Articolo pubblicato su Cristianità n. 277 (1998)
di Marco Invernizzi
Il 18 aprile 1948 è una data fondamentale nella storia italiana. Attraverso una curiosa periodizzazione di mezzo secolo in mezzo secolo, nei cento anni precedenti il 18 aprile l’Italia ha definito la sua configurazione storico-politica.
Il 1848 ha segnato la fine del progetto cosiddetto neo-guelfo, che prevedeva il raggiungimento dell’unità e dell’indipendenza in un modo – per quanto discutibile – rispettoso delle radici cattoliche-universali e contemporaneamente municipalistiche dell’Italia e, al contrario, il sopravvento di forze politiche lontane e avverse alla Chiesa, come la Società Nazionale e il Partito d’Azione, la prima dominata dalla volontà di espansionismo del Regno di Sardegna e il secondo nazional-rivoluzionario.
Cinquant’anni dopo, i “fatti di Milano” del 1898 hanno prodotto una profonda frattura fra queste stesse forze liberali che, distinte in Destra storica e in Sinistra, avevano fino ad allora governato la nazione. Come ha scritto Giovanni Spadolini (1925-1994), i cannoni del generale Fiorenzo Bava Beccaris (1831-1924) avevano spento definitivamente il “sogno” di uno Stato giacobino opposto sia ai “neri” clericali che ai “rossi” socialisti (1).
Il movimento liberale prende atto dell’ascesa del Partito Socialista Italiano, fondato a Genova nel 1892, e si divide fra conservatori o “ministeriali”, disposti ad alleanze elettorali con i cattolici, e progressisti – come il direttore del Corriere della Sera, Luigi Albertini (1871-1941), lo “Scalfari” dell’epoca -, indisponibili a rinunciare alla pregiudiziale anticattolica.
Una situazione analoga si verifica nel movimento cattolico: infatti, anch’esso si divide.
Da una parte si situano quanti non riescono a cogliere i mutamenti avvenuti nel paese soprattutto in seguito all’ascesa del PSI, e che pur “di farla ai liberali” sarebbero disposti anche ad allearsi con i socialisti: figura tipica di questo episodio è il sacerdote milanese don Davide Albertario (1846-1902), già “campione” dell’intransigentismo, che proprio nel maggio del 1898 viene arrestato a Milano con il segretario socialista Filippo Turati (1857-1932) per aver partecipato ai moti contro il governo.
Dall’altra parte stanno quei cattolici che sapranno adattarsi alla nuova situazione accantonando le gloriose insegne della battaglia intransigente – anche se formalmente l’Opera dei Congressi e dei Comitati Cattolici verrà soppressa dall’autorità pontificia nel 1903 – per dar vita a quegli accordi con i moderati liberali culminati nel 1913 nel Patto Gentiloni, che permetterà di fermare a livello parlamentare l’avanzata socialista (2).
Come avrebbe scritto Papa san Pio X (1903-1914) nell’enciclica Il fermo proposito del 1903, l’accordo non significa che i cattolici devono diventare liberali, ma semplicemente comprendere come il bene comune della nazione impone in quel frangente storico un’alleanza per scongiurare l’avvento del socialismo, un male peggiore di quello che la popolazione italiana aveva patito dall’Unità in poi.
Le elezioni del 18 aprile 1948
La questione socialista si sarebbe imposta all’attenzione degli italiani anche cinquant’anni dopo, alla fine della seconda guerra mondiale, dopo la caduta del regime fascista con il disastro nazionale dell’8 settembre evocato negli studi di Renzo De Felice (1929-1996), dopo la guerra civile con i governi al Nord del Comitato di Liberazione Nazionale, il varo di una nuova Costituzione, il referendum istituzionale e, finalmente, lo scontro di civiltà delle elezioni del 18 aprile.
Molte cose sono cambiate in quei cinquant’anni. Due guerre mondiali, delle quali particolarmente la prima ha cambiato radicalmente il modo di pensare e di vivere della popolazione italiana, e non certo migliorandoli; la ventennale esperienza del fascismo; la scissione del PSI, a Livorno nel 1921, dalla quale è nato il Partito Comunista Italiano che, forte del rapporto privilegiato con l’URSS, ha progressivamente lavorato anche nella clandestinità per egemonizzare la sinistra, come le elezioni del dopoguerra dimostreranno.
La Chiesa cattolica esce dalla guerra e dall’esperienza fascista in “piena salute”, per usare un gergo certamente improprio, ma efficace: ha potuto mantenere intatta la sua struttura organizzativa durante il fascismo e durante la guerra civile ha aiutato tutti gli italiani che ne avevano bisogno, conquistando così la stima e il consenso della popolazione.
Di fronte al conflitto ideologico in corso ormai dalla Rivoluzione del 1917, ma in realtà già dal 1914, cioè dall’inizio della prima guerra mondiale, in Italia la Chiesa incarna il senso comune della nazione, con i suoi sacerdoti vicino alla popolazione, pronti a confortare, ad aiutare e a consigliare in ore e ore passate nei confessionali, con il laicato organizzato nelle associazioni di massa dell’Azione Cattolica Italiana e, soprattutto, con un Papa come Pio XII (1939-1958), di grande statura non solo morale ma anche intellettuale, apprezzato e ascoltato anche oltre gli ambiti della Chiesa cattolica.
Benché lo scenario sia cambiato rispetto agli avvenimenti di fine secolo, la questione socialista rimane al centro della storia italiana e costringe a prendere posizione. Nel 1948 essa s’impone in tutta la sua drammaticità, sia per le notizie provenienti dalle nazioni dell’Europa Orientale, dove i partiti comunisti conquistano il potere e cominciano a perseguitare la Chiesa, sia per quanto specificamente avviene in Italia.
Infatti, se la Chiesa in Italia sembra godere di buona salute, altrettanto si può dire del PCI. I comunisti hanno lavorato con efficacia durante il regime fascista, sia nella clandestinità che all’interno degli stessi organismi fascisti, particolarmente quelli universitari, come mostra efficacemente l’opera di Ruggero Zangrandi (1915-1970) (3), e hanno mantenuto un legame con la popolazione, che manifesterà la sua consistenza attraverso i risultati delle elezioni del 1946 e del 1947.
Unitisi ai socialisti di Pietro Nenni (1891-1980) nel Fronte Popolare in occasione delle elezioni del 18 aprile, i socialcomunisti possono effettivamente incutere il timore di una possibile vittoria elettorale.
Inoltre, con il ritorno da Mosca del suo segretario Palmiro Togliatti (1893-1964), con l’egemonizzazione del CLN e con il tentativo del “partito nuovo” di creare un nuovo senso comune nella nazione soprattutto attraverso la mitologizzazione della guerra civile antifascista – come ha spiegato con lucidità e con profondità Augusto Del Noce (1910-1989) , con la forza finanziaria e politica proveniente dal sostegno sovietico, il PCI nel dopoguerra, grazie anche a una sorta di “moderatismo” ideologico reso ancor più evidente dal confronto con il neo-giacobinismo del Pd’A, rappresenta veramente l’alternativa al comune modo di sentire rappresentato dal cristianesimo vissuto dalla maggior parte della società. Se a livello internazionale il mondo va sempre più dividendosi fra due sfere d’influenza egemonizzate da URSS e da USA, in Italia lo scontro avviene soprattutto fra la Chiesa e il PCI (4).
Chiesa e Democrazia Cristiana
Sia la Chiesa che il PCI devono tener conto della specificità italiana. L’Italia è un paese a sovranità limitata, occupato e liberato dall’esercito degli Alleati nel Sud e dilaniato dalla guerra civile nel Nord, dove nel 1945 il CLN prende il posto dell’esercito tedesco e della Repubblica Sociale Italiana. In questa parte del paese, nei giorni successivi all’8 settembre, salta qualsiasi riferimento istituzionale e la popolazione disorientata deve cercare referenti e indicazioni su come comportarsi o nella Chiesa o nei partiti della sinistra, fra i quali il PCI presto conquisterà l’egemonia.
Intenzionalmente ho parlato fino a ora di Chiesa o mondo cattolico e non di Democrazia Cristiana. Infatti, per comprendere quanto è accaduto nella storia italiana degli ultimi cinquant’anni bisogna assolutamente distinguere fra i fedeli cattolici, i militanti dell’ACI di allora, quelli dei terz’ordini e delle confraternite, e la classe dirigente democristiana con i suoi referenti ecclesiastici e nell’associazionismo cattolico.
Per giungere a questa conclusione mi sembra necessario ritornare brevemente al compromesso stipulato dalla Chiesa con il regime fascista, contrassegnato dalla firma del Concordato del 1929. I Patti Lateranensi hanno permesso totale libertà di culto e di catechesi alla Chiesa, ma l’hanno costretta a rinunciare alla costruzione di una civiltà cristiana con uomini politici formati e rappresentativi del mondo cattolico.
Il totale appalto della politica preteso dal fascismo ha provocato non solo l’abbandono del Partito Popolare Italiano da parte della gerarchia ecclesiastica – con l’esilio del suo segretario, don Luigi Sturzo, e lo scioglimento del partito nel 1926 -, ma ha anche costretto l’ACI e le diverse associazioni cattoliche a rinunciare esplicitamente alla politica. Ciò determina la formazione di militanti cattolici certamente ortodossi, fedeli e animati da splendide intenzioni apostoliche, ma forse privi di una cultura politica che non sia quella del vecchio PPI oppure quella proveniente dalla Francia, basata su una certa interpretazione di Jacques Maritain (1882-1973) o su un certo Maritain.
E queste due culture politiche – quella popolare e quella “maritainiana” – orienteranno le scelte politiche della DC nei cinquant’anni successivi, rispettivamente attraverso le figure di Alcide De Gasperi (1881-1954) (5) e di Giuseppe Dossetti (1913-1996) (6), dando vita alle due impostazioni -, che intenzionalmente non chiamo correnti per non confonderle con quegli agglomerati che poi si costituiranno con interessi molto meno culturali – quella “cattolico-liberale” e quella dei “cattolici democratici”, che ancor oggi in qualche modo sopravvivono nei diversi spezzoni in cui si è divisa la DC dopo il crollo del Muro di Berlino e dopo Tangentopoli.
Ma la grande maggioranza dei cattolici militanti di allora non si riconosce in queste due culture politiche e, prendendo sul serio il magistero di Papa Pio XII e quello dei vescovi italiani, ha un atteggiamento di preoccupata ritrosia verso i “miti” moderni e progressisti che i cattolici liberali, ma soprattutto quelli democratici cercano di trasmettere loro principalmente attraverso il partito.
I Comitati Civici
Sarà questa mentalità, questo “senso comune” – che normalmente i progressisti qualificano in modo sprezzante con l’aggettivo “reazionario” -, questo modo di sentire e di giudicare e di rapportarsi con la modernità che caratterizzerà lo “spirito del 18 aprile”, uno spirito antitotalitario e anticomunista, che ha il suo punto di riferimento principale nelle parole del Papa riprese e ripetute dai vescovi e dai parroci del paese, mentre, dal punto di vista organizzativo, si richiama ai Comitati Civici, fondati due mesi prima delle elezioni, esattamente l’8 febbraio 1948, dal vice presidente dell’ACI Luigi Gedda per diretto incarico del Pontefice.
I CC sono uno degli organismi più adatti a operare nel mondo caratterizzato dal pluralismo ideologico e dalla conseguente conflittualità fra diversi partiti, e inoltre sono un “miracolo” organizzativo, benché possano utilizzare le strutture dell’ACI: in pochi giorni, i cattolici italiani vengono mobilitati grazie all’istituzione di ventimila comitati elettorali, i quali, secondo l’intenzione di Papa Pio XII, promuovono una propaganda non a sostegno di quella della DC, ma diretta a far emergere il dovere strettamente religioso e morale d’impegnarsi in una “battaglia di civiltà”, contro il comunismo, ma anche contro l’astensionismo. Ed era quanto il PCI teme, cioè – appunto – la trasformazione dello scontro elettorale in una scelta di civiltà (7).
E la DC? È molto importante e significativo che oggi il leader del Polo per le Libertà, on. Silvio Berlusconi, si richiami alla data del 18 aprile e che esponenti già democratici cristiani sentano la necessità di ritrovarsi per celebrare questo evento.
Ma bisogna ricordare con forza non soltanto che il 18 aprile non fu una vittoria della DC, ma che – come ha scritto don Gianni Baget Bozzo (8) – nella DC vi era chi desiderava un risultato più equilibrato perché si tornasse al governo considerato “popolare”, con DC, PCI e PSI. Soprattutto deve essere ricordato che il 18 aprile e anche il successivo periodo detto del “centrismo” – che pure molti cattolici considerarono un tradimento del dato elettorale, per il coinvolgimento quantitativamente superfluo dei “partiti laici” – non verranno praticamente mai più né celebrati e neppure ricordati se non con imbarazzo dai democristiani fino alla caduta del Muro di Berlino.
Questa considerazione è di uno storico come Pietro Scoppola, insospettabile da questo punto di vista: “[…] gli anni del centrismo si presentano dal punto di vista storiografico con una loro peculiarità e anomalia: la storia, per quel poco che è stato fatto in questo campo, l’hanno scritta i vinti assai più e prima dei vincitori” (9) . Non solo, ma – come ricorda lo stesso Scoppola – il 18 aprile non segna soltanto la vittoria del popolo italiano che non vuole il comunismo, ma anche l’inizio di un rapporto difficile fra mondo cattolico e DC, che trova un’espressione significativa nel modo in cui i CC “verranno silenziati” dalla DC dopo la vittoria elettorale del 1948.
Le divisioni nel mondo cattolico e la funzione dei Comitati Civici
Devo l’espressione “silenziati” allo stesso Gedda, il quale, nel diario delle udienze con i Papi Pio XI (1922-1939) e Pio XII, scrive: “Fin dal trionfale esito elettorale del 1948 la Democrazia Cristiana considerava malvolentieri l’esistenza di una formazione politica diversa da quella nata all’epoca della liberazione con il nome coniato da Don Romolo Murri, ossia diversa da se stessa, che aveva affrontato il periodo della Costituente, il referendum istituzionale e il confronto con il Fronte Popolare. La vittoria del 18 aprile, che attribuiva alla Dc la maggioranza nelle due Camere, come tutti sapevano era dovuta al massiccio intervento dei Comitati Civici, i quali non chiedevano alcun privilegio se non quello di sorvegliare che il partito rimanesse coerente alla sua qualifica di cristiano.
“Questo compito infastidiva i vertici della Dc, perché serpeggiava nel partito una corrente, capeggiata da Dossetti, favorevole a un’alleanza con i comunisti” (10).
Il mondo cattolico del dopoguerra presenta al suo interno diverse posizioni sia per quanto riguarda la cultura politica che per quanto concerne le modalità dell’azione. Niente di paragonabile al “fumo di Satana” penetrato nel sacro recinto (11) o all’“autodemolizione” della Chiesa (12), di cui dirà Papa Paolo VI (1963-1978) negli anni successivi al Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965); tuttavia differenze che avrebbero provocato già negli anni 1950 dolorose fratture fra i dirigenti dell’ACI, come testimoniano i casi del presidente della Gioventù di Azione Cattolica Carlo Carretto (1910-1988) e del suo successore Mario Rossi (1925-1976), entrambi entrati in conflitto con le direttive di Pio XII e perciò costretti a lasciare l’ACI. Secondo Gedda, la sinistra democristiana ebbe una parte di responsabilità in questi accadimenti e certamente ebbe una parte nel conflitto che oppose il partito ai CC.
Il conflitto è certamente originato dalla cosiddetta questione comunista, nel senso che una parte consistente della DC avrebbe gradito un coinvolgimento governativo del PSI e successivamente anche del PCI, ma probabilmente questo aspetto politico riflette un modo diverso di considerare la democrazia, concepita in un modo nei discorsi del Pontefice (13) e quindi nell’atteggiamento, fra altri, dei CC, e giudicata diversamente dai democristiani.
Questi ultimi sembravano e sembrano non considerare la democrazia come una cornice dentro la quale perseguire il bene comune del popolo italiano, cioè un metodo di governo che fra l’altro favorisca la partecipazione popolare nella gestione della cosa pubblica, ma al contrario come un “mito” che spiega la storia come processo irresistibile verso l’ineluttabile progresso, verso l’utopia del “sol dell’avvenire”, quella “democrazia progressiva” che nella prospettiva marxista si confonde con la stessa Rivoluzione e passa attraverso la dittatura del proletariato.
“I Comitati Civici sono stati silenziati”
I CC verranno progressivamente emarginati dalla vita politica, nonostante il favore del Pontefice e nonostante Gedda diventasse nel 1952 presidente nazionale dell’ACI. È un mistero che gli storici dovrebbero molto utilmente indagare per conoscere quali influenze – di quali forze politiche e di quali personalità ecclesiastiche – riuscirono a impedire ai CC di realizzare lo scopo per cui erano stati fondati.
La DC, con la segreteria di Amintore Fanfani, dal 1954, comincerà a dotarsi di proprie sezioni e strutture per rendere superfluo l’apporto dei CC. Con Fanfani comincerà anche la lenta e progressiva confusione fra il partito e lo Stato che degenererà molti anni dopo nel fenomeno di Tangentopoli. I CC continueranno a esistere con una vita sempre più ridotta e nel 1965 riceveranno in un discorso di Papa Paolo VI l’esatta indicazione della loro natura e del compito previsto per loro dal supremo Magistero della Chiesa (14).
Papa Paolo VI, come già aveva fatto Papa Pio XII (15), li esorta a svolgere una funzione di cerniera fra l’attività del partito e la cultura politica, sforzandosi di operare sul corpo sociale per formare e informare il modo di pensare e di vivere della gente per quanto riguarda i problemi civili e politici, affrontati alla luce della dottrina sociale della Chiesa. È l’indicazione molto puntuale di una necessità che ancor oggi rimane attuale, soprattutto nel disorientamento dottrinale e operativo che ha investito il mondo cattolico dopo il crollo del Muro di Berlino e dopo Tangentopoli.
Ma ormai è troppo tardi e lo splendido discorso di Papa Paolo VI ha tutte le caratteristiche dell’orazione funebre dei CC.
A chi presenta i CC come espressione di un mondo esclusivamente orientato a difendere un sistema di potere che invece non li ha riguardati mai direttamente – per esempio Gedda rifiuta anche la candidatura al Senato nel collegio di Viterbo, dove era sorta la Società della Gioventù Cattolica Italiana con Mario Fani (1845-1869) e con Giovanni Acquaderni (1838-1922), offertagli dalla DC, proprio per non confondere l’azione dei CC con quella del partito democristiano -, gl’interventi dei Papi a loro rivolti e quello che i CC promuovono negli anni successivi al 18 aprile – soprattutto la campagna missionaria rivolta al ritorno alla fede dei comunisti e, in genere, di quanti tale fede hanno perduto, campagna promossa non direttamente dai CC, ma dall’ACI, però con lo stesso personale e con la stessa intenzione apostolica – dovrebbero aiutare a cogliere lo spirito missionario in questo organismo di apostolato laicale.
Ma nulla è riproducibile nella storia, soprattutto in un’epoca di grandi accelerazioni come quella attuale. Così come non sono riproducibili gli altri attori del 18 aprile, la DC e il PCI, altrettanto non riproducibili sono i CC. Ma mentre i primi due sono espressione di altrettante ideologie – e quindi felicemente finiti – i CC esprimono un’esigenza di cui la popolazione continua ad avere bisogno perché secondo natura: l’esigenza di una guida che sappia consigliare disinteressatamente – quindi senza un coinvolgimento personale a livello partitico -, che sappia – come dice Papa Paolo VI – assistere “[…] il nostro popolo tanto nella sua maturazione dottrinale, come nel suo retto comportamento nel campo delle civiche attività” (16).
Note:
* Relazione del dottor Marco Invernizzi, presidente dell’ISIN, l’Istituto per la Storia delle Insorgenze, riveduta e annotata, tenuta al convegno 1948-1998. Cinquant’anni di Repubblica fra le elezioni del 18 aprile, la trasformazione del PCI in PDS e la scomparsa della DC. La cultura politica italiana verso il terzo millennio, svoltosi a Milano, il 19 aprile 1998, promosso da Cristianità e da Alleanza Cattolica in collaborazione con la Regione Lombardia Settore Trasparenza e Cultura.
(1) Cfr. Giovanni Spadolini, L’opposizione cattolica da Porta Pia al ’98, Mondadori, Milano1994, pp. 373-401.
(2) Cfr. il mio L’Unione Elettorale Cattolica Italiana. 1906-1919. Un modello di impegno politico unitario dei cattolici. Con un’appendice documentaria, Cristianità, Piacenza 1993.
(3) Cfr. Ruggero Zangrandi, Il lungo viaggio attraverso il fascismo, contributo alla storia di una generazione, 2a ed., Feltrinelli, Milano 1963.
(4) Cfr. il mio 1914-1989. Ideologia marxista e prassi leninista dalla prima guerra mondiale alla caduta del Muro di Berlino, in Cristianità, anno XXIV, n. 260, dicembre 1996, pp. 13-21.
(5) Cfr. il mio Don Romolo Murri, don Luigi Sturzo e Alcide De Gasperi nella storia del movimento cattolico italiano, ibid., anno XXIII, n. 237-238, gennaio-febbraio 1995, pp. 7-11.
(6) Cfr. la mia Nota su Giuseppe Dossetti e sul dossettismo, ibid., anno XXV, n. 263, marzo 1997, pp. 3-6.
(7) Sulla mobilitazione delle associazioni cattoliche, cfr. Luigi Gedda, 18 aprile 1948. Memorie inedite dell’artefice della sconfitta del Fronte Popolare, Mondadori, Milano 1998; e Mario Casella, 18 aprile 1948. La mobilitazione delle organizzazioni cattoliche, Congedo, Galatina (Lecce) 1992. Dei CC manca un’adeguata ricostruzione storica; cfr. Gianfranco Maggi, voce Comitati Civici, in Dizionario Storico del Movimento Cattolico in Italia (1860-1980), vol. I/2, I fatti e le idee, Marietti, Casale Monferrato (Alessandria) 1981, pp. 207-209.
(8) Cfr. don Gianni Baget Bozzo, Preti e popolo, insieme fino alla vittoria, in Ideazione, anno quinto, n. 2, marzo-aprile 1998, pp. 74-78.
(9) Pietro Scoppola, Per una storia del centrismo, in De Gasperi e l’età del centrismo (1947 -1953). Atti del Convegno di Studio organizzato dal Dipartimento Cultura Scuola e Formazione della Direzione Centrale della D.C. Lucca, 4-6 marzo 1982, a cura di Giuseppe Rossini, Edizioni cinque lune, Roma 1984, pp. 23-51 (p. 23).
(10) L. Gedda, op. cit., p. 191.
(11) Cfr. Paolo VI, Allocuzione per il nono anniversario della incoronazione, del 29-6-1972, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. X, pp. 707-708 (p. 707).
(12) Cfr. Idem, Allocuzione agli alunni del Pontificio Seminario Lombardo, del 7-12-1968, ibid., vol. VI, pp. 1187-1189 (p. 1188).
(13) Cfr. Pio XII, I sommi postulati morali di un retto e sano ordinamento democratico. Radiomessaggio natalizio “Benignitas et humanitas” diretto ai popoli del mondo intero il 24 dicembre 1944 vigilia della Natività di Nostro Signore Gesù Cristo, Cristianità, Piacenza 1991.
(14) Cfr. Paolo VI, Discorso a dirigenti e collaboratori dei Comitati Civici, del 30-1-1965, in Insegnamenti di Paolo VI, vol. III, pp. 58-64.
(15) Cfr. Pio XII, Discorso a un gruppo di appartenenti ai Comitati Civici, del 14-4-1953, in Discorsi e Radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XV, pp. 61-64.
(16) Paolo VI, Discorso a dirigenti e collaboratori dei Comitati Civici, cit., p. 61.