Il caso Gouguenheim, lo studioso per il quale fu piuttosto ridotto il ruolo della mediazione araba nella trasmissione dell’eredità classica all’Occidente medievale, va affrontato con serenità. Il contributo islamico è stato reale, ma non così esclusivo.
di Rèmi Brague
Il libro ha suscitato uno scandalo inaudito. Perché? Innanzitutto vorrei fare alcune osservazioni sui fenomeni che, secondo me, hanno reso possibile tale polemica. Tutto è nato da una recensione apparsa il 4 aprile 2008 su «Le Monde». L’autore, Roger-Pol Droit, giornalista che di solito segue la filosofia, presenta il libro come un’opera rivoluzionaria: prima si credeva che l’Europa dovesse tutto al mondo arabo, ora sappiamo che non gli deve nulla. Il linguaggio mediatico appiattisce le sfumature e traduce in una logica binaria (tutto/nulla, bene/male ecc.). Hegel diceva che la filosofia dipinge grigio su grigio. Lo stesso vale per i piccoli avori che levigano gli storici. I media, al contrario, schizzano i loro affreschi in bianco e nero.
In seguito comparvero manifesti che evocavano l’articolo, senza citarne l’autore, e attaccavano il libro di Sylvain Gouguenheim. Tra i firmatari figuravano storici di primo piano su quest’argomento. Altri erano medievisti, ma si erano occupati d’altro. Alcune critiche erano assolutamente cortesi. Si segnalavano errori di fatto, interpretazioni tendenziose, una bibliografia incompleta e datata. Argomenti tutti ricevibili in una discussione scientifica educata. Purtroppo si sono lette e sentite anche tesi poco comprensibili. Si sono citati alla rinfusa l’immigrazione, i discorsi del Papa, si è gridato al “razzismo” e all’ ” islamofobia”.
Le persone competenti hanno ragione nel dire che «tutti già sapevano» quello che Gouguenheim ha scritto. Se si pensa invece al non specialista che cerca d’informarsi sulla stampa o sui media, siamo costretti a constatare che la leggenda che domina attualmente, la tesi più mediatizzata, è proprio quella contro cui si scaglia Sylvain Gouguenheim, il quale non intende far altro che dare al più vasto pubblico possibile elementi d’informazione e confronto emersi dai lavori, spesso poco mediatizzati, degli specialisti. Si può obiettare che su tale tema non sia lui il miglior specialista. Ma perché gli specialisti gli hanno lasciato lo sgradevole compito di raddrizzare il tiro? E perché abbandonano il terreno a ignoranti, mentori e/o propagandisti?
Una “leggenda” molto alla moda
II fatto che tale leggenda esista costituisce un altro problema. Possiamo descriverla a grandi linee, così come la si incontra su ampi settori dei media. L’idea generale è che, nel Medioevo, quella che oggi si chiama Europa, o se preferiamo la cristianità latina, fosse immersa in una profonda oscurità. La Chiesa cattolica vi faceva regnare il terrore. Al contrario, il mondo islamico era teatro di grande tolleranza. Lì musulmani, ebrei e cristiani vivevano in armonia. Tutti coltivavano la scienza e la filosofia. Nel XII secolo i lumi del sapere greco tradotto in arabo passarono dall’islam in Europa. Vi rientrava così la razionalità, che avrebbe reso possibile, o forse determinato, il Rinascimento e poi l’Illuminismo.
Chiaramente nessuno che abbia studiato i fatti da vicino sostiene una visione così caricaturale. È altrettanto chiaro che quanti la rifiutano lo fanno sia per buoni motivi, legati a un sapere più esatto, sia per motivi meno confessabili, come il pregiudizio secondo il quale gli arabi non sarebbero stati capaci di scienza né di filosofia… Io sono pagato (nel senso letterale del termine) per sapere che ciò è una falsità assoluta.In ogni caso si è concluso un po’ in fretta che Sylvain Gouguenheim se la prendeva con i mulini a vento, che “nessuno” aderiva alla leggenda rosea che ho riferito. Ancora una volta, se s’intende “nessuno degli specialisti”, il caso è chiuso. Se invece s’intende “nessuno tra chi fa opinione”, ci si sbaglia di grosso
Un esempio: Silvestro II
Prendiamo ad esempio il discorso pronunciato dal re del Marocco in occasione dell’apertura del Festival di musica sacra di Fez. Vi si spiega che Gerberto d’Aurillac, futuro papa Silvestro II (morto nel 1003), doveva quel sapere matematico che suscitava l’ammirazione dei suoi contemporanei agli studi compiuti all’università di Fez. Si suppone dunque che: 1) la Qarawiyin (fondata nell’859) fosse un’università nel senso europeo del termine e non semplicemente una moschea “generale” (jàmi’a}, termine venuto a designare un’università nel mondo arabo contemporaneo; 2) vi si insegnassero non solo l’esegesi coranica, le tradizioni sul Profeta e il diritto islamico (fiqh), ma anche le scienze profane, tra cui la matematica – e non solo per quel che serve a calcolare la direzione della Mecca; 3) un cristiano venuto dall’Europa fosse il benvenuto a Fez dove poteva soggiornare in completa sicurezza; 4) Gerberto avesse imparato l’arabo abbastanza da poter seguire un insegnamento superiore in quella lingua.
Naturalmente davanti a tali fandonie le persone competenti reagiscono con un signorile sorriso di superiorità. E mi chiederanno se fosse proprio necessario inchiodare così il povero scribacchino che ha sfornato il discorso.
Ma sono forse loro a leggere i dépliant delle agenzie turistiche? E’ a loro che le guide sciorinano sul posto assurdità del genere? Sono loro a guardare la televisione? Dobbiamo lasciare in balìa dei falsi le brave persone desiderose di apprendere? Che fare, poi, quando uomini politici, leader al più alto livello, su entrambe le rive del Mediterraneo, bevono tutto quello che arriva da chi li consiglia o redige i loro discorsi?
Baghdad, davvero casa della saggezza?
A questo punto la sua diffusione mi obbliga a citare un secondo esempio. E quello della «casa della saggezza» (bayt al-hikma) di Baghdad. La leggenda ne fa una sorta di Cnrs, un centro di ricerca generosamente sovvenzionato dai califfi innamorati del sapere, dove si sarebbero pagati traduttori per volgere in arabo i tesori della scienza e della filosofia greche. La leggenda si alimenta unicamente dì se stessa; nulla di tutto ciò resiste all’esame critico.
La casa della saggezza ospitava, in effetti, una biblioteca. Ma l’attività di tutti i traduttori a noi noti era finanziata da clienti privati, e mai dall’apparato statale. Alla fine, più si risale indietro nel tempo, meno t cronisti mettono in rapporto l’attività di traduzione con quella famosa casa.
Sembra che tale istituzione non avesse nulla a che fare con le traduzioni, né in generale con il sapere profano d’origine greca. Sembra che fosse innanzitutto per uso interno, per la precisione una sorta di fucina dì propaganda a favore della dottrina politica e religiosa sostenuta dai califfi dell’epoca, in particolare il mu’tazilismo, oggetto anch’esso di parecchie leggende.
Ricordiamo in due parole che i mu’taziliti erano sostenitori della libertà morale dell’uomo in quanto indispensabile per pensare la giustizia di Dio, che può ricompensare e punire solo persone responsabili delle proprie azioni. Non dimentichiamo però che, nella pratica, hanno scagliato il potere califfale contro gli avversari in una campagna che molti storici chiamano, a rischio di anacronismo, “inquisizione”.
Un terzo mito da sfatare, l’Andalusia
L’intera leggenda si inserisce nel quadro del sogno retrospettivo di una società multiculturale dove sarebbe regnata la tolleranza. In particolare, la Spagna sotto la dominazione musulmana (al-Andalus) sarebbe stata la prefigurazione del nostro sogno futuro di una società mista di popoli e di credi che vivono in buoni rapporti. Il livello culturale sarebbe stato straordinariamente elevato. Tale situazione sarebbe durata fino alla Riconquista cristiana, che avrebbe inaugurato il regno del fanatismo e dell’oscurantismo.
I luoghi dove effettivamente coesistevano etnie e religioni diverse sono scomparsi tutti. Alcuni, come Alessandria o la Bosnia, abbastanza di recente per far sì che il ricordo di quelle sconfitte, sanguinoso nel secondo caso, non si sia cancellato. Per non parlare dell’Iraq… La Spagna musulmana, invece, è abbastanza lontana nel tempo da poterne ancora idealizzare la memoria. Inoltre, fin dal XVI secolo, la Spagna è il luogo ideale delle leggende e dei luoghi comuni. Si è cominciato con la “leggenda nera” sulla conquista del Nuovo Mondo.
Diffusa dagli scrivani al soldo dei concorrenti commerciali di spagnoli e portoghesi, tra cui la Francia, consentiva loro di legittimare la pirateria di Stato (detta “guerra corsara”). Non vale la pena insistere sulle banalità “orientaliste” di Gautier e di Mérimée. Allora, perché non aggiungere a nacchere e mantiglie un al-Andalus rosa?
Detto per inciso, sarebbe molto istruttivo ricostruire le origini del mito andaluso, dall’americano Washington Irving passando per Nietzsche. Un arabista spagnolo, Serafìn Fanjul, si è prefisso di distruggere la leggenda e dimostrare che le regioni spagnole sotto dominazione musulmana non erano né più né meno piacevoli per le comunità minoritarie rispetto alle regioni cristiane.
Da entrambe le parti si osservano discriminazioni e persecuzioni, sullo sfondo di spedizioni di saccheggio e rapina. Più che una coesistenza (convivendo) armoniosa, era un sistema paragonabile all’ apartheid sudafricano. Anche qui, nulla di nuovo per gli storici che hanno una conoscenza diretta di quest’epoca. Ma chi li legge?
Un patrimonio addirittura censurato?
A tutte queste leggende viene a sovrapporsi quella che potremmo chiamare una “meta-leggenda”, una leggenda sulla leggenda. Quello stato di cose straordinariamente positivo sarebbe stato dimenticato. Di più: rimosso dalla memoria dell’Occidente attraverso un processo volontario, dovuto a qualche complotto oscurantista. In tal modo si chiude il cerchio paranoico: se non si trovano tracce del passato come lo si immagina, significa che sono state cancellate…
Ma è davvero così? Si è mai perso di vista il contributo arabo al patrimonio culturale europeo? Si parla di “eredità dimenticata”. Per quanto ne so, l’espressione è stata lanciata da un libro di Maria Rosa Menocal, docente di Letteratura comparata a Yale (The Arabic Role in Medieval Literary History: a Forgotten Heritage, 1987). L’opera verteva soprattutto sull’ambito iberico. Dimostrava che le letterature della penisola hanno preso in prestito generi e temi dagli autori di lingua araba. Verissimo. Poco dopo, l’espressione è stata resa popolare in Francia da un capitolo di Alain de Libera che s’intitolava così e che la trasponeva in ambito filosofia) (Penser au Moyen Àge, 1991, cap. IV).
Ebbene, mi chiedo se parlare di “oblio”, poi diventato una sorta di slogan, non sia una “trovata pubblicitaria”. Con il Rinascimento e l’Umanesimo si ebbe una reazione contro la Scolastica e i suoi presunti difetti: cattivo latino, sottigliezze, astrazioni, eccetera. Nel disprezzo per tutto ciò che non fosse “puro” platonismo o aristotelismo si inglobarono gli arabi. Ma quell’errore fu presto corretto dagli attenti studi condotti da generazioni di orientalisti succedutesi in tutta Europa a partire dal XVI secolo: Guillaume Postel, Barthélemy d’Herbelot, Ignace Goldziher e tanti altri.
Neppure gli eruditi non orientalisti hanno dimenticato il ruolo degli arabi. Altrove ho citato due testi del XVIII secolo che ne parlano. Ed ecco un brano di Auguste Comte, trovato a caso nelle mie letture: «Grazie a una lodevole trasmissione della scienza greca, la civiltà araba figurerà sempre tra gli elementi essenziali della nostra grande preparazione nel Medioevo».
Non ci si stanca di citare vergognose dichiarazioni sulla presunta inadeguatezza dei “semiti” al pensiero filosofico. A guardare meglio, esse in realtà sono praticamente circoscritte al XIX secolo. O addirittura al solo Ernest Renan, il quale ha applicato alla storia della cultura quel razzismo tranquillo, e ancora relativamente educato in confronto agli orrori del secolo successivo, che condivideva con molti suoi contemporanei: la filosofia sarebbe essenzialmente “ariana” e giammai “semita”; i filosofi dell’islam sarebbero stati tutti persiani ecc. Ma che peso hanno le ingenuità di Renan di fronte agli imponenti lavori degli orientalisti che ho citato?
Un primo bilancio del dibattito
Arrivo all’aspetto propositivo del mio discorso, tentando una rapida sintesi della questione. Cominciamo ricordando con più precisione la tesi di Sylvain Gouguenheim. Il contributo della civiltà islamica a quella europea è reale, nessuno si sogna di negarlo. Ma è meno esclusivo di quanto alcuni vorrebbero far credere. La trasmissione diretta a partire dall’Oriente bizantino è più importante di quanto si sia pensato finora. L’Europa latina non ha mai smesso di lanciare occhiate invidiose verso Costantinopoli.
Un rivolo di sapere greco, venuto dall’Irlanda o da Bisanzio, ha continuato a irrigare l’Europa. Nello stesso periodo in cui si traduceva Aristotele dall’arabo, soprattutto in Spagna, lo si traduceva direttamente dal greco. Addirittura, prima. In particolare Sylvain Gougernheim richiama l’attenzione su un personaggio noto, ma praticamente solo agli specialisti, Giacomo da Venezia, che tradusse Aristotele dal greco al latino mezzo secolo prima delle traduzioni dall’arabo effettuate a Salerno, a Toledo, in Sicilia e altrove.
L’islam: distinguere religione e civiltà
Bisogna distinguere tra l’islam religione e l’islam civiltà. Quest’ultima fu resa possibile dall’unificazione del Medio Oriente: dapprima unificazione politica sotto il potere dei califfi e, in seguito, unificazione linguistica a vantaggio dell’arabo. Tale civiltà fu costruita sia dal lavoro di cristiani, ebrei o sabei del Medio Oriente, e dagli zoroastriani o manichei dell’Iran, sia dai musulmani che inizialmente erano solo una casta militare conquistatrice.
I traduttori che hanno trasmesso l’eredità greca a Baghdad erano quasi tutti cristiani, spessissimo nestoriani. Quei pochi che non lo erano appartenevano alla piccola comunità “pagana” dei sabei, come il celebre astronomo Thabit ibn Qurra.
L’islam come religione non ha portato grandi cose all’Europa, e l’ha fatto solo tardi. Semplicemente perché fu conosciuto tardi. Mentre a Bisanzio il Corano era stato tradotto fin dal IX secolo, l’Europa ha conosciuto il testo fondatore solo molto tempo dopo. La prima traduzione latina fu realizzata a Toledo in pieno XII secolo per iniziativa dell’abate di Cluny Pietro il Venerabile. Ma quasi non circolò, prima di essere stampata nel tardo XVI secolo. Il primo esame del Corano un po’ serio e aperto è opera del cardinale Nicola di Cusa, nel XV secolo.
Fra le tradizioni su Maometto (haditb), solo il racconto fantastico del “viaggio notturno” del Profeta in cielo (Scala Machumeti) è giunto in Europa. L’apologetica (Kalàm) fu conosciuta soprattutto attraverso la refutazione della sua scuola dominante effettuata da Maimonide nel suo capolavoro filosofico ed esegetico La guida dei perplessi. Esso ha fornito alla fisica di Aristotele un’alternativa discontinuista (atomista), sfruttata da alcuni nominalisti e in epoca moderna da Malebranche e Berkeley.
Dall’islam come civiltà sono arrivati due tipi di beni culturali. Innanzitutto, quelli transitati attraverso l’islam. Come le cifre cosiddette “arabe” venute dall’India. O come quanto di Aristotele o di Avicenna fu tradotto a Toledo. Dall’islam è venuto anche il contributo originale attraverso il quale i suoi sapienti prolungavano e superavano l’eredità greca. Così è avvenuto nella matematica, comprese l’astronomia e l’ottica con la rivoluzione introdotta da Ibn al-Haytham (Alhacen). Così è avvenuto nella medicina con Razi (Rhazès) e Avicenna. E naturalmente nella filosofia, innanzitutto, ancora una volta, con Avicenna, forse il maggiore innovatore.
Il contributo dei sapienti che scrivono in arabo è del resto lontano dal limitarsi a quanto ha avuto la fortuna di arrivare in Occidente. I lavori di al-Biruni in geodesia, in mineralogia, per non parlare dell’eccezionale miracolo d’oggettività che è la sua descrizione dell’India, sono stati conosciuti solo nel XIX secolo. In filosofìa, al-Farabi fu tradotto pochissimo nel Medioevo, e non furono tradotte le sue opere più originali di filosofia politica.
Esiste una matematica (o medicina, alchimia) araba nel senso che opere relative a queste discipline sono state composte nella lingua di cultura di tutto l’Impero islamico, da persone per le quali l’arabo non sempre era la lingua materna, che molto raramente erano originarie della penisola arabica e che non erano neanche tutte musulmane.
D’altra parte, non esiste una matematica musulmana, come non esistono una medicina cristiana o una botanica ebraica. Esistono persone di diverse religioni che si sono occupate di diverse scienze. Anche per la filosofia, preferirei parlare di un uso cristiano, ebraico o musulmano piuttosto che di una filosofia cristiana, ebraica o musulmana
Che cosa è arrivato a noi tramite l’islam?
Bisogna distinguere anche la natura dello scambio: dell’eredità greca è passato attraverso l’arabo solo ciò che riguardava il sapere in matematica, medicina, farmacopea, eccetera. In filosofia sono passati dall’arabo solo Aristotele e i suoi commentatori, con alcuni apocrifi d’origine neoplatonica anch’essi attribuiti ad Aristotele. Tutto il resto ha dovuto aspettare il XV secolo per passare direttamente da Costantinopoli all’Europa, talvolta sotto la forma, reale ma spesso un po’ romanzata, di manoscritti importati dagli eruditi bizantini che ruggivano dalla conquista turca.
Tutto il resto è nientemeno che la letteratura greca: la poesia epica (Omero ed Esiodo), lirica (Pindaro), drammatica (Eschilo, Sofocle, Euripide), la storia (Erodoto, Tucidide, Polibio), il romanzo. In filosofia è il caso dei trattati di Epicuro citati da Diogene Laerzio. È il caso di Platone, Plotino e di Ermete Trismegisto, arrivati da Costantinopoli alla Firenze dei Medici, dove Marsilio Ficino tradusse in latino tutte le loro opere.
A maggior ragione, l’eredità teologica dei Padri greci non aveva motivo d’interessare i pensatori dell’islam. È entrata in Europa, peraltro molto parzialmente, direttamente dall’Oriente cristiano. Talvolta attraverso un trasferimento del tutto materiale, come quel manoscritto delle opere dello Pseudo-Dionigi l’Areopagita offerto nell’827 dal basileus Michele III all’imperatore d’Occidente Ludovico il Pio, poi tradotto da Ilduino e nuovamente da Giovanni Scoto Eriugena, il quale tradusse anche brani di Nemesio di Emesa e di Massimo il Confessore. Per il resto si dovette aspettare, a seconda dei casi, il XIII secolo o il Rinascimento, o addirittura Erasmo.
Non dimentichiamo infine che la cultura non si limita a quanto si legge e si scrive. Oltre ai testi ci sono le opere plastiche: architettura, scultura, pittura. L’islam, per scrupolo religioso, fino a tempi recenti ha sviluppato solo in casi eccezionali la scultura e la pittura. Pertanto le arti plastiche greche non hanno potuto esercitare sui suoi artisti lo stesso fascino che s’incontra in Occidente. Tutto ciò che riguarda le arti plastiche è passato dal mondo greco all’Occidente quasi sempre con l’intermediazione di copie romane, ma in ogni caso senza transitare dall’arabo.
A quali secoli occorre risalire?
Bisogna inoltre distinguere tra le varie epoche. Sylvain Gouguenheim ha scelto di concentrarsi sul periodo «in cui tutto sembra essere avvenuto, ossia la prima parte del Medioevo, tra il VI e il XII secolo». È lì che fornisce qualcosa di nuovo, se non agli specialisti almeno al grande pubblico. Ha scelto di fermare la sua ricerca all’inizio del XIII secolo, e lo spiega due volte.
Innanzitutto per ragioni di metodo: «A partire dal XIII secolo i fatti sono fin troppo accertati perché valga la pena riesaminarli». E anche perché l’evoluzione stessa degli eventi invita a questo tipo di cesura: «Nel XIII secolo l’Europa avvia una nuova tappa della sua storia». Entrambe le motivazioni sono fondate. Resta il fatto che una presentazione d’insieme avrebbe consentito di meglio equilibrare il discorso.
Il XIII secolo e l’inizio del XIV costituiscono, in ogni caso, l’apogeo dell’influenza esercitata sui pensatori europei da quelli arabi, soprattutto dai filosofi. Tutta una serie di lavori fanno pendere la bilancia verso una rivalutazione in positivo dell’apporto dei pensatori di lingua araba, musulmani o ebrei.
Così Kurt Flasch ha sintetizzato i risultati dei suoi colleghi per mostrare come Alberto Magno, Dietrich di Freiberg e persino Meister Eckhart abbiano nutrito il loro pensiero della discussione delle tesi di Avicenna, Maimonide e Averroè. Dovendo peraltro distinguere quest’ultimo dall”averroismo”, più o meno fittizio, costruito nel Medioevo dai teologi e ai giorni nostri dagli storici che troppo facilmente si fidano di loro.
Come sempre, ci si può chiedere se non si rischi di passare da un estremo all’altro e di vedere in Averroè, considerato troppo a lungo una “testa di turco” buono solo per essere schiacciato da san Tommaso, la fonte esclusiva del pensiero occidentale…
Dopo la generazione di Dante, di Duns Scoto e di Eckhart, l’influenza dei pensatori arabi negli ambienti di lingua latina segna il passo. Si protrae più a lungo presso gli ebrei, dove l’influenza di Averroè resta viva fino al XV secolo, stabilendo così una continuità con i pensatori di Padova.
Quanto allora è davvero arrivato?
Non perdiamo il senso delle proporzioni. Il rivolo di ellenismo passato in Europa fino al XII secolo, sul quale Sylvain Gouguenheim ha richiamato l’attenzione, esiste ma è poca cosa in confronto a quanto tradotto nel XIII secolo. A maggior ragione, non è paragonabile a ciò che era passato dal greco o dal siriaco all’arabo sotto l’impero abbaside del IX secolo.
Ma questi tre trasferimenti sono a loro volta una goccia d’acqua in confronto all’inondazione rovesciatasi sull’Europa a partire dal XV secolo. Essa ha riguardato tutto ciò che era disponibile in greco. È sfociata in una vera ellenomania durata parecchi secoli, dal Rinascimento italiano agli umanesimi e classicismi di tutta Europa, da Firenze a Weimar passando per Salamanca, Oxford e Cambridge, Leida, Parigi.
Tutta questa frenesia letteraria si fondava su un movimento filologico, anch’esso secolare, di edizioni, commenti e traduzioni. L’ellenismo in terra d’islam ha riguardato solo individui come i “filosofi” (fàlasifa), intellettualmente dei geni ma socialmente dilettanti privi di collegamenti istituzionali. Solamente in Europa ha assunto la forma di fenomeno, se non di massa, almeno di vasta portata, dal momento che riguardava l’elite intellettuale nel suo insieme.
E tuttavia forse il fenomeno principale non è nemmeno questo. Da parte mia, lo vedrei nel fatto che gli eruditi europei non si sono accontentati di tradurre dal greco. Si sono, per così dire, “tradotti” essi stessi. Solo in Europa si è imparato il greco in maniera sistematica. Solo in Europa, nella maniera più concreta al mondo, il greco è diventato materia obbligatoria nell’insegnamento secondario, grosso modo, a seconda dei Paesi, fino alla metà del XX secolo.
Note a proposito della ricettività
Bisogna smetterla con la metafora ingenua della trasmissione del sapere secondo il modello idraulico cui accennavo: un liquido che colerebbe spontaneamente da un livello superiore a uno inferiore, come l’acqua dei canali di scolo. Il Socrate di Fiatone già se la rideva di una simile raffigurazione dell’insegnamento. Per potersi appropriare del sapere, il ricettore deve prima diventare capace, essersi reso ricettivo.
A partire dall’XI secolo l’Europa ha effettuato un enorme lavoro su se stessa, a partire dalle proprie magre risorse: Cicerone, sant’Agostino, Boezio, Isidoro e qualche altro. Sulla scia della lotta per le investiture, e per rinforzare concettualmente gli argomenti del papato o quelli dell’impero, ha vissuto una rinascita giuridica il cui monumento principale, ma non l’unico, è il Decreto di Graziano. Ha conosciuto una rinascita letteraria (san Bernardo) e filosofica (sant’Anselmo, Pietro Abelardo). E tutto è stato fatto con i soli “mezzi di bordo”.
Inoltre, mentre biascicava le più minute briciole dell’eredità antica, l’Europa ruminava. Ritrovò dentro di sé ciò che aveva trascurato, come le compilazioni di diritto romano alle quali attinsero gli artigiani di quella rinascita giuridica.
È stato questo slancio intellettuale a permettere all’Europa di provare il bisogno del sapere greco, di andare a cercarlo dov’era e di riceverlo in maniera feconda. Inoltre, mentre cercava all’esterno ciò che le mancava del sapere greco, l’Europa ritornava su quel che già possedeva, ritraduceva quanto aveva già tradotto. È il caso delle opere di Dionigi l’Areopagita, fatte oggetto di una terza traduzione.
Dunque l’appello a un sapere fresco, latino, greco o arabo, non è solo una causa dello slancio intellettuale europeo: ne è altrettanto certamente una conseguenza. Lo dimostra la stessa ricezione di Averroè, letto e commentato nell’Occidente cristiano ed ebraico. Dopo la caduta degli Almohadi ai quali era stato legato, il suo ambiente d’origine lo dimenticò in fretta. Nelle notizie di cronaca capita di leggere che un rigattiere abbia trovato nei rifiuti una collana di perle preziose. È successa un po’ la stessa cosa con Averroè: l’Occidente ha raccolto quel gioiello dalle “pattumiere” dell’islam.
Quale debito verso il mondo arabo
L’Europa ha un debito nei confronti del mondo arabo? Il termine è improprio. Ho utilizzato anch’io l’immagine del “debito”, e ora mi rincresce di non essere stato più accorto. Il problema è che, in generale, le immagini che la lingua ci mette a disposizione sono tutte insidiose, e però bisogna pur parlare. Così parlare di “radici” significa regredire al vegetale e trascurare gli aspetti volontari della cultura che, almeno in parte, sceglie i propri punti di riferimento; parlare di “fonti” vuoi dire avvalorare il modello idraulico di scolo del quale ho appena riferito le incongruenze.
Dire “debito”, dire “debitore”, è un modo di parlare, e niente più. Prendere alla lettera ciò che suggerisce avrebbe due conseguenze funeste. La prima, psicologica, è che il termine “debito” induce una colpevolezza (si pensi al tedesco Schuld, che significa “debito” e “colpa”). Si lusinga la sensazione diffusa di dover espiare di cui soffre oggi l’Europa. Essa ha difficoltà a guardare in faccia il suo passato, spesso macchiato di innegabili crimini, o addirittura trova nell’evocarli una compiacenza morbosa.
La seconda conseguenza è forse più grave ancora. Un debito è, a rigore di termini, una realtà materiale, poniamo una somma di denaro. Si tratta di una cosa della quale il creditore ha volontariamente accettato di disfarsi, privandosene per beneficiarne il debitore, ma della quale si aspetta la restituzione. Parlare di debito vuoi dire suggerire che i beni cui si fa riferimento siano di natura materiale.
Qui si tratta, invece, di beni spirituali e non di oggetti. Alle cose dello spirito non è applicabile nulla di ciò che vale per un debito. Comunicarle ad altri non priva colui che da, il quale continua a possederle: l’insegnamento arricchisce l’allievo senza nulla sottrarre al maestro.
Ma anche là dove si tratti di beni materiali è davvero giusto parlare di debito? L’Europa ha preso da altre civiltà beni riguardo ai quali non si pone domande. Sono venuti dalla Cina la seta, il tè, la porcellana e la carta, quest’ultima attraverso il mondo islamico. Così come il granturco, il tabacco, il cioccolato sono arrivati dal Nuovo Mondo. Nessuno si sognerebbe di dire che abbiamo un debito nei confronti degli aztechi, e tanto meno che dobbiamo parlare con infinito rispetto dei sacrifici umani che praticavano per il solo fatto che mangiamo i pomodori.
Le cose sono un po’ più complicate quando si tratta di beni culturali. I loro supporti materiali – manoscritti, spartiti, eccetera – viaggiano come le valigie. Ma il loro contenuto arriva veramente in porto solo a prezzo di un lavoro di appropriazione: leggere, ricopiare, tradurre, commentare, recitare, imitare.
Di recente la Francia ha restituito alla Corea un prezioso manoscritto un tempo confiscato; gli inglesi potrebbero restituire i marmi del Partenone. Ma si può e si deve restituire la scrittura agli antichi egizi, l’impero ai persiani, la filosofia ai greci, il diritto ai romani? E la razionalità? A chi andrebbe restituita? La razionalità non è un sacco di patate che si possa trasportare, importare ed esportare, bensì un atteggiamento mentale da conquistare attraverso un lavoro su se stessi.
Una postilla sulla razionalità
Sulla razionalità ci sarebbe molto da dire. “Ragione” è un termine che ne include molti altri, quasi fosse un baule o un container… Non si cerchi nel Medioevo quella forma di razionalità potente, ma angusta, alla quale noi riduciamo spesso la ragione, ossia il metodo sperimentale delle scienze naturali matematiche. Essa ha fatto la sua comparsa solo con la rivoluzione galileiana all’inizio del XVII secolo. Il Medioevo ha conosciuto l’uso scientifico della matematica solo in ottica e in astronomia. E anche qui cercava solo modelli in grado di dare conto delle apparenze celesti («salvare i fenomeni») e non di descrivere la realtà delle cose.
Sarebbe sbagliato contrapporre il cristianesimo come religione razionale a un islam irrazionale. Al contrario, l’islam si considera una religione razionale e rimprovera persino al cristianesimo di voler fare credere l’incredibile. I dogmi dell’islam sono plausibili e non comportano misteri un po’ bizzarri come quelli cristiani (Trinità, Incarnazione, Eucaristia).
Inoltre il Corano contiene ingiunzioni a servirsi della ragione per arrendersi all’evidenza dell’esistenza del Creatore a partire dall’ammirazione delle meraviglie della creazione: tutti brani che i filosofi dell’islam hanno saputo valorizzare per legittimare la propria pratica. Infine, anche quei giuristi che, in linea di principio, si rifiutano di fare del ragionamento analogico un fondamento del diritto, nella pratica hanno poi sfoggiato tesori di sottigliezza per dedurre dai principi offerti dalla Rivelazione regole in grado di applicarsi alle circostanze concrete della vita quotidiana.
D’altra parte non è dalla ragione che dipende il fondamento dell’islam, ossia l’accettazione dell’autenticità della missione legislatrice di Maometto, e del Corano come dettato divino.
Dunque, in fatto di razionalità, si ha spesso l’impressione di giocare a fronti rovesciati. Ibn Khaldun, che in fatto di critica storica può essere considerato un “razionalista” di grande levatura, scrive pacatamente: «Quando il Legislatore ci guida verso una certa percezione, dobbiamo preferirla alle nostre e accordargli più fiducia che alle nostre. Non dobbiamo cercare di rettificarla tramite la percezione della ragione, anche se la contraddice. Al contrario, dobbiamo credere e sapere ciò che ci è stato ordinato [di credere e sapere], e tacere su quanto non comprendiamo, rimettendoci al Legislatore e lasciando da parte la ragione».
Si potrebbe arrischiare un paradosso: avendo l’islam un immediato contenuto razionale, non ha conosciuto la sfida del mistero cristiano. È stata questa a rendere necessaria la teologia, che porta avanti la sua esplorazione razionale con l’ausilio di strumenti presi in prestito dalla filosofia.
L’islam, dal canto suo, si è accontentato di un’apologetica indirizzata all’esterno. La ragione non ha potuto assumere per oggetto i fondamenti della religione, e dunque neanche quelli del diritto e della morale. Si è dovuta accontentare di dedurre le conseguenze di premesse già ammesse. Oppure si è limitata a scienze, come la matematica, che toccano la religione solo da lontano.
Il caso Gouguenheim ha avuto almeno il merito di attrarre l’attenzione di un vasto pubblico su una questione storica di grande interesse. Finora essa era rimasta confinata nelle monografie erudite, oppure lasciata ai ciarlatani mediatici che ne presentano caricature tendenziose. Il libro, ponendosi sul terreno della buona divulgazione, si proponeva di rettificare le seconde attingendo alle prime. Non è l’opera definitiva ed esaustiva che si potrebbe auspicare. Ma finché questo libro perfetto resterà nel mondo dei sogni, quello di Sylvain Gou-genheim ha il vantaggio di contestare certezze date troppo rapidamente per scontate.
(traduzione di Anna Maria Brogi)
Rémi Brague è docente di Filosofia all’Università Panthéon-Sorbonne di Parigi e all’Università Ludwig-Maxmillians di Monacvo. Autore di numerosi saggi di storia e filosofia, in Italia è noto soprattutto per aver pubblicato il volume Il futuro dell’Occidente. Nel modello romano la salvezza dell’Europa (1998). Questo articolo è apparso sulla rivista «Comme