di Gustave Thibon
E’ un fatto che mai, forse, si erano notati così pochi scambi e tanta distanza da una classe all’altra della società o fra uomini di livello culturale diverso. L’influenza umana positiva delle élites sul popolo è ora pressoché nulla. Si era creduto, tuttavia – e fu uno dei maggiori miti del XIX secolo -, che la fraternità, la comunione sinfonica degli uomini sarebbe nata dall’affievolimento dello spirito di classe e, in definitiva, nella soppressione delle barriere sociali. Ma ciò che accade non è paradossale che in apparenza.
La confusione non unisce, ma separa: essa crea fra gli elementi confusi delle opposizioni irriducibili. Ogni reciprocità d’influenza implica una solida differenza di natura e di posizione. Proprio nelle società fortemente diversificate e gerarchizzate, in cui il passaggio da un piano all’altro è molto difficile, per non dire impossibile, si stabiliscono, fra i membri di tali gerarchie, gli scambi più fecondi e duraturi: si pensi all’influenza secolare della monarchia, della nobiltà o delle caste sacerdotali sul popolo.
In simili formazioni politiche ciascuno, in virtù proprio della stabilità, della “fatalità” della sua posizione, è interamente disponibile per lavorare al bene della generalità. Le classi in alto hanno le mani libere per dare, e quelle in basso per ricevere e gli scambi sono tanto più profondi quanto più è difficile a scavalcare il fossato che separa i diversi strati sociali.
La mistica democratica ha rovinato tutto ciò. Come potrebbero sussistere veri scambi all’interno della gerarchia, quando la stessa esistenza di tale gerarchia è messa in dubbio? In tal caso l’inferiore, disgustato del suo ambiente, della sua posizione, di se stesso, da questo soffio d’aria di palude suscitato in lui dall’insegnamento dell’uguaglianza, non ha più nulla da ricevere dal superiore, e non mira che a uguagliarsi a lui e a espellerlo.
Il superiore, a sua volta, anziché governare avendo di mira il bene di tutti, tende soltanto a difendere la sua posizione minacciata. Da una parte l’invidia, dall’altra il timore inaridiscono tutti gli scambi vitali: questi non sono possibili che in quelle società in cui il destino degli individui è strettamente legato alla posizione che occupano e il passaggio da un piano all’altro della gerarchia esige una trasformazione e un’ascensione totale di colui che si eleva, e non il suo abbandonarsi alle grottesche combinazioni della finanza o del suffragio universale.
Lo scambio sociale è puro e fecondo solo in un mondo in cui il dirigente si sente sicuro in alto perché il subordinato si sente al suo posto in basso.Ma oggi possiamo ancora parlare di scambi? Oggi, in alto si tratta di difendere, in basso di conquistare. Con la sterile confusione delle classi comincia la sterile lotta delle classi. Non è un paradosso affermare che le barriere sociali favoriscono assai spesso la comunione umana.
Alla fine del secolo scorso nei nostri villaggi provenzali non ancora travagliati dalla febbre repubblicana, un’estrema familiarità regnava tra il signore del luogo e i contadini: giocavano insieme alle bocce dopo i vespri, le signorine della nobiltà danzavano con i giovanotti del villaggio, ecc. Simili correnti di simpatia effettiva non erano possibili che nella misura in cui ogni classe restava legata alla sua posizione, al di fuori di ogni contestazione e di ogni invidia.
In tali ambienti, in cui le differenze sociali erano accettate, vissute come indiscutibili necessità, la familiarità tra una classe e l’altra poteva crescere sempre più senza pericolo di promiscuità: una fraternità profonda nasceva dall’accettazione dell’ineguaglianza.
Il messianismo egalitario, al contrario, genera nel popolo la rivolta e la diffidenza nei riguardi dei capi e, nei capi, la preoccupazione di mantenere la distanza nei riguardi del popolo: da una parte un riflesso di aggressione, dall’altra un riflesso di difesa, la guerra al posto della comunione. Poiché – qualunque sia la abitudine che la Rivoluzione francese ci ha dato di vedere accoppiate le due parole – la fraternità non ha quaggiù peggior nemico dell’uguaglianza. Un nobile dell’ancién regime poteva, senza cessare d’essere rispettato e obbedito, trattare i suoi servitori con un’estrema familiarità; un moderno parvenu, è obbligato a compensare mediante un autoritarismo morto l’assenza di autorità vivente, e di marcare tanto più le distanze in quanto esse non esistono in realtà.
L’egualitarismo più malsano diventa fatale dal momento in cui la gerarchia sociale non si fonda più che su diversità di patrimonio. Perché il popolo rispetti e segua spontaneamente coloro che lo governano, occorre senta che questi ultimi lo dominano per altro che non sia il denaro. Donde la necessità di diminuire fra gli uomini le disuguaglianze di fortuna a profitto delle differenze di casta, di tradizione, di cultura, ecc., o, quanto meno, di appoggiare le differenze di fortuna su delle differenze umane.
Ma quale odiosa casta di padroni questa plebe coperta d’oro! Essa suscita, nell’animo del popolo, l’invidia più nera e più legittima, quel “perché non io” che, agitandosi a vuoto, scompagina le società. Chiunque, infatti, può aspirare a esser ricco, dato che la conquista del denaro è legata agli accidenti più banali: non allo stesso modo si aspira alle ascensioni che costringono a un cambiamento profondo di costumi o di cultura, che portano con sè un accrescimento di responsabilità e il cui fallimento viene fatalmente scontato – moralmente e materialmente – a breve scadenza.
Non v’è miglior freno all’invidiosità e allo spirito di rivolta delle masse della presenza di una élite dirigente la cui autorità sia indipendente in larga misura dal denaro. Questa potenza (quella che proviene da una tradizione ereditaria o dal merito professionale) è organica, specificata, localizzata; essa si esplica all’interno di certi quadri vitali ed è feconda in virtù della sua funzione propriamente umana e del suo adattamento a determinati tempi e a determinati luoghi; essa è tutelata contro i suoi stessi abusi e la sua stessa attitudine a degenerare, da un ritmo di scambi continui con l’ambiente in cui vive e non può distruggere nulla se non distruggendosi: i suoi interessi si confondono coi suoi doveri.
La plutocrazia, invece, è inorganica e non ha un suo ambiente specifico (un ricco è ricco in ogni luogo); estranea all’ordine vivente della comunità, non può essere (e per di più senza un freno, senza un correttivo) che un fattore di disordine e di parassitismo.
Un sistema di paratie stagne fra le caste non è né auspicabile né realizzabile nel nostro mondo occidentale e cristiano. Il passaggio dal popolo all’élite deve essere possibile (altrimenti quest’ultima si estenua e degenera), ma deve essere difficile. Occorre che si elevino, da una classe all’altra e da una casta all’altra, dighe alte e robuste, in tal modo chi supererà tali dighe sarà veramente salito! Il tempio ove regna la classe dirigente dovrebbe portare sul suo frontone questa scritta: qui si entra salendo.
La miseria dell’ideale sociale moderno consiste invece precisamente nello spianare le dighe e nello stabilire fra il popolo e l’élite un piede di parità rovinoso. Di qui l’involgarirsi e il degenerare delle élites: con la scomparsa di una distanza in senso verticale (e della selezione che tale distanza implica) perisce l’élite.
Una élite collocata bene in alto, d’accesso difficile e rigorosa nell’accogliere, nobilita l’uomo del popolo che s’innalza fino a lei e nobilita col suo solo riverbero tutta quanta la massa popolare. Ma oggi, plebaglia in alto, plebaglia in basso, come diceva Nietzsche. Per amore del popolo e delle migliori possibilità che dormono in lui, importa anzitutto conservare e ricreare, al disopra di lui, un potere largamente indipendente da lui, una forza attrattiva e insieme regolatrice, capace di proteggere instancabilmente le riserve popolari di forza e di vita contro la bassezza e la cecità plebee. Altrimenti, questa bassezza e questa cecità sommergeranno tutto. Infatti il popolo porta in sè quanto basta a tutto salvare e rigenerare, ma anche a tutto abbrutire e distruggere.
Due correnti si incrociano nella sua anima:, una tende verso la dissoluzione e l’anarchia, e questa è sufficiente a se stessa, l’altra è portatrice di una ricchezza profonda, ma incompleta e come germinale, ed è costretta senza sosta a fare appello, per realizzarsi, a un’influenza superiore. Come Barbusse, abbiamo fiducia “negli abissi del popolo”, ma a condizione che questi abissi siano rischiarati e fecondati dal di fuori, dall’alto.
Essi possono creare ogni cosa come pure inghiottire ogni cosa. E la democrazia – e il termine stesso indica che niente è al disopra del popolo, che il popolo è solo – si è troppo lungamente limitata a coltivare il lato brutale del popolo, la sua tendenza all’affogamento e all’autodistruzione. Perché il popolo basta a sè per cadere, ma non per camminare.
La soppressione delle paratie stagne è oggi ormai acquisita e l’esistenza stessa delle classi è minacciata. Non è il caso né di lamentarcene né di gioirne, importa solo sapere a quali condizioni una simile società può restare sana. Ogni uomo può ormai aspirare alle funzioni superiori. Affinché questa possibilità non sia per il popolo una ventata d’aria corrompitrice, occorrerebbe che i membri delle classi dirigenti conducessero un’esistenza assai dura e una vita in cui i doveri e i sacrifici avessero sempre più il sopravvento sui privilegi, di maniera che l’uomo del popolo comprendesse chiaramente che non avrebbe niente da guadagnare dal punto di ,vista dei suoi interessi materiali a spostarsi fuori della sua classe verso l’alto. Solo cosi coloro che salissero verso le funzioni superiori salirebbero per vocazione e non per ambizione.
Un clima ascetico è tanto più necessario alle sommità della gerarchia sociale quanto più queste sommità sono accessibili al popolo. La Chiesa ha sempre pensato così. Essa è aperta, in tutti i gradi della sua gerarchia, ai proletari, ma impone a quelli che aspirano alle funzioni sacerdotali un cambiamento tale di vita e sacrifici tali che la semplice attrattiva dei privilegi e degli onori non è sufficiente (salvo nei periodi di estrema decadenza del clero) a suscitare molte false vocazioni. L’uomo del popolo, inasprito contro i suoi umili doveri di stato, più facilmente brigherà per la funzione di deputato che per quella di monaco!
Un regime di tipo democratico non può restare sano che nella misura in cui sussista, nei suoi dirigenti, uno spirito d’immolazione che ha una parentela con quello del sacerdozio, e della cavalleria. Del resto, il figlio del popolo, chiamato a guidare il popolo, ha bisogno, più del principe o del nobile, di essere separato dal popolo. in virtù della sua anima e dei suoi costumi; per far accettare al popolo la sua autorità, occorre che egli supplisca, per merito del cambiamento profondo che s’è operato in lui, all’ascendente spontaneo che il figlio di una casta superiore possiede.
La Chiesa, che trae dal popolo la maggior parte dei suoi preti, sa rivestirli di solitudine e di mistero quanto basta perché possano guidare dall’alto la classe da cui sono usciti, con il massimo di prestigio e influenza. Vi è democrazia e democrazia: in una società come la Chiesa, il proletario esce dal popolo trasfigurato dalla vocazione della sua anima; nella maggior parte delle democrazie moderne, ne esce sfigurato dalle ambizioni del suo io. Concludiamo: un regime fondato sull’uguaglianza giuridica fra gli uomini ha bisogno d’essere incessantemente redento e purificato da un severo accrescimento delle ineguaglianze morali.