgersi in un confronto critico con la realtà.

Del resto oggetto dell’intuizione non è un sentimento vago, ma quell’Essere da cui promana la razionalità della natura e della storia. È tanto poco irrazionalistica la nostra intuizione che essa coin­cide con il modo in cui san Tommaso (che certo non è un irrazionalista) parla di «intelligenza». L’intelligenza, infatti, per Tommaso, non è altro che l’atto con cui l’uomo si apre umilmente e senza presunzione alla verità e se ne lascia riempire. Tanto poco questa apertura originaria contraddice alla razionalità che ne è, propriamente, il principio e l’inevitabile presupposto.

Pure, quello che lei dice, sembra che nessuno lo abbia rilevato, tanto è stato massiccio l’attacco ideologico contro CI.

No, non bisogna esagerare. Qualcuno ci ha capiti, abbiamo avuto anche i nostri amici. Voglio ricordare prima di tutto La Pira, che è forse il primo fra quanti abbiamo incontrato che ci abbia veramente compreso. Poi vorrei ricordare, tra i docenti dell’Università Cattolica, il professor Bontadini e, negli anni più recenti, Von Balthasar. Oltre a questi, naturalmente, molti altri, che non posso nominare tutti e che vorrei ringraziare.

Ma anche altri «incontri» culturali per noi sono stati decisivi: quelli con i Padri ed i Dottori della Chiesa, e con molti che hanno vissuto con vera profondità la loro vicenda umana.

condivisione dell’umano

A questo proposito mi ha sempre colpito l’accusa a CI di rappresentare una cultura tradizionale (non nel senso giusto della parola, di legame, cioè, con la radice vera della vita della Chiesa, ma nel senso polveroso, accademico…).

Fin dai primissimi tempi abbiamo sottolineato la necessità di partire dall’uomo e ci siamo trovati compagni i più grandi scrittori, da Péguy a Claudel, da Dostoevskij a Thomas Mann, da Leopardi a Rilke. Una posizione culturale corretta, infatti, non ha paura di nulla, incontra tutto l’umano e trattiene ciò che è giusto senza lasciarsi deviare dall’ideologia. È detto in modo insuperabile nel Vangelo: «II saggio tira fuori dal suo tesoro cose vecchie e cose nuove».

Così la nostra gente ha navigato tra le pagine di Shakespeare o di Pavese condividendone a fondo lo spessore umano e ritrovando la ricchezza di quella domanda umana la cui sola risposta adeguata è Cristo. Con quale entusiasmo e spirito di condivisione noi leggevamo in quelle pagine la vicenda dell’uomo! Tutti i nostri raduni utilizzavano dei libretti preparati dagli stessi ragazzi che segnalavano le letture che più li avevano colpiti, che più avevano trovato consonanti con la propria esperienza ed esemplari di una verità o di un valore.

In quei libretti è possibile incontrare, per esempio, la poesia neoromantica o la teologia dei Padri, Newman e Guardini, eccetera…

Si può dire che il metodo che lei espone parte dall’uomo, anzi dal fondo della questione umana, come ben chiarisce ne II senso religioso; nello stesso tempo afferma che non è possibile parlare dell’uomo a prescindere da Cristo, dall’incontro con Lui. In altri termini che l’uomo è una domanda, e una domanda non può essere compresa se non implicando la risposta ad essa…

È soltanto quando si incontra la risposta che la domanda si illumina. La convinzione programmatica che ha guidato i nostri primi passi, quasi come tema di una sfida alla cultura dominante, è il grido con cui il retore Vittorino annunciava la sua conversione al popolo: «Quando ho incontrato Cristo mi sono scoperto uomo».

Con quale criterio noi possiamo valutare tutta la proposta che dalla vita emerge, nelle innumeri forme in cui questa proposta si fermenta e si coagula? O questo criterio si delinea come originale e costitutivo del nostro «io», come il volto, lo sguardo con cui la natura ci butta nel rapporto con tutto, oppure questo criterio ci viene dato e quindi continuamente imposto dalla mentalità dominante.

L’unico caso in cui viene salvata la possibilità di «essere» della persona, la capacità critica, è il primo: un criterio offerto dal volto originale, costitutivo del nostro «io», struttura della nostra natura. È questo il criterio che si palesa in quella che io chiamo «esperienza elementare»; quel complesso, cioè, di esigenze ed evidenze con cui la natura ci impegna al paragone con ogni cosa. Questo complesso di esigenze costituisce l’interrogativo che l’uomo è.

La persona ultimamente è sete di verità, di felicità, di libertà, cioè sete di essere, di realizzazione totale, e quindi sete di adesione a ciò che la completi e la «faccia». «Nulla è tanto incredibile quanto la risposta a un problema che non si pone» (R. Niebuhr). Ho sempre citato questa frase ai ragazzi perché la prima condizione per capire la risposta all’umano che Cristo pretende di essere è di sentire fino alla sofferenza la propria domanda umana inevasa. L’incontro con Cristo esalta questo dolore come s’esalta una fame alla vista del cibo.

E questo, in un certo senso, è anche il compito della comunità cristiana come fatto concreto e visibile, presente nell’ambiente, su cui il movimento tanto insiste, perché soltanto rincontro con un’umanità diversa apre a riconsiderare il problema umano…

Indubbiamente si deve anche tener presente che la comunità è condizione esistenziale necessaria al proprio «io», alla persona. Se infatti da una parte essa è il primo impatto, per quanto magari titubante e fragile, con il segno di Cristo, dall’altra, la comunità è l’humus nel quale la realtà della persona può sviluppare la percezione di sé e quindi può far scaturire la domanda vera.

La ricerca intellettuale

Questa intuizione è profondamente moderna ed insieme assolutamente tradizionale. Del resto mi ha sempre colpito molto il fatto die le prime pagine de II senso religioso ripetono, con parole filtrate dall’esperienza moderna, le note di apertura di Quella grande sinfonia sull’uomo che è la Prima Secundae della Summa Theologiae di san Tommaso. Quali sono stati i maestri che l’hanno introdotta a questa comprensione, così inusitata per la cultura cattolica dell’epoca, del retaggio tradizionale della Chiesa ?

Oltre ai nomi già citati, direi il clima stesso del seminario di Venegono. Perché, anche se non in maniera geniale come nei nomi citati, tutti là erano animati dall’intuizione che la verità e quindi la novità nell’uomo è aiutata a prendere coscienza di sé dalla testimonianza del lungo passato cristiano, e trova in esso l’indicazione della risposta vera.

Su quella base si è poi impiantata però la sua attività di ricercatore e di docente nell’università. Vuole raccontarci qualcosa di questo aspetto della sua esperienza intellettuale?

Ho fatto la mia tesi di laurea su Reinhold Niebuhr. È un personaggio singolare che unisce in sé acutezza d’indagine sociologica, profondità filosofica e lo spirito religioso di un grande teologo. Egli rappresenta il risultato più maturo e critico della teologia protestante nordamericana degli anni Trenta-Quaranta.

La Prima Guerra mondiale e poi la grande crisi del ’29 imponevano una profonda autoriflessione critica all’ingenuo ottimismo progressista che aveva impregnato di sé fino ad allora il pensiero religioso americano, per esempio nella direzione del Social Gospel teorizzato dal Rauschenbusch. Niebuhr, a partire da questa situazione spirituale, riscopre in un certo senso la immanente tragicità dell’umano esistere e sviluppa quindi una nuova teologia che si suole definire esistenzialista, ma che nelle sue punte più alte merita invece di essere considerata semplicemente realista, per lo straordinario equilibrio con cui sa descrivere insieme la grandezza e la miseria dell’uomo. Più tardi ebbi la possibilità di un lungo soggiorno in America, durante il quale ho svolto le ricerche che sono poi state raccolte nel mio libro Teologia protestante americana. Profilo storico.

Che cosa ha imparato un cattolico come lei dalla teologia protestante?

Prima di tutto il senso del limite inerente ad ogni posizione umana. Questa è la pedana di lancio di ogni spirito sano verso la percezione dell’esistenza del divino. Connesso con questo è il senso della concretezza che, nei casi migliori, non è affatto un piatto pragmatismo, ma un gusto per la realtà vista nella totalità dei suoi fattori, che sfocia in un realismo nel quale il rispetto per la libertà si appaia con la valorizzazione di tutti gli aspetti delle cose. Un’altra figura che mi ha molto influenzato fu Paul Tillich. Benché sia tedesco come formazione originale, Tillich ha però incarnato lo spirito del protestantesimo americano in modo perfetto.

C’è una crìtica che lei, come cattolico, farebbe a questa impostazione teo­logica pure così affascinante ?

Ecco, io credo che ci sia un aspetto, quello più profondo, del pensiero sia di Niebuhr che di Tillich, che non può essere sviluppato a fondo in un ambiente protestante, se non si vuole ripetere l’itinerario per esempio di un Newman verso la Chiesa cattolica. Si tratta proprio della percezione del limite. Dice Tillich che la realtà umana è una specie di linea di confine in cui la storia ed il mistero dell’uomo si incontrano. Una linea di confine, non un segno, e meno che mai un segno efficace, nel quale il mistero si fa presente (un sacramento). Per questo motivo la loro riflessione rimane ultimamente come sospesa in un vuoto.

All’interno dell’a priori soggettivistico, che è proprio del pensiero protestante, il limite finisce quasi inevitabilmente con il rimandare piuttosto che a Dio alla profondità stessa dell’individuo, oppure della umanità come tale, come avverrà nelle diverse teologie della morte di Dio, per esempio in Vahanian. Il messaggio biblico di salvezza si riduce ad essere un contesto d’intuizioni, all’interno del quale si svolge una semplice analisi esistenziale dell’uomo.

Nella tradizione cattolica, invece, il limite assume consistenza ontologica e sacramentale; nel segno l’Essere trapela, si annuncia, sostenendo la forma stessa del segno e stabilendone la capacità di richiamo evocativa e suggestiva. È insomma l’idea tomista dell’essenza delle cose come segno dal quale l’Essere trabocca facendosi incontro a chi cerca la verità. È questo sentimento dell’oggettività del mistero che toglie al gusto per il concreto, cioè per l’esperienza e la verifica, il rischio di cadere in un pragmatismo senza anima.

Quello per la teologia protestante americana non è stato però l’unico interesse culturale del suo periodo di studio e di insegnamento…

No. Tre sono stati gli incontri intellettuali dei miei anni di studio della teologia: Newman, che mi ha introdotto alla cultura anglosassone e che aveva già incominciato a interessarmi fin dai tempi del liceo; Mòhler e la teologia cattolica tedesca dell’Ottocento; e poi i filosofi ed i teologi dell’ortodossia russa, specialmente gli «slavofili». Anzi, per qualche tempo ho anche insegnato Teologia orientale alla Facoltà teologica. Anche qui, se il primo confronto fu naturalmente Dostoevskij, lessi poi Chomjakov, che mi rivelò la bellezza e la profondità della concezione russo-ortodossa della Chiesa. Ho letto molto di quello che si poteva reperire in quegli anni sulla ecclesiologia orientale e che veniva divulgato soprattutto dall’Istituto Russicum dei gesuiti romani.

In che cosa è consistito propriamente questo incontro con la tradizione orientale?

Due sono gli elementi che soprattutto mi hanno colpito, due elementi che fanno parte integrante della nostra stessa tradizione cattolica ma la cui memoria si è, in Occidente, come affievolita. Il primo è il concetto di trasfigurazione, che è rimasto uno dei fattori fondamentali del nostro discorso. Cioè: chi affronta il mondo in Cristo percepisce e manipola le cose in un modo tale (come segno di Cristo) che esse si rivelano come l’albore di una nuova giornata, vale a dire come principio misterioso della manifestazione di Cristo.

Questo elemento in Occidente è stato degradato a «modo di dire» di una teologia mistica che ci si può permettere di non prendere troppo sul serio (come se il mistico fosse un tipo un po’ folle e non uno che va più al fondo in un mistero che sostiene in sé la vita di tutti). L’uso delle cose, in questa luce, è come l’albore reale dell’esperienza di umanità nuova e di mondo nuovo («cicli e terra nuova»); è la manifestazione iniziale (aurorale) della pienezza di verità e di bellezza a cui il segno rimanda. Il mondo nuovo infatti è già iniziato con la resurrezione di Cristo ed a noi è dato di farne esperienza.

Il secondo elemento decisivo che ho imparato dagli orientali è il concetto di «sobornost»: è lo sviluppo di una virtualità poco sottolineata della «comunione». La comunionalità cioè, è fattore necessario alla conoscenza, è fattore che la rende possibile. Vita di comunione e conoscenza nuova (cioè autentica, vera) della realtà sono connesse tra loro. Certo, non nel senso banale che gli oggetti della conoscenza risultano materialmente diversi, ma in quello che la loro verità ultima, il loro essere per la redenzione finale si manifesta: risulta perciò veramente diverso il «volto» delle cose.

È, in un certo senso, la stessa cosa che uno dei più grandi filosofi laici del nostro tempo, Theodor W. Adorno dice, parlando della sua Teoria critica della società: «Guardare il mondo dal punto di vista di una redenzione possibile». Ma del resto anche Adorno, come origine, era ebreo, cresciuto nella fede dei profeti e del popolo della Bibbia. Allo stesso concetto di «sobornost» mi pare si possa legare anche l’idea della Chiesa come «popolo di Dio».

Mi sembra più giusto dire l’idea della Chiesa come corpo di Cristo, la cui forma di segno è di essere popolo. Era un’idea che ci aveva affascinati già prima del Concilio e che noi leggevamo nella Mystici corporis: l’idea di popolo completa dal punto di vista di un’evidenza educativa quella ontologicamente più profonda di corpo di Cristo.

La «communio»

Le cose dette ci riportano al modo in cui al principio aveva impostato la questione della cultura.

Sì, la cultura è infatti l’espressione tendenzialmente critica e compiu­ta della coscienza che la persona ha della totalità del proprio essere. Di questa totalità vivente la dimensione comunitaria, di popolo è un elemento essenziale. La comunità dunque è un fattore, una «dimensione» della persona, non è un’organizzazione né un assembramento né tanto meno un collettivo che si sostituisce alla persona. È questo, del resto, anche il senso vero del personalismo comunitario di Mounier e di Maritain, troppe volte distorto o nel senso di un deleterio individualismo o in quello di una sottolineatura esasperata (ed assai poco cristiana) del collettivo. La «communio», invece, avviene sempre a partire dalla ontologia della persona.

Abbiamo parlato della cultura protestante e di quella ortodossa. Lei, che ha una simpatia così viva per queste tradizioni religiose, perché è cattolico?

Da questo punto di vista per me è decisiva la risposta che ha dato Newman all’identica questione: perché questa è la tradizione ininterrotta che arriva a partire da Cristo e dai suoi apostoli fino a noi. Inoltre la Chiesa cattolica è l’unica (insieme a quella ortodossa) che salva la struttura originale che il Padre ha scelto per comunicarsi agli uomini, quella struttura sacramentale che ha la sua radice nella presenza di Dio in Cristo.

Ed è l’unica struttura dell’avvenimento religioso interamente, pienamente umana. La verità, infatti, attira come «adaequatio» fra ciò che ci sta davanti e la percezione che abbiamo di noi stessi. Ora, nel sacramento di Cristo, Dio si fa avanti verso l’uomo e diventa incontro pieno di verità e di fascino anche umano.

Non esiste nulla di più corrispondente alla natura dell’uomo. Ma c’è anche un altro motivo. Proprio l’incontro rispettoso e pieno di ammirazione con lo spirito protestante e con il genio dell’ortodossia mi ha fatto capire meglio come la Chiesa cattolica sia l’unico luogo nel quale il senso ortodosso della comunione ed il gusto protestante per il concreto e l’individuale possono armonicamente conciliarsi in una sintesi plenaria.

Questa impalcatura culturale, che ci ha illustrato, in gran parte era già costruita prima del Concilio. Che impatto ha avuto il Concilio sul movimento? È vera l’accusa che spesso si fa a Comunione e Liberazione di essere rimasta ancorata a posizioni preconciliari?

Io mi ricordo ancora i soprassalti di entusiasmo che abbiamo avuto trovando sviluppate organicamente nei documenti del Concilio, che man mano uscivano, tematiche che costituivano il contenuto più profondo della nostra sensibilità intellettuale, del nostro impegno e della nostra prassi di vita. Avevamo la riconoscenza di chi si sente ridire con più compiutezza e profondità, con «autorità», il perché esauriente di ciò che sta vivendo. Mi ricordo, per esempio, la festa che abbiamo fatto quando è uscita la Lumen gentium, che pone così magnificamente l’accento, particolarmente nel paragrafo ottavo, sulla Chiesa come comunità visibile, sperimentabile, incontrabile: l’anima del nostro tentativo.

Così pure la Gaudium et spes, per l’interessamento, la passione per il mondo, la stima dei tentativi umani, pur nella percezione della loro tristezza ultima. Anche questa è stata sempre una nostra caratteristica, come si è visto dalla passione con cui la nostra gente si è buttata assetata alla ricerca della verità nell’umano, dovunque e comunque essa fosse incontrabile. Quanto più è vera, però, questa passione simpatetica, tanto più grande è la percezione della tristezza ultima per l’incompiutezza dell’umano, così che solo nella esperienza di Cristo la speranza trova il suo compimento.

Del resto, una delle frasi che citavo sempre era questa: «Non sono venuto a togliere la Legge ma a compierla», vale a dire, a renderla vera. La «Legge» è l’espressione più alta dello sforzo di intelligenza e di moralità dell’uomo, che Dio non disprezza, ma coglie e compie nel mistero della Sua presenza. No, non si può dire davvero che noi non ci siamo trovati in sintonia con il Concilio: del resto i teologi, sui libri dei quali ci siamo formati, non sono forse i precursori e gli esperti del Concilio? Si pensi a De Lubac e a Von Balthasar; ma altri si potrebbero aggiungere.

I motivi dell’accusa contro di noi sono diversi. Molti protagonisti dell’«aggiornamento» conciliare in Italia erano convinti che il Concilio avesse aperto la Chiesa cattolica ad una trama di pensiero mutuata da certe mode filosofiche o sociologiche. Noi invece, pur rispettando tutte le scienze umane, ciascuna nel proprio ambito, eravamo convinti che il punto di partenza cui il Concilio ci rimandava era l’imitazione della struttura mentale, del metodo, che Cristo aveva usato nella sua vita.

Aprirsi al mondo non vuoi dire accettare, magari acriticamente, le ideologie del mondo, ma piuttosto incontrare il desiderio di verità che anima gli uomini. Del resto si è visto come fossero infondate, per esempio, le posizioni di quelli che ci accusavano di integrismo sventolando ad ogni pie sospinto il libro di Maritain sull’ Umanesimo integrale. Credo che non vi sia dubbio alcuno sul fatto che, se fosse vivo e si interessasse delle cose italiane, il grande filosofo francese si riconoscerebbe assai più nelle nostre posizioni che in quelle di tanti suoi discepoli di allora (e di ora: si ricordi l’accoglienza a Le Paysan de la Garonné)

Autorità e libertà

Ha sempre destato tantissime difficoltà l’uso che Comunione e Liberazione ha fatto della parola e del concetto di autorità. Su questo c’è stato lo scontro forse più radicale, perché la sottolineatura dell’autorità è sempre apparsa al mondo come un qualcosa di anti-moderno, medievale, negatore della libertà e dell’indipendenza dell’individuo. Lei invece ha sempre affermato che l’autorità è l’occasione della libertà. Vuole spiegare meglio questo concetto di autorità?

Giustamente lei dice che l’autorità è l’occasione del manifestarsi della libertà, perché è di fronte al proprio oggetto che una potenzialità entra in atto; è di fronte ad un esempio più maturo di fede (come chiarezza di idee, come generosità di azione, e quindi come suggestività di proposta) che la libertà, intravedendo meglio il proprio oggetto ultimo, si mette in azione.

È nell’impatto provocato da una presenza più tesa verso l’ideale che diventa più evidente la ragionevolezza e la suggestività di ciò verso cui si tende e la possibilità, perciò, di conseguire il proprio fine. Per questo motivo è sempre per imitazione che la dinamica della affermazione di sé si sviluppa equilibratamente e sanamente.

Tradotta in termini dignitosamente umani, questa imitazione si chiama sequela. La sequela è quindi la modalità con cui la persona si rende conto dei valori. Lungi dall’essere (come molti hanno volutamente mistificato, quasi fosse il nostro sistema) un abbandono irragionevole, essa è l’atto che più di ogni altro richiede l’esercizio dell’intelligenza: per vedere se e come si realizzi la verifica della proposta di valore che l’autorità impersona.

Ma perché questo esercizio della ragione scatti, occorre la disponibilità originaria a dare credito ad una novità, dapprima solo intuita, ed a seguirla. Ciò che rende ragionevole il seguire è il sussulto che una vera presenza autorevole desta nella vita come consiglio imprevisto ad uscire da sé, a rischiare con più coraggio l’avventura umana.

Questa «autorità» noi l’abbiamo tante volte identificata come «grazia», un «dono», o per parlare più laicamente, l’emergere di una ipotesi di lavoro da verificare. L’autorità è, esistenzialmente, la grande ipotesi all’interno della quale uno si mette al lavoro. Se l’autorità è adeguata, cioè vera, corrispondente nella sua proposta alla verità oggettìva, allora il paragone con la vita verifica nel tempo l’esattezza dell’ipotesi.

Per questo la gratitudine verso il maestro che ha introdotto nella verità della vita e quindi nell’esperienza della libertà va di pari passo con l’aumento della libertà che la persona assume nella vita. Non è questa una dottrina propria di CI, ma è il modo in cui la Chiesa ha sempre inteso l’educazione. Anche la cultura laica più avvertita giunge alle stesse conclusioni: quale psicologo negherebbe che questa è la dinamica attraverso la quale il bambino, e poi l’adolescente, nel rapporto con il padre e con la madre, raggiungono la consapevolezza di sé?

C’è però una difficoltà segnalata da molti: come si lega questa conce­zione, assolutamente libera, carismatica, dell’autorità, con l’autorità istituzionale all’interno della Chiesa, con la sua struttura gerarchica nella quale l’autorità non nasce da un libero riconoscimento?

Seguendo il Papa, i vescovi ed i sacerdoti che sono in comunione con lui, non si seguono le loro figure umane, ma Cristo attraverso loro; si segue il disegno dello Spirito di Dio nella storia e nella nostra vita. Sono essi, infatti, gli strumenti di cui Cristo ha voluto servirsi per arrivare a tutti. La sequela diventa naturale non appena si impara ad intravedere in essi il rapporto pieno di autorevolezza con la figura di Cristo, che è il solo Maestro. Comunione e Liberazione non è altro che un tentativo di introdurre pedagogicamente la struttura oggettiva della autorità della Chiesa. Proprio per questo è tentativo contingente e si sottopone alla verifica critica di coloro che responsabilmente lo compiono.

Responsabilità nella chiesa

È vero che già da molti anni le voci dei pastori delle Chiese dell’Est, di Wyszynski e di Wojtyla erano ascoltate e meditate in Comunione e Liberazione!

Sì, da molti anni. Ed insieme a loro anche altre figure, meno note,ma egualmente di grandissima spiritualità e profondità religiosa, per esempio Zverina.

L’amore alla Chiesa, del resto, fin dal principio, è cattolico, cioè universale. Chi lo sente, avverte la necessità di comunicare a tutti la novità che ha reso piena la sua vita. Per questo la missione è stata fin dal principio una dimensione essenziale per il nostro moviento, anche quando poteva sembrare una dispersione di energie che potevano tornare utili nel nostro Paese. Tutto questo con l’unica presunzione di non fare altro che esprimere la dinamica normale della vita cristiana. Come ha detto Pigi Bernareggi, tra i primi dei nostri amici partiti per il Brasile: «La sequela rende facile, quasi ovvio, ciò che agli occhi del mondo è impossibile».

C’è qualcosa che lei vorrebbe dire agli aderenti a Comunione e Liberazione per aiutarli a far fronte alle nuove responsabilità che vengono al movimento dall’attuale momento di grazia della Chiesa?

Il problema è solo quello di centrare ancora più chiaramente ed intensamente, criticamente, cordialmente e generosamente tutto sulla parola del Papa. E per questo chi ha autorevolezza nel movimento deve essere esempio di sequela autentica alla parola del Magistero. La persona che Dio usa per educare alla sua Chiesa, dal punto di vista del contenuto della verità, in un certo senso è indifferente. Nel presente momento della Chiesa, tuttavia, il tipo umano di questo Papa è esso stesso un fatto altamente significativo dal punto di vista pedagogico.

Le persone responsabili del nostro movimento han­no il dovere acuto di immedesimarsi con il tipo umano da cui oggi è guidata la Chiesa, di immedesimarsi con la certezza umana carica di fede che il Papa vive con l’urgenza di far diventare Cristo la chiave di volta di tutto lo sguardo rivolto all’uomo e al mondo.

Questo Papa ci insegna una apertura assoluta all’umano nella sua concretezza originale, il che è del tutto diverso da una apertura alle interpretazioni dell’umano che via via vanno per la maggiore, la quale finisce in un atteggiamento servile verso gli intellettuali di turno. Se si perde quel punto di riferimento originale si finisce con il tradire l’uomo per andar dietro ai propri orgogliosi pensieri, «sognando» come dice Eliot «sistemi così perfetti da rendere inutile all’uomo essere buono».

E che cosa vorrebbe dire, lei che ha sempre detto di voler costruire un dialogo fraterno e un lavoro comune fra tutti i cattolici, a tutti quei settori del mondo cattolico che fino a ieri hanno avversato CI e che, forse anche per effetto della nuova temperie umana che ha segnato l’inizio di questo pontificato, cominciano a ricredersi?

Abbiamo sempre voluto costruire l’unità fra i cristiani non per una ragione politica o di potere, ma perché ciò che rende gloria a Dio nel mondo è proprio tale impossibile unità. Questo è il miracolo: signum elevatum in nationibus, come dice la teologia. Scompariremmo volentieri per creare questa unità.

E il pluralismo?

L’unità vera si crea andando al fondo della propria posizione umana fino ad incontrare ciò che è più profondo: cioè ciò che unisce. È a questa profondità che unità e pluralismo si incontrano. L’unità fra te e me nasce perché ciascuno di noi va al fondo della propria esperienza umana e vi incontra il volto di Gesù Cristo. Per questo, mentre chiedo a tutti di impegnarsi per l’unità, chiedo contemporaneamente a ciascuno di andare al fondo della propria esperienza di verità e di amare veramente ciascuno l’esperienza degli altri.

È solo questo che rende capaci di una vera correzione. Quella vera correzione, mi si consenta, che a noi è stata sempre lasciata mancare (tranne eccezioni rarissime): critiche tante, ma quasi mai nessuno che ci abbia ripresi, spinto dall’evidente desiderio di aiutarci ad andare al fondo della esperienza di verità che tentavamo di vivere. Chi ama l’ideale, nulla desidera più che di essere aiutato dalla correzione. Ma uno è aiutato dalla correzione quando si sente amato nel proprio cammino all’ideale.

Vorrei che commentasse un’espressione che ho sentito ripetere da lei anche recentemente: il compito dell’autorità non è far crescere l’organizzazione, ma far avvenire la verità di ciascuno.

Il compito dell’autorità come tale è di valorizzare la fede, la speranza e la carità che vivono in un individuo o in un gruppo. L’organizzazione della comunità deve esistere, ma solo per favorire questo, altrimenti trasforma in un progetto di saggezza umana che elimina l’azione dello Spirito e tende di fatto a produrre uniformità, anche dove a parole si esalta il pluralismo. E l’uniformità culturale e mentale è la tomba di ogni genialità, cioè del carisma. L’autorità è come un padre che abbia tanti figli: non può non esprimersi nella valorizzazione di ciascuno; ed è nell’affermazione della fisionomia dei singoli figli che l’unità della famiglia diventa sicura.

Quando mi sono sposato lei mi ha detto di pregare la Madonna. È una cosa che sto meditando da allora.

Il genio del cristianesimo è nella fedeltà con cui si percepisce la figura della Madonna; è lì che il metodo che Dio ha usato nel salvare il mondo si illumina. La più grande categoria del metodo usato da Dio nella storia nei confronti dell’uomo è la scelta gratuita, l’elezione. Dal punto di vista umano, mai come in Maria questa gratuità si manifesta nella sua assoluta sovranità. È il segno della assoluta libertà di Dio il fatto che noi siamo stati scelti. In secondo luogo Maria è la madre del mondo nuovo e perciò il mondo nuovo è fatto del suo tipo morale e spirituale e fisico, è fatto di Lei.

Al miracolo della liberazione dell’uomo e del senso del cosmo e della storia si accede attraverso il fiat di Maria. Il disegno di Dio ha voluto restare sospeso a questo sì, pronunciato dalla Sua libertà. Maria infine è il paradigma totale della vita cristiana. Cristo è tutto, ma nasce da Lei nel mondo. Così è per noi: tutto è dato dalla potenza del Verbo fatto uomo, ma è attraverso la nostra fisicità che Cristo si manifesta nel mondo. La disponibilità totale a questa manifestazione dipende da una parola sola: memoria. Vivere la memoria dell’incontro con Lui per vivere la disponibilità a riconoscerLo di nuovo in tutti i giorni della vita. E chi più di Maria viveva nel ricordo di quella presenza?

Il Papa, quando ha ricevuto CI, ha accolto lei come un vecchio amico. Fra l’altro ha detto: «La vostra proposta ha raccolto consensi, pur tra contrasti ed opposizioni, e so che anche avete sofferto. Allora, tra contrasti ed opposizioni, voi avete visto convergere su di voi ed a voi affiancarsi altri giovani, ai quali il vostro esempio ha dischiuso nuovi orizzonti di donazione, di autorealizzazione, di gioia… È importante che continuiate ad annunciare con umile coraggio la parola salvatrice di Cristo…». Poi ha messo da parte il discorso scritto che era stato preparato ed ha parlato a braccio, ricordando i numerosi incontri che ormai da molti anni hanno scandito le tappe di un’amicizia. Ci vuole raccontare come questa amicizia è nata?

Veramente più che un amico personale mio il Papa è sempre stato, dai tempi in cui era arcivescovo di Cracovia, un amico di molti fra noi. Io l’ho incontrato una volta sola, a Kroscienko, ma innumerevoli sono stati gli incontri con i nostri ragazzi pellegrini in terra di Polonia.

Direi che anche questo incontro, come quasi tutti i fatti decisivi della vita di CI, è stato puramente casuale. Come CI si è propagata da Milano in tutta Italia solo perché i nostri in vacanza incontravano dei coetanei di altre regioni e comunicavano loro il gusto per l’esperienza che stavano vivendo, così è successo che alcuni di noi in Polonia hanno incontrato delle altre persone che stavano vivendo la stessa realtà, declinata secondo la stessa intenzione profonda, che noi stavamo sperimentando qui in Italia. Si trattava del movimento del padre Blachnicki che allora si chiamava «Oasi» e adesso ha preso il nome di «Luce e Vita».

È stata una occasione che ha dato felice e sorprendente risposta ad un bisogno inconsapevole, all’urgenza ed alla passione per il riconoscimento reciproco nella stessa fede, perciò nello stesso valore circa il proprio essere, la vita e tutto.

Del resto anche il costituirsi della piccola o grande comunità fra di noi rispondeva a questa stessa urgenza. Questa disponibilità attiva, questa benefica irrequietezza dei nostri occhi e del nostro cuore tesi a sco­prire chi come noi credesse e volesse Cristo come vita dell’uomo, non ci poteva lasciar scappare l’occasione quando si dava.

Allo stesso modo, del resto, oltre che la realtà polacca abbiamo incontrato quella dell’America Latina ed in Brasile anzi, addirittura, si è sviluppata una intensa presenza missionaria del nostro movimento.