Dante, un poeta come nessun altro. Firmato: Paul Claudel

Tempi 15 febbraio 2021

L’autore della Divina Commedia non ha bisogno di stelle più grandi o rose più belle per esprimere la sua ispirazione. Gli bastano le cose e le anime di questo mondo per condurre tutti noi a vedere la profonda unità tra finito e infinito  

Paul Claudel  

Il testo che segue è lo sviluppo di una allocuzione pronunciata da Paul Claudel il 17 maggio del 1921 su invito del Comitato cattolico francese per la celebrazione del sesto centenario della morte di Dante Alighieri. Apparsa nella rivista Le Correspondant il 10 settembre dello stesso anno, questa “Introduction a un poeme sur Dante” è stata ripresa nel 1928 nel tomo I di Positions e propositions, edito da Gallimard, con una nota in cui l’autore spiega che il discorso «precedeva la lettura di un’Ode jubilaire» in onore del Sommo Poeta. L’Ode si trova in Feuilles de saints, uscito per la prima volta nel 1925 sempre per i tipi di Gallimard.

* * *

I

Dante è uno dei cinque poeti che mi sembrano meritare il titolo d’imperiali o di cattolici e la cui opera riunisce le tre seguenti caratteristiche: Innanzitutto l’ispirazione. Non c’è poeta che, in verità, non debba inspirare prima di respirare, e che d’altro canto non riceva questo soffio misterioso – che gli antichi chiamavano Musa e non è da temerari assimilare a uno dei carismi teologici –, che nei manuali viene designato sotto il nome di gratia gratis data.

Questa ispirazione non è senza analogia con lo spirito profetico, che le Sacre Scritture hanno ben cura di distinguere dalla santità. Così vediamo Caifa, Balaam, e anche l’asino di Balaam, risuonare sotto il soffio che, per un istante, li anima. L’ispirazione poetica si distingue per i doni dell’immagine e della metrica. Attraverso l’immagine, il poeta è come un uomo che è salito in un luogo più elevato e che vede attorno a sé un orizzonte più vasto, in cui si stabiliscono tra le cose nuovi rapporti, che non sono determinati dalla logica o dalla legge di causalità, ma da un’associazione armonica o complementare, in vista di un senso.

Attraverso la metrica, il linguaggio viene sbarazzato dalla circostanza e dal caso, il senso giunge all’intelligenza attraverso l’orecchio, con una pienezza deliziosa che soddisfa sia l’anima che il corpo.L’ispirazione da sola non basterebbe a fare uno di questi grandi poeti di cui ho parlato. Occorre che all’opera della grazia rispondano, da parte del soggetto, non solo la perfetta buona volontà, la semplicità e la buona fede, ma anche forze naturali eccezionali, controllate e amministrate da un’intelligenza audace, e al tempo stesso prudente e sottile, e da un’esperienza consumata.

È per questo che, pur con ammirevoli doni, Victor Hugo, per esempio, o Seneca il Tragico, che sono poeti di genio, non sono però grandi poeti, e devono anche essere posti al di sotto di alcuni scrittori di talento, che hanno risposto con fedeltà alla loro vocazione. E questo ci dispensa dall’insistere a lungo sulla seconda caratteristica, che è il dono – a un grado supremo – dell’intelligenza e della critica o gusto.

Attraverso l’intelligenza, il poeta che, il più delle volte, non riceve dall’ispirazione se non una visione incompleta, un appello o una parola enigmatica e informe, diventa capace – grazie a una ricerca diligente e audace, con un severo interrogare i suoi materiali, con l’abnegazione di ogni idea preconcetta di fronte allo scopo – di rappresentare uno spettacolo chiuso, un certo mondo interiore, tutte le parti del quale sono governate da rapporti organici e da proporzioni indissolubili. Attraverso la critica o l’intimo gusto, il poeta sa immediatamente le cose che convengono o meno al fine che persegue.

La critica è, per così dire, la parte negativa della creazione. Allo stesso modo in una statua si può considerare sia la statua stessa, sia i frammenti che lo scalpello ha fatto saltare. Infine, la terza caratteristica è la cattolicità. Voglio dire che questi poeti senza precedenti hanno ricevuto da Dio cose così vaste da esprimere, che il solo il mondo intero può bastare alla loro opera.

La loro creazione è un’immagine e una visione della creazione intera, di cui i loro fratelli inferiori non forniscono che aspetti particolari. È per la mancanza di questa cattolicità, e al tempo stesso di una certa energia essenziale, che il nostro Racine deve cedere il passo a Shakespeare, al quale è tuttavia superiore da diversi punti di vista. Volendo riassumere tutto quello che precede, direi che il genio poetico supremo, così come si manifesta in Dante e negli altri quattro, è una certa Grazia di attenzione.

II

L’oggetto della poesia non sono dunque, come spesso si dice, i sogni, le illusioni o le idee. È questa santa realtà, data una volta per tutte, al centro della quale siamo posti. È l’universo delle cose invisibili. È tutto ciò che ci guarda e che noi guardiamo. Tutto questo, che costituisce la materia inesauribile di racconti e di canti, dal più grande poeta al più piccolo uccello, è opera di Dio.

E così come la philosophia perennis non inventa esseri astratti che nessuno prima dei loro autori aveva visto – alla maniera dei grandi romanzi fabbricati dagli Spinoza o dai Leibniz –, ma si accontenta dei termini forniti dalla realtà, riprende il rudimento degli scolari, e trae dalla definizione del sostantivo, dell’aggettivo e del verbo il nome di tutte le cose che ci circondano, allo stesso modo c’è una poesis perennis che non inventa i propri temi, ma che riprende eternamente quelli che la Creazione le fornisce, come la nostra liturgia, di cui non ci si stanca più che dello spettacolo delle stagioni.

Lo scopo della poesia non è, come dice Baudelaire, di immergersi «al fondo dell’Infinito per trovare del nuovo», ma al fondo del definito per trovarvi dell’inesauribile. Questa è la poesia di Dante. Consideriamo per contrasto alcuni dei temi che la poesia del XIX secolo ha creduto di scoprire e la cui ispirazione ha riempito innumerevoli tomi già polverosi. Noi troviamo che non compongono, che non si accordano con l’insieme della realtà. Assomigliano, da questo punto di vista, alle eresie.

E poiché i libri non distruggono la realtà, sono loro che vengono distrutti. Consideriamo, per esempio, il tema della rivolta e della bestemmia, che da Byron a Leconte de Lisle è servito a tante eloquenti declamazioni. Queste ingiurie lanciate nel vuoto hanno qualche cosa di puerile e non ci fanno veramente alcun bene. Fanno di noi delle specie di proscritti dentro, dei ritirati da quella grande pace da cui ci è piaciuto escluderci da soli, ma sulla quale il sole non cesserà di sorgere e di tramontare nonostante il nostro cattivo umore.

Ancora: numerosi poeti hanno declamato sull’insensibilità della natura, che non si preoccupa né delle nostre gioie, né delle nostre pene. Si può immaginare un lamento così grottesco? Ci si aspetta veramente che le nostre gioie facciano rinverdire gli orti e che le nostre lacrime influiscano sulla depressione barometrica? Come ha detto acutamente Chesterton, la natura non è nostra madre, è nostra sorella.

La verità sola riunisce e tutto ciò che non è con essa si dissolve. Consideriamo un altro tema, quello dell’Universo senza Dio. Soddisfa per un istante la nostra voglia di indipendenza da ragazzi ribelli, ma che decadenza alla fin fine; al posto di un tempio ben ordinato, macerie, caos incomprensibile, al centro del quale artisti pretenziosi non smettono di spostare il loro cavalletto e la loro tavolozza dei colori! – Il tema dell’Umanità. Che idolo senza sostanza!

Uno dei luoghi comuni più assurdi e più odiosi di questa poesia di poco valore, è quello dell’immortalità promessa non alla nostra anima (i grandi divulgatori del XIX secolo hanno affermato che non l’abbiamo), ma agli elementi puramente materiali di cui siamo composti. Ascolta, lettore eccellente! È vero che quel che tu consideri a torto come la tua persona sta per perire, ma la tua carne rivivrà eternamente nelle rose, il tuo respiro nel soffio del vento, il tuoi occhi nel brillio delle lucciole, eccetera. È come se si dicesse: «Ecco la Venere di Milo, sto per smerciarla in pietre. È vero che cesserà di esistere come statua, ma esisterà ancora come polvere e pietra per affilare i coltelli».

Io sostengo che da quel momento ha cessato completamente e assolutamente di esistere, tanto quanto la rosa che è divenuta letame. Risparmiateci le vostre insipide consolazioni. Infine, la poesia del XIX secolo ha trovato il suo tema preferito nelle idee di Infinito e di Evoluzione. Non esistono idee più odiose allo spirito di un autentico poeta.

L’idea di un infinito materiale – così come la troviamo presentata in uno spaventoso carme di Victor Hugo intitolato Plein ciel – vale a dire di un finito senza limiti, tale idea è uno scandalo per la ragione, è un disastro per l’immaginazione, che si vede contrastata nella sua energia essenziale, ossia quel potere di ordine, di misura e di disposizione che Dio ha messo in essa a imitazione del suo Verbo creatore.

L’idea di evoluzione non è meno abominevole, poiché tende a dare alla creazione intera un carattere indefinitamente provvisorio e precario e, togliendo ai risultati momentanei la loro serietà, ci invita a preferire quello che non è a quello che è. Un autentico poeta non ha per nulla bisogno di stelle più grandi e di rose più belle. Quel che è qui gli basta ed egli sa che la sua vita è troppo breve per la lezione che la realtà dà e per il consenso che merita.

Sa che le opere di Dio sono molto buone e non ne domanda altre. Sa perché la natura, con l’insistenza di un bambino che domanda di essere compreso, non smette di ripetere ogni anno una parola – per così dire – alla quale dà un’immensa importanza, la stessa rosa, lo stesso fiordaliso; e quell’erythronium – dente di cane – che nel mese di marzo trapassa la neve con la sua piccola lancia color porpora: che immenso assembramento di cause concentriche occorre affinché a ogni fine inverno questo ridivenga possibile!

Così il vero poeta, di cui Dante ci fornisce il tipo, non è quello che inventa, ma quello che mette insieme, e che, avvicinando le cose, ci permette di comprenderle. III Solo tra tutti i poeti, Dante ha dipinto l’universo delle cose e delle anime ponendosi non dal punto di vista dello spettatore, ma da quello del Creatore, tentando di situarle definitivamente nel quadro non del come, ma del perché, giudicandole in qualche modo, o piuttosto aggiudicandole nel rapporto con i loro fini ultimi.

Ha compreso che in questo mondo visibile noi non vediamo esseri completi, ma, secondo le parole dell’apostolo Giacomo, «un certo inizio della creatura» (*), segni passeggeri il cui senso eterno ci sfugge. Ha tentato di presentare un tempo al centro del quale era posta una storia completa, tracciando la figura definitiva che forma dalle origini contingenti fino ai risultati incommutabili, in seno alla Saggezza di Dio. Egli compila una delle pagine di quel Liber Scriptus di cui si parla alla Messa dei Morti.

Un simile atteggiamento è legittimo da parte di un poeta cristiano? Gli era possibile tentare di trapassare con l’immaginazione e il ragionamento quelle tenebre da cui è circondata la nostra futura sorte e di cui i moderni trattati e predicazioni non cercano per nulla di diminuire lo spessore? Le Scritture non dicono che colui che scruta la Maestà sarà come schiacciato e inghiottito dalla Gloria e che nessun occhio umano può sondare il destino che Dio ha riservato per i suoi eletti?

Malgrado ciò, non posso impedirmi di pensare che l’impresa di Dante sia stata non soltanto legittima, ma benefica, e, a proposito di questo, mi sia permesso di riportare qualche riga di uno scrittore inglese, chiamato Gamble, che mi ha molto colpito:

«Ogni speranza riposa in gran parte sul sostegno fornito dall’immaginazione. Se non possiamo farci una reale concezione della cosa che desideriamo, siamo inclini ad allontanarla dal nostro spirito e a porla fuori dal campo del nostro interesse attuale. Ora, noi non possiamo nasconderci che da molti anni è in atto un’opera che consiste nel togliere, l’uno dopo l’altro, tutti gli appoggi sui quali nell’immaginario popolare si era fino ad ora sostenuta la credenza nell’immortalità.

Se persistiamo nel chiudere l’una dopo l’altra le uscite attraverso le quali un uomo cerca di raggiungere il suo destino, alla fine l’uomo abbandonerà la sua impresa e si impegnerà in un’altra direzione. Così se gli uomini nutrono una speranza e noi continuiamo a dire loro che la sua realizzazione non può assumere nessuna delle forme che loro pensavano potesse prendere, alla fine faranno un voltafaccia e dichiareranno che la speranza stessa è illusoria.

Tale sembra essere l’attuale conseguenza della nostra demolizione del paesaggio di una vita futura, al posto del quale non abbiamo messo altro che il vuoto».

Questi rilievi sono perfettamente giusti. È raccomandato ai cristiani di desiderare il Cielo, e questo desiderio, come ogni altro, deve interessare non solo la ragione, ma l’essere tutto intero, che è un’anima assieme a un corpo. Dobbiamo desiderare Dio, di cui il Padre Nostro dice che è in Cielo, e quindi dobbiamo desiderare anche il Cielo che è la sua dimora, una certa comunanza di ambiente tra Lui e noi.

«Dove è il Padre», dice san Giovanni, «voi sarete con Lui». Ora, come potremmo desiderare veramente, dal fondo del nostro cuore e delle nostre viscere, con l’aiuto della Grazia che non contraddice la natura ma che la perfeziona, una cosa di cui non potremmo formarci, non dico appena un’idea, ma un’immagine sensibile?

A questo ha provveduto la Saggezza eterna, poiché, essendosi fatta carne essa stessa, non si è rivolta a noi se non in parabole, servendosi non di ragionamenti, ma spiegandoci il linguaggio delle cose attorno a noi, che, dal giorno della creazione, non smetteranno di parlarci. Le cose non sono il velo arbitrario del significato che coprono. Esse sono, realmente, almeno una parte di quel che esse significano, o piuttosto esse non diventano complete se non quando il loro significato è completo.

Quando la Bibbia si serve delle cose create per designare realtà eterne, non lo fa come un letterato stordito che sceglie a casaccio nel suo repertorio di immagini, ma in virtù di un accordo intimo e naturale, poiché dalla bocca di Dio, che ha creato ogni essere chiamandolo per nome, non può uscire nient’altro che l’eterno. Non c’è una separazione radicale tra questo mondo e l’altro, di cui è detto che sono stati creati nello stesso tempo (Creavit cuncta simul), ma tra i due si fa l’unità cattolica, in sensi diversi, come il libro di cui viene detto che è scritto insieme dentro e fuori.

È per avere forse dimenticato queste grandi verità, sotto l’influsso del giansenismo di cui non si deplorerà mai abbastanza l’influenza pestilenziale, è per aver disprezzato una parte dell’opera di Dio, queste nobili facoltà – che sono l’immaginazione e la sensibilità e alle quali certi folli avrebbero voluto aggiungere la stessa ragione –, che la religione ha attraversato la lunga crisi da cui ha appena cominciato a uscire.

Questa crisi, che ha raggiunto nel XIX secolo il suo punto più acuto, non era soprattutto una crisi di intelligenza (**). Il catalogo degli errori non è affatto variato e non si può dire che i loro adepti moderni li abbiano presentati in modo particolarmente forte o seducente. Direi piuttosto che è stato il dramma di un’immaginazione a digiuno. Da una parte la conoscenza superficiale dell’universo si era prodigiosamente allargata e, grazie ai nuovi mezzi materiali che la scienza metteva a disposizione di ciascuno, si erano moltiplicati i soggetti di interesse e di investigazione, che facevano appello a tutte le risorse dell’appetito intellettuale.

Dall’altra, con Dio c’era solo un mondo sconosciuto e, si potrebbe dire, inconoscibile, che per spiriti occupati altrove e abituati unicamente a trattare il sensibile, era troppo facile confondere col Niente. È per questo che l’opera e la lezione di Dante sono particolarmente utili da meditare nel tempo in cui viviamo. Si è voluto fare di lui anzitutto un teologo.

C’è qui un’esagerazione insostenibile e anche pericolosa. Molte persone sono state solo troppo tentate di credere che la teologia prendeva in prestito le belle immagini del sublime poeta e non aveva da offrirci un’altra rappresentazione della vita futura, se non quella di fresche miniature. In realtà, sembra che Dante abbia ignorato le tesi più profonde che la scienza sacra del suo tempo aveva appena messo a punto. Il suo Inferno è unicamente l’Inferno del senso, egli sembra ignorare la pena della dannazione o anche della privazione del bisogno di Dio, che è la privazione più crudele, perché la sua causa è senza fine. Il suo Purgatorio presenta (da questo punto di vista) lo stesso difetto.

La grande sofferenza purgante dovrebbe essere meno il fuoco o la fame che la luce, il supplizio di vedersi impuri davanti all’Innocenza eterna e di aver dispiaciuto al Padre e allo Sposo. Infine, nel Paradiso non si trovano che brevi a abbastanza vaghe allusioni alla teoria sublime della visione deifica, che, per permetterci di penetrare fino alla Divinità, aggiunge in qualche modo le Sue forze alle nostre, come nella teoria ottica di Platone, secondo la quale il raggio di sole si adatta alle forze dell’occhio, e fa sì che noi, non seguendo la promessa del Tentatore di essere «simili a Dio», siamo veramente «Dio» pienamente rivestiti di tutto il patrimonio del Figlio.

Queste constatazioni non tolgono nulla all’ammirazione senza limiti, alla profonda venerazione che dobbiamo avere per l’opera del Fiorentino. Non c’è nulla da rimproverare a un poeta quando ha pienamente raggiunto lo scopo che perseguiva, come non si può rimproverare al pellegrino che va a Montmartre di non essere andato alla stesso tempo a Charonne e a Passy.

Ora, lo scopo per Dante non era anzitutto insegnarci, ma condurci, prenderci con lui, farci vedere e toccare e, pur rassicurando l’intelligenza, addomesticare l’immaginazione, circondandola soltanto di figure conosciute e di oggetti familiari. Tale era il suo disegno, non di missionario, ma di poeta, ed egli lo adempie in una maniera così viva, così convincente, e con un linguaggio così bello, che, a poco a poco, e malgrado i nostri dubbi e le nostre resistenze, cediamo a questo piede di compagno che ci trascina, e anche noi ci mettiamo in cammino corporalmente, ritmiamo il nostro passo sul suo, vediamo quello che ci descrive e il suo prodigioso viaggio diventa per noi reale quanto quello di Robinson Crusoe.

Siamo intirizziti dal freddo del lago ghiacciato, ci arrampichiamo lungo il corpo peloso di quel grande Verme posto al centro del frutto terrestre, emergiamo in mezzo alla vasta distesa del mare vergine, dal quale la caduta della stella maledetta ha fatto fuggire ogni riva umana, sentiamo il canto annunciatore degli angeli nella freschezza dell’aurora antartica, e il rumore dell’onda scura, scura, più rapida e nascosta dei canali di Lombardia, che bagna i bui campi del Purgatorio.

In realtà, è probabile che l’altra vita riservi ai suoi nuovi cittadini ben altri spettacoli che quello di questi dannati, che tentano di riconoscersi strizzando gli occhi: «Ciascuna ci riguardava come suol da sera guardare uno altro sotto nuova luna; e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia come ’l vecchio sartor fa ne la cruna» (Inferno, XV, 17-21), o di quelle belle dame che cantano e danzano tra i versi del Purgatorio, o del sublime orologio che formano i Santi Dottori al sommo del Paradiso.

Ma quel che è reale è la gioia, la speranza, il terrore, che fanno penetrare in fondo ai nostri cuori le immagini così belle scelte dal poeta. Allo stesso modo, il tamburello e la viola nelle mani degli eletti nelle pitture dei primitivi non sono che le immagini ingenue della sublime armonia che si è stabilita tra le anime.

IV

La parola che spiega l’intera opera di Dante è l’Amore. È questa parola che vede scritta sulla porta stessa dell’Inferno e che lo guida nel suo itinerario, attraverso i tre mondi della retribuzione. È l’amore, come il poeta ce lo spiega in versi misteriosi e affascinanti, che costituisce il segreto di questo “Stilnovo” che avvolge la sua narrazione, di questa misura solenne e deliziosa, di questo progresso incantato, di cui le visioni più spaventose non possono alterarci l’intima e sovrana dolcezza.

L’amore, per Dante, è l’amore integrale, il desiderio del Bene assoluto che, sin dall’infanzia, si è illuminato nel suo cuore di fronte allo splendore innocente degli occhi di una vergine. Il padre Lacordaire ha detto che non ci sono due amori. Infatti, l’amore di Dio in noi fa appello alla stessa facoltà di quello delle creature, a quel sentimento per cui da soli non siamo completi e per cui il Bene supremo nel quale saremo realizzati, è fuori di noi: qualcuno.

Ma Dio solo è questa realtà di cui le creature non sono che l’immagine: un’immagine, non dico un fantasma, poiché la creatura ha la sua bellezza personale e la sua esistenza propria. È questa immagine, è questa fidanzata che, allontanandosi, ha cominciato l’esilio di Dante e, fuori da una patria ingrata, l’ha invitato nel Regno dei viventi. Dante non ha accettato di essere separato da colei che ama, e la sua opera non è che una specie di sforzo immenso dell’intelligenza e dell’immaginazione per riunire questo mondo di prova in cui si trascina – questo mondo di effetti, che, visto da dove siamo, sembra la dimora del caso o di un meccanismo incomprensibile – al mondo delle cause e dei fini.

È una specie di gigantesco lavoro da ingegnere per raggiungere, per unificare le due parti della Creazione, per fissarle in una specie di enunciazione indistruttibile, e per ottenere così un po’ di quella visione della Giustizia, di cui un altro grande poeta ha detto che è il piacere solo di Dio (cfr A. Rimbaud, Addio in Una stagione all’inferno: «La visione della giustizia è un piacere solo di Dio»).

E poiché tutta la Divina Commedia si riassume alla fine nell’incontro di Dante e di Beatrice, nello sforzo reciproco di due anime separate dalla morte – e di cui ciascuna lavora per avvicinarsi all’altra, nella solidarietà con questo mondo che ha rivestito –, è questo incontro essenziale che ho provato a mia volta, dopo molti altri lettori, a immaginare e dipingere, è questo dialogo di due anime e di due mondi che costituisce il soggetto della poesia al quale queste righe servono da introduzione.

Alcuni versi ispirati da questa vita bassa e banale, così estranea in fondo alla nostra natura migliore, che è la nostra per sempre, ed ecco che Dante parla. Anche lui ha conosciuto lo stesso esilio in cui siamo noi; si può anche dire che è il paradigma dell’esiliato, l’escluso da un mondo di cui nessuna parte era abbastanza grande per contenerlo tutto. Poiché non può ricostruirlo, è questo mondo che Dante sta per iniziare a giudicare e a raggiungere sul piano della giustizia di Dio a cui lo invita Donna Bice.

Poiché c’è stato il gioco del caso in questa vita, quel che anima il poeta è un bisogno appassionato di unità, di assoluto, di necessità, nella partecipazione a una Causa ragionevole. Concepisce la società umana come una monarchia in cui tutte le volontà particolari sposano una ragione centrale. E questa immagine di un cerchio perfetto, poiché gli orizzonti terrestri non possono dargliela, la va a cercare, di girone in girone, in ciascuno di quei cerchi destinati a punire o a purgare l’insufficienza di uno dei nostri vizi, uno dei nostri crimini particolari, per cui abbiamo peccato contro la Verità cattolica e universale.

Né l’Inferno basta a fermarlo, né le svolte dolorose e deliziose del Purgatorio. Ed è solo al trentatreesimo canto del Paradiso che troverà – nella figura infrangibile della Trinità – il principio della rosa concentrica, di cui gli Ordini eletti formano le cinte successive che seguono la cresta che il desiderio ha disegnato. Un ultimo sguardo a questa terra che gli è stata consegnata, come a un altro Cesare, per unificarla nell’intelligenza e nel confronto fra i due mondi, e sotto i suoi piedi è Ravenna, l’antica città imperiale piena di basiliche morte, il cui suolo semisommerso si confonde con l’aria quando il sole tramonta e viene mangiato dall’acqua e dal fuoco.

Un ultimo sguardo su questo mondo, che per lui sta per finire, e già sente Beatrice che ha cominciato a parlare. Cosa dice? Beatrice per Dante è l’amore, e l’amore nella nostra vita è l’elemento essenzialmente posto fuori dal nostro potere, gratuito, indipendente, e che interviene il più delle volte nel nostro piccolo mondo personale, organizzato dalla nostra mediocre ragione, come un elemento perturbatore.

Tutti i rimproveri che la morta poteva indirizzare al suo amante, li abbiamo sentiti nel sublime trentunesimo canto del Purgatorio, in cui Dante, in presenza della Città del Cielo, di cui sta per salire i primi gradini, si confessa con tanta nobiltà e umiltà. E domandiamo a noi stessi: ma Dante, anche lui, non aveva nessuna domanda da fare, non aveva nessun rimprovero da fare a questa donna che improvvisamente l’aveva così crudelmente abbandonato?

Non ha spesso domandato all’ombra che lo precedeva sulle vie dell’esilio: perché? Perché lo hai fatto? È a questa domanda che Beatrice vuole immediatamente rispondere, e non è soltanto lei che l’eterno Esiliato ha il diritto di accusare: è la sua patria terrestre, Firenze, e la desolante Italia del XIII secolo, così amara per un’anima innamorata di ordine e ragione.

Tutto ciò la donna incoronata di rami di ulivo lo giustifica poiché – dice lei – se questo mondo fosse perfetto, che cosa avrebbe avuto da farci il Redentore? Perché vedere nelle cose soltanto disordine superficiale e apparente, e non questo segreto di gioia (ascolta il mio nome!), di lode e di beatitudine che il poeta ha il preciso compito di rivelare?

A questo desiderio di assoluto e di necessità, che costituisce il fondo della richiesta del poeta, Beatrice oppone l’elogio della libertà, della Grazia essenzialmente gratuita, di un Dio vivente, sempre nuovo, sempre nello stato di esplosione e di sorgente, non sottomesso a nessuna necessità da parte della Creazione che ha tratto dal nulla, un Dio eternamente inventore del Cielo in cui risiede e i cui passi sono per noi, come sempre, imprevisti.

Dio nel Paradiso ci insegna le cose non tanto spiegandocele, ma invitandoci, per così dire, a farle con lui, come il pastore dell’idillio di Andrea Chénier che mette sul flauto le labbra e le dita del suo giovane fratello. E dal momento che ci associa al suo potere creatore, allo stesso modo la sua efficacia redentrice rimette nelle nostre mani non solo le cose materiali, ma anche le anime, perché gli siano offerte: quelle anime che ci attendevano e che, in un certo senso, potevano ricevere solo da noi la luce e la salvezza.

Il Creatore ci ha permesso di dargli veramente qualche cosa: non solo un pugno di incenso e di farina, ma tutte quelle anime immortali, o quel fratello, solo, tra le nostre mani. Così compresi, i difetti stessi che vediamo nelle cose sono per noi una sorgente non di tristezza, ma di gioia. Solo Lucifero si è considerato perfetto ed è caduto subito, come una pietra, a causa del suo peso. È perché tutte le cose create sono imperfette, è perché c’è in esse una certa mancanza, un certo vuoto radicale, che esse respirano, vivono, cambiano, hanno bisogno di Dio e delle altre creature e si prestano a tutte le combinazioni della poesia e dell’amore.

E queste combinazioni non hanno valore assoluto in sé; non esiste recinto non superabile dalla Grazia di Dio, non c’è misura, seguendo la parola del Salmista, che sia capace di esaurire la misericordia e adeguata alla nostra gratitudine. Questo Infinito materiale che spaventava Pascal e di cui il cielo astronomico ci presenta una specie di immagine convenzionale, questa moneta d’astri sparsa con una noncuranza sublime attraverso l’abisso, non è abbastanza!

Essa non basterà ancora per pagare il debito della nostra gratitudine, dice Beatrice.

Traduzione di Flora Crescini

© Editions Gallimard, Paris, 1965

* * *

(*) L’apostolo aggiunge: Noi ci guardiamo nello specchio della nostra nascita.

(**) In fondo, ciò che annoia Voltaire e i suoi esili discendenti moderni sono molto meno le verità della Bibbia che la magnificenza pittoresca delle storie che racconta e del linguaggio di cui sono rivestite. Dante e Shakespeare non lo sbalordiscono di meno; anche loro sono autori esagerati e oscuri. È il rispetto umano dei parvenu, del portinaio di Parigi che ha vergogna di mostrare ai suoi amici la propria madre rivestita dai suoi magnifici ornamenti campagnoli. Guardate il pudore col quale il nostro Renan non osa rischiare la minima immagine senza velarla di una casta aggiunta. Molte persone credono di avere il gusto classico e non hanno che il gusto borghese.