News 22 Dicembre 2020
Madre per altri per comprarsi casa nuova, cade vittima della «superfetazione»
di Luca Marcolivio
Di «maternità surrogata» o, per dirla più propriamente, di «utero in affitto» si parla con disinvoltura sempre maggiore, complice anche l’esempio di tanti vip, da Nichi Vendola a Elton John, da Ricky Martin a Tiziano Ferro. Così, quasi senza accorgersene, si è già transitati a una nuova fase del “dibbattitto”: non più un argomento da superspecialisti o da tavole rotonde accademiche, ma un tema “da parrucchiere” o da format televisivo pomeridiano.
Un “dibbattitto” pop, cioè sempre meno scientifico, sempre più emotivo-sentimentale, e così la finestra di Overton è spalancata. Denominatore comune della narrazione attuale è la banalizzazione e, di conseguenza, la scarsa attenzione ai rischi. Ora, lo sfruttamento commerciale delle madri surrogate è sicuramente l’aspetto più macroscopico, ma non per questo passano in secondo piano risvolti come l’impatto psicologico sul neonato strappato alla madre (biologica o surrogata che sia) subito dopo il parto.
Rarità
Estremamente più rara, ma non per questo da sottovalutare, è l’eventualità della «superfetazione»: la fecondazione di un ovulo che ha luogo quando già un altro ovulo, maturato durante il ciclo mestruale precedente, è stato fecondato e ha cominciato a svilupparsi. Fenomeno abbastanza frequente nei pesci e in alcune specie di mammiferi (in particolar modo nei conigli e in altri roditori), tra gli esseri umani la superfetazione è assai più improbabile.
Nella letteratura scientifica sono noti appena una decina di casi accertati, rilevati negli ultimi sessant’anni. In tempi recenti, sono assurte all’onore delle cronache la vicenda di Kate Hill in Australia, nel 2006, o quella di Julia Grovenburg in Arkansas, nel 2009. È significativo, comunque, che tra questi dieci casi conclamati, almeno uno sia capitato nell’ambito di una fecondazione artificiale. È quanto avvenuto quattro anni fa alla californiana Jessica Allen, all’epoca trentenne e già madre di due bambini di uno e sei anni. Quello che la signora Allen ha attraversato è stata una vera e propria odissea, il cui epilogo è solo in parte un lieto fine.
Oltretutto Jessica non versava affatto in cattive condizioni economiche: al contrario, come si vedrà, la sua disavventura nasce da un capriccio “piccolo borghese”. La vicenda è stata raccontata di recente, fra l’altro, nella puntata del 7 dicembre di Linee d’ombra, trasmissione radiofonica condotta su Radio24 da Matteo Caccia, intitolata Legami di sangue; si può ascoltarla in podcast, a partire dal minuto 20:28.
Il business
Tutto inizia a fine 2015, allorché Jessica, che ha appena partorito il secondo figlio, Jairus, confida al marito, Wardell Jasper, il desiderio di una terza maternità: una maternità, però, molto particolare rispetto alle prime due. Le ragioni? «Volevo restare a casa con i miei figli piuttosto che tornare al mio lavoro di badante per anziani», ha detto la donna a The New York Post a fine 2017, e «così abbiamo deciso di investire denaro nell’acquisto di una casa».
Vivendo la coppia in California, l’operazione è stata facile da realizzare. Rivoltasi ad Omega Family Global, un’agenzia di San Diego specializzata in surrogazione della maternità, la Allen viene messa in contatto con i coniugi Liu, cinesi, e concorda di portare in grembo per loro un bambino frutto di fecondazione in vitro. Per l’operazione Jessica pattuisce un compenso di 30mila dollari. Nell’aprile 2016 Jessica è alla sesta settimana di gravidanza per conto terzi quando l’ecografia rivela una sorpresa: i bambini sono due.
Dapprima turbata, la Allen ha poi un moto di sollievo quando i Liu si dichiarano disposti a pagarle un supplemento di 5mila dollari per il gemello. Tutto procede fino al 12 dicembre, quando nascono, con parto cesareo, Mike e Max. La committente, la signora Liu, sembra più terrorizzata della partoriente, la quale la rassicura tenendola per mano: «Andrà tutto bene». Ma Jessica non riesce nemmeno a vedere i gemelli.
Contraddicendo quanto stipulato nel contratto, che prevedeva per lei almeno un’ora assieme ai bambini subito dopo il parto, glieli portano via subito. Per quasi un mese la Allen non riceve praticamente alcuna notizia dall’agenzia. Poi, il 10 gennaio 2017, la signora Liu le manda finalmente, tramite chat, una foto dei bambini, accompagnata da una domanda: «Non sono uguali, vero? Hai idea del perché siano diversi?».
Effettivamente Mike e Max non solo non si somigliano affatto, ma, mentre il primo ha tratti somatici orientali (quindi è inequivocabilmente figlio biologico dei Liu), Max mostra il colorito tipico dei mulatti. Ora, Jessica è bianca e suo marito Wardell è afro-americano. Una settimana dopo il test del DNA conferma ufficialmente: Mike è figlio della coppia cinese, Max di quella statunitense. Nel frattempo, i coniugi Liu, non volendo crescere un bambino non proprio, hanno affidato Max alle cure dell’agenzia Omega, pretendendo dalla Allen un risarcimento tra i 18mila e i 22mila dollari.
L’esito
La coppia californiana ha però già speso tutto quanto guadagnato dalla surrogazione. «La nostra priorità era riprenderci Max», ha spiegato Jessica. Ma, «con mio grande disgusto, un impiegato dell’agenzia lo aveva messo a disposizione di aspiranti genitori adottivi onde “assorbire” i soldi che dovevamo ai Liu. In alternativa, se questo non avesse funzionato, i Liu stavano pensando di dare Max in adozione, dal momento che ancora erano i suoi genitori legali». Jessica è però irremovibile.
Rivendica il bambino come proprio, ma si ritrova davanti a un paradosso. «Era come se Max fosse una merce e noi stessimo adottando il sangue del nostro sangue», ha raccontato. Inoltre «un’impiegata dell’agenzia ci disse che le dovevamo altri 7mila dollari per le spese sostenute per l’accudimento di nostro figlio e per tutte le pratiche burocratiche».
Dopo aver speso 3mila dollari per un avvocato, i coniugi Jasper hanno intrapreso una sofferta trattativa ottenendo alla fine dall’agenzia l’azzeramento della somma dovuta ai Liu. Il 5 febbraio 2017 Jessica e Wardell sono dunque riusciti ad abbracciare Max, rinominato Malachi. «Non mi pento di essere diventata una mamma surrogata», dichiarato Jessica Allen, «perché questo significherebbe rinnegare mio figlio.
Spero solo che altre donne che prendono in considerazione la maternità surrogata possano imparare dalla mia storia. E che da questo incubo nasca un bene più grande».