La Nuova Bussola quotidiana14 Giugno 2024
Oggi l’Isis vanta diverse “province” in Africa, tra cui il Niger. I jihadisti impongono ai cristiani di convertirsi o vivere come dhimmi. Le persecuzioni sono all’ordine del giorno. E in Pakistan le cose non vanno meglio, tra cristiani uccisi e bambine rapite, convertite all’islam e sposate a forza.
di Anna Bono
Il 29 giugno 2014 Abu Bakr al-Baghdadi, leader dell’Isis, lo Stato Islamico, proclamava Califfato i territori conquistati dai suoi jihadisti in Iraq e in Siria. La loro avanzata nelle settimane successive indusse decine di migliaia di cristiani a cercare scampo nella fuga. Nella notte tra il 6 e il 7 agosto in Iraq quasi 150 mila cristiani lasciarono Mosul, divenuta la capitale del Califfato, e la Piana di Ninive. Quasi tutti portavano con sé pochi effetti personali e anche quel poco fu loro tolto dai jihadisti. Se fossero rimasti avrebbero dovuto convertirsi all’islam oppure vivere come dhimmi, ossia avendo salva la vita e il permesso di restare cristiani, ma in cambio del pagamento di una specie di tassa, in uno status inferiore, discriminati, sottomessi alle leggi islamiche, costantemente sotto minaccia di morte e schiavitù in caso di trasgressione degli obblighi di comportamento loro imposti.
Nel 2017 l’Isis è stato sconfitto in Medio Oriente, ma nel frattempo aveva messo radici in Africa, contendendo territori e affiliati ad al-Qaeda. Attualmente vanta diverse “province”: tra le più consolidate e temute, quella dell’Africa centrale (Iscap), attiva soprattutto in Mali, Burkina Faso e Niger, quella dell’Africa Occidentale (Iswap), in Nigeria e nella regione del lago Ciad, e quella del Grande Sahara (Isgs), in Uganda, Repubblica democratica del Congo e Mozambico.
Nei territori sotto il suo controllo, l’Isis africano impone le sue regole. Altri cristiani sono costretti ad accettare lo status di dhimmi o fuggire. Succede ad esempio in Niger. Non lontano dalla capitale Niamey, nella cosiddetta area dei “Tre Confini”, la regione di Liptako Gourma che unisce Mali, Burkina Faso e Niger, il governo, anche adesso che una giunta militare ha preso il potere promettendo sicurezza e ordine, lascia che agiscano praticamente incontrastati trafficanti, bande armate e soprattutto gruppi jihadisti.
I residenti della regione sono per lo più agricoltori poveri. I jihadisti razziano i loro raccolti e il loro bestiame, fortunati se ne risparmiano la vita. Infieriscono in particolare contro la minoranza cristiana (oltre il 90% della popolazione è musulmana). Quando arrivano in un villaggio, lo circondano sparando e riuniscono gli abitanti in uno spiazzo. Poi identificano i cristiani e offrono loro la scelta tra due opzioni: o pagare una tassa annua di 50.000 franchi Cfa (76 euro) per ogni maschio adulto, a partire dall’età di 15 anni, oppure convertirsi all’islam. Quelli che rifiutano entrambe le opzioni devono lasciare il villaggio e tutti i loro averi, casa, terra, bestiame.
Di solito i jihadisti concedono una settimana per dare una risposta. Se rifiutano di convertirsi all’islam, in realtà non hanno altra scelta che andarsene. Infatti 50.000 Cfa sono una cifra enorme in un Paese che è uno dei più poveri al mondo, dove lo stipendio medio mensile oscilla tra i 55.000 e i 75.000 Cfa. Inoltre, si sa che, se si paga l’imposta richiesta, l’anno successivo questa verrà raddoppiata.
In Niger è l’islam del jihad, della “guerra santa”, a rendere insicura e dolorosa la vita dei cristiani. Ma nel dar al-Islam, così i musulmani chiamano le terre conquistate all’islam, secoli di persecuzioni, discriminazioni, ostilità hanno abituato tanti musulmani a considerare i cristiani inferiori, privi di diritti, cittadini di seconda categoria.
Nelle scorse settimane in Pakistan sono stati uccisi due cristiani. Shahid Masih lavorava in una fattoria a Ghang Sheikhupura, un villaggio della provincia del Punjab. Il suo padrone si era convinto che fosse responsabile del furto di alcune capre. L’8 maggio lui e alcuni suoi amici lo hanno sequestrato, legato, preso a bastonate e infine costretto a bere dell’acido. È morto per le lesioni agli organi interni provocate dall’acido.
Il 25 maggio Nazir Masih, 72 anni, è stato aggredito a Sargodha, sempre nel Punjab, da centinaia di persone furiose, accorse alla notizia, risultata poi infondata, che aveva strappato e buttato per strada alcune pagine di una copia del Corano. È stato picchiato selvaggiamente ed è deceduto il 3 giugno. In preda allo spavento e temendo ulteriori violenze, molti cristiani del quartiere sono scappati.
Saad Hussain Rizvi, leader del partito islamista Tehreek-e-Labbaik Pakistan, in un discorso diffuso sulle reti social ha commentato sprezzante che non ci si deve curare della morte di un “choorha”, termine offensivo con cui vengono chiamati i cristiani in Pakistan. A proposito dell’uccisione di Nazir Masih, Rizvi sostiene che i responsabili sono innocenti perché hanno agito per amore della loro fede. Il suo partito ha organizzato una manifestazione per ottenere il rilascio degli autori del linciaggio.
«Stanno pronunciando apertamente discorsi di odio contro le minoranze religiose, istigando la gente alla violenza» spiega Samson Salamat, presidente del movimento civile interreligioso Rwadari Tehreek, in un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa AsiaNews. Il fatto grave è che l’apparato statale non interviene, resta in silenzio.
Non interviene nemmeno nei frequenti casi di ragazzine cristiane rapite, costrette a convertirsi all’islam e a sposare chi le ha sequestrate. L’ultimo caso noto ha per protagonista Laiba Masih, una bambina di Faisalabad che ha solo 10 anni. Era stata rapita a febbraio.
Per legge una minorenne non si può sposare e non può neanche cambiare fede senza il consenso del padre. Ma nel certificato di matrimonio è stato scritto che ha 17 anni. I genitori hanno dimostrato l’età effettiva di Laiba, ma nessuno, né polizia né giudici, ha accettato di liberare la piccola.
Come tante altre prima di lei, probabilmente non tornerà mai a casa. Che importa la vita di una bambina che oltre tutto è una infedele…
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