Il pensiero di Jean-Jacques Rousseau espresso nel suo Discorso sull’origine della disuguaglianza è incentrato sulla casualità di eventi che sarebbero anche potuti non accadere. In queste affermazioni si ritrova buona parte del pensiero scientifico evoluzionista. Maistre demolisce in modo implacabile (definisce lo scritto di Rousseau un’idiozia), ma anche con molta ironia, il pensiero del ginevrino dimostrando la naturale socialità dell’uomo e l’inesistenza del buon selvaggio.
Andrea Bartelloni
Per caso – dice ancora Rousseau – due selvaggi si incontrarono e decisero di vivere assieme; per caso un seme cadde in terra e un altro selvaggio si accorse di questo e nacque l’agricoltura: “(…) vediamo un essere intelligente che era fatto (per volontà di Dio, a quanto pare) per la vita dei selvaggi e che un caso funesto ha fatto precipitare nella civilizzazione (malgrado Dio, a quanto pare). Questo caso funesto avrebbe certamente potuto non accadere, oppure Dio avrebbe certamente dovuto opporvisi: ma qui nessuno fa il suo dovere!” (pag. 31).
Joseph de Maistre (1753-1821) così scrive tra il 1794 e il 1796 in un testo, rimasto incompiuto dal titolo De l’état de nature che solo oggi possiamo leggere grazie alla traduzione di Francesco Boccolari (1984); Maistre demolisce in modo implacabile (definisce lo scritto di Rousseau un’idiozia), ma anche con molta ironia, il pensiero del ginevrino dimostrando la naturale socialità dell’uomo e l’inesistenza del buon selvaggio.
Anzi “più si consulteranno la storia e le tradizioni antiche, più ci si convince che la condizione dei selvaggi costituisce una vera e propria anomalia, un’eccezione” (…) (pag.53), “Se i popoli antichi fossero vissuti per secoli in uno stato di abbrutimento, non avrebbero mai potuto immaginare il regno degli dei e le comunicazioni divine. (…) Avrebbero esaltato questo stato primitivo” (pag.52).
Infatti non si trova mai nessun riferimento ad un antenato che viveva sugli alberi o che era senza parola e non si vede perché qualcuno se ne dovesse vergognare ed evitare di raccontarlo! Proprio il capitolo sul linguaggio è di particolare interesse (pag.57): “La parola è tanto essenziale all’uomo quanto lo è il volo per l’uccello” e dimostra essa sola che è un essere sociale. “Le lingue non poterono essere inventate né da un uomo solo, che non avrebbe potuto farsi obbedire, né da molti che non avrebbero potuto accordarsi fra loro”. La parola resta un mistero, “ma se l’uomo è fatto per parlare, è evidente per parlare a qualcuno”.
Il filosofo ginevrino riteneva l’uomo naturalmente buono e che tutti i suoi problemi derivassero dalla società che è un qualche cosa contro natura: nello stato di natura non ci si sposa e quindi non ci sarà adulterio, non c’è la proprietà e non ci saranno i furti, le guerre, gli assassinii. Maistre dimostra il contrario e da questa dimostrazione ne deriva anche la necessità di un governo: “l’uomo ha dei capi perché non può farne a meno” (pag. 66) perché “la natura, diceva Socrate, ha riunito in questo essere i principi della socievolezza e del dissenso”.
E Senofonte: “sono i miei sensi a testimoniare che posseggo due diverse anime, una che mi conduce al bene, e l’altra che mi trascina al male”. Anche Ovidio come san Paolo afferma le stesse cose portando alla conclusione che “conviene essere governati che non esserlo, e che ogni associazione di qualsiasi tipo sarà più duratura (…) se essa ha un capo” (pag.67) e se pertanto l’ordine sociale è qualcosa di naturale non c’è bisogno di nessun patto sociale.
L’uomo è intelligenza, ragione, volontà, tutte potenze indebolite, e specialmente quest’ultima – conclude Maistre – è particolarmente “storpia” ma riesce sempre a trovare le leggi “della giustizia e del bene morale (…) iscritte nel nostro cuore a caratteri indelebili”. È il trionfo della legge naturale grande assente nel terzo millennio.
Joseph de Maistre, Stato di natura. Contro Jean-Jacques Rousseau A cura di Francesco Boccolari Mimesis, 2013, pagg. 67