L’Europa post-comunista paga l’impossibile spartizione voluta nel primo e secondo dopoguerra
Nazionalismo e pulizia etnica: tutto cominciò nel 1920
di François Fejitö
Questo trattato ha segnato la distruzione della monarchia degli Asburgo con lo smembramento dell’Ungheria, condannata a perdere due terzi del suo territorio storico. Ha permesso all’Intesa vittoriosa di patrocinare la creazione, sulle rovine dell’Austria-Ungheria, giudicata anacronistica a causa della multietnicità, di due nuovi Stati: Cecoslovacchia e Jugoslavia. Ha beneficiato con le spoglie della distrutta monarchia, conformemente ai trattati segreti conclusi nel 1915 e nel 1916 con l‘Italia e la Romania, questi due Paesi e resuscitato lo Stato polacco su basi che si riveleranno pericolose per il futuro, poiché hanno posto la nuova Polonia in posizione conflittuale non solo con la Germania e l’Unione Sovietica, ma anche con la Cecoslovacchia.
I principali rimproveri che si possono muovere al complesso dei trattati firmati nella regione di Parigi sono, oltre alle condizioni umilianti imposte alla Germania vinta, quello di avere voluto sostituire ai dissolti imperi austroungarico e turco un reticolo di Stati nazionali, posti su un territorio ove ogni nazione aveva – e ha tutt’ora – un contenzioso con il vicino e dove le frontiere etniche non coincidono con quelle storiche.
E’ banale constatare come la rinascente potenza tedesca poté approfittare dello squilibrio in tal modo creato. Se si pensa anche all’insoddisfazione italiana e alle tendenze revisionistiche provocate in Ungheria e Bulgaria, è chiaro che gli accordi di pace che vennero meno avevano in germe la seconda guerra mondiale. Gli Alleati vincitori della seconda guerra mondiale apporteranno alcune condizioni, in particolare per ciò che concerne la Polonia, costretta a rinunciare ai territori a maggioranza ucraina per essere ricompensata con la Slesia tedesca. D’altro canto essi hanno assicurato all’Austria, nuovamente separata dalla Germania, una certa vitalità.
Quanto alla restaurazione della Cecoslovacchia e della Jugoslavia, sarà il corso della storia a farsi carico, dopo il crollo del comunismo, del loro smembramento pacifico nel primo caso, orribile, tragico e sanguinoso nell’altro. L’Occidente non ha potuto vedersi garantire un periodo di calma e di prosperità abbastanza lungo se non al prezzo di aver gettato l’Europa centrale – compreso un terzo della Germania – nella sfera dell’influenza sovietica.
Dopo il crollo del sistema comunista e dell’egemonia russa ci si trova in una situazione che per molti aspetti ricorda quella del 1918. C’è la guerra in Jugoslavia e litigi meno violenti ma destabilizzanti, congelati dall’influenza sovietica, tornano alla ribalta tra l’Ungheria da un lato, la Slovacchia, la Romania e la Serbia dall’altro; più lontano, nei Balcani, tra la Grecia da un lato, la Macedonia e l’Albania dall’altro, per non parlare delle tensioni tra greci e turchi e nell’ex Urss.
I vincitori della prima guerra mondiale, Clemenceau, Wilson, Lloyd Gorge, Sonnino, che rifecero la carta dell’Europa, non videro il pericolo rappresentato dalla loro determinazione di fondare Stati-nazione sul modello occidentale là dove nessuno Stato nazionalmente omogeneo era possibile, là dove ogni nazione che aveva presso le proprie frontiere o all’interno dello Stato vicino comunità parlanti la propria lingua, ne rivendicava la riunione.
Gli Stati che avevano popolazioni parlanti lingua o religione diverse da quella della maggioranza si pronunciavano per uno Stato nazionale monolinguistico e monoreligioso. Si trattava tuttavia di tendenze già tradizionali e apparentemente irreversibili. Precedentemente alla prima guerra mondiale e dall’inizio del XIX secolo gli ungheresi, padroni dell’Ungheria storica, tendevano a magiarizzare i romeni, gli slovacchi, i serbi, i tedeschi che vivevano nei confini del regno.
Dopo il 1918 i romeni si misero a romanizzare la Transilvania, i serbi a serbizzare la Voivodina e via di seguito. Imperialismi linguistici e confessionali nuovi succedettero agli imperi. E la tendenza persiste. La nuova costituzione romena proclama che la Romania è lo Stato della nazione romena. Ora, in Romania ci sono ungheresi, tedeschi, serbi, ecc.: qual è la loro possibilità di vivere liberamente la loro vita nazionale, secondo le loro tradizioni linguistiche, culturali come cittadini a pieno diritto?
Gli imperi defunti erano meno votati all’omogeneizzazione delle loro componenti. La prova è che le etnie erano sopravvissute alla centralizzazione fino al momento in cui – risvegliate le idee di sovranità popolare e di autodeterminazione nazionale – ogni etnia, ogni nazione cominciò a reclamare il diritto di avere l’autonomia, il suo Stato. Il processo è cominciato con l’unificazione italiana e tedesca, con la resurrezione della Grecia e la formazione dei diversi Stati balcanici nel XIX secolo.
Esso ha fatto esplodere – con gli interessi delle grandi potenze che vi si mescolavano – gli imperi austroungarico e turco; ha proseguito la sua opera sotto i nostri occhi e ciò non soltanto nell’Europa Centrale e Orientale, ma anche nel Vicino Oriente, dove le frontiere di nuovi Stati erano state tracciate nello stesso tempo e con procedimenti analoghi.
Le false integrazioni, i falsi federalismi, come quelli dell’Urss e della Jugoslavia, si disgregano e il loro smembramento origina mischie confuse di nazionalismi aggressivi e tentativi di restaurare antiche egemonie o porne di nuove. Tra le due guerre mondiali la politica estera dei popoli dell’Europa Centrale e Orientale era guidata non da principi o interessi nazionali legittimi ma unicamente dalla preoccupazione di soddisfare le loro rivendicazioni territoriali.
Fu per appoggiare le sue rivendicazioni che nel 1938 la Polonia sostenne la causa della Germania, prima di essere a sua volta aggredita. E non è per ragioni analoghe che nel 1940 l’Italia entrò in guerra, che nel 1941 la Romania, quindi l’Ungheria e la Bulgaria, si lasciarono trascinare in guerra da Hitler? Nessuna nazione dell’Europa Centrale e Orientale ebbe la saggezza di elevarsi al di sopra dei suoi appetiti territoriali.
E il male sopravvive. Gli Stati che hanno entro le proprie frontiere delle minoranze le temono, interpretano le loro rivendicazioni di identità come tendenze separatiste. Da ciò l’idea disastrosa, disumana dell’epurazione etnica. Non è una novità. L’inizio degli Stati balcanici nel XIX secolo fu segnato dai massacri dei turchi, dalla distruzione delle moschee.
Più recentemente, all’indomani della seconda guerra mondiale, i cechi, incoraggiati da Stalin, ottennero dalle grandi potenze l’autorizzazione ad espellere brutalmente i tedeschi dai Sudeti, accusati collettivamente di nazismo, gli slovacchi cacciarono parte della loro popolazione ungherese, gli ungheresi i loro tedeschi, i bulgari i loro turchi, gli jugoslavi gli italiani. Milosevic, rilanciando l’idea della «Grande Serbia» del XIX secolo per conservare lo spazio vitale necessario al complesso militare industriale di Belgrado ereditato da Tito, si è messo in questa scia.
Provoca un Occidente assopito, attaccato allo status quo, reclamando la sostituzione delle frontiere storiche con frontiere etniche, lo stato della federazione internazionalista-leninista con uno Stato comprendente unicamente individui dalle stesse tradizioni religiose, dalla stessa intolleranza, dallo appetito di dominio.
Tutto in nome del principio all’autodeterminazione dei popoli cui si appellavano essenzialmente le grandi potenze vincitrici della prima guerra mondiale e a cui d’altronde l’Occidente continua ad appellarsi da allora. La differenza è che Wilson e i suoi compagni avevano creduto all’esistenza o almeno alla possibilità di una nazione jugoslava, di una nazione cecoslovacca. La storia ha dimostrato che queste nazioni erano finzioni che celavano realtà complesse, contraddittorie. Come era finzione anche la nazione sovietica.
Nella situazione imprevista (anche se prevedibile) per cui l’Occidente ha problemi che si era tentato di risolvere settantacinque anni fa senza riuscirci, con quali mezzi, sulla base di quali principi si possono risolvere? Per superare gli attuali conflitti o quelli futuri sarà necessario tornare al principio di equilibrio di un tempo, basato sui rapporti di forza e affidare il verdetto alle armi sul terreno?
Questione difficile, che spiega l’imbarazzo dei nostri diplomatici a fissare obiettivi di pace di fronte ai drammi dell’ex Jugoslavia e dell’ex Unione Sovietica. Occorrerà forse, seguendo il consiglio del grande politologo Ungherese Istvan Bibo, ritrovare la saggezza dimenticata di Guglielmo Ferrero: «Per realizzare un’opera di pace durevole dobbiamo attenerci ai principi».
Non si può concepire nessun nuovo ordine europeo e mondiale, non si saprebbe costruire una stabilità internazionale qualsiasi senza basarsi sul principio del diritto dei popoli sull’autodeterminazione. Se i trattati del 1919-1920 condussero a un fiasco, fu perché le potenze responsabili applicarono male tale principio. L’esperienza ha dimostrato che, se si vogliono tracciare frontiere legittime, dal punto di vista democratico, occorre far ricorso al principio linguistico, etnico ma non farne un assoluto, tenendo conto dei sentimenti storici che si applicano ai territori interessati, del fattore umano, dell’esigenza del rispetto dei diritti legittimi collettivi rivendicati dalle minoranze.
Ci sono incoraggianti esempi: in Finlandia con la minoranza svedese, in Italia con la minoranza germanofona. «Si deve ricorrere a scambi di popolazioni solo come estremo rimedio, quando ogni altra soluzione è impossibile», scriveva Bibo nel 1918. la democrazia non può ammettere Stati nei quali le istituzioni democratiche servono da copertura alla dittatura della maggioranza. La democrazia non ammette espulsioni, deportazioni; essa non può lasciare impunite le aggressioni.
Se per stabilizzare la situazione, e guidato da uno spirito di pacificazione ad ogni costo, l’Occidente pervenisse a una regolamentazione riconoscendo un fatto compiuto con la violenza, ad accettare – sia pure provvisoriamente – l’applicazione del principio degli Stati etnicamente e religiosamente purificati, creerebbe un precedente pericoloso, con conseguenze più disastrose della pace del 1919-1920.
La riflessione sugli effetti degli errori commessi dalle potenze all’indomani della Prima guerra mondiale sembra tanto più attuale quanto più l’Onu si rivela impotente a prevenire e regolare i conflitti nazionali quanto il suo disgraziato predecessore: la Società delle Nazioni.