di Massimo Introvigne
Alla Settimana Sociale di Torino dedicata alla famiglia, che si conclude domenica 15 settembre, nel dibattito dei gruppi di lavoro ha destato grande interesse la relazione del professor Gian Carlo Blangiardo, ordinario di Scienze statistiche all’Università di Milano-Bicocca, sui numeri delle famiglie in Italia.
Il mio amico e maestro Rodney Stark ama dire che in sociologia «chi non conta non conta»: chi non parte dai numeri di rado dice cose rilevanti. E la sociologia ai suoi albori ottocenteschi non si chiamava neppure sociologia: il nome usato era «statistica morale», a indicare fin da subito quanto fossero importanti i numeri, cui pure – certo – non bisogna fermarsi.
Oggi, però, siamo di fronte piuttosto a statistiche immorali. I numeri di Blangiardo sono inesorabili. Il numero di residenti in Italia aumenta, sia pure lentamente: dagli attuali sessanta milioni viaggiamo verso i 62 milioni previsti per il 2036. Tuttavia questo aumento è dovuto secondo Blangiardo «interamente» all’immigrazione: pur calcolando la riduzione nel numero d’immigrati dovuta alla crisi economica, nei prossimi cinquant’anni si prevede che essi salgano da quattro a tredici milioni mentre gli italiani presenti sul territorio scenderebbero di nove milioni.
Tra qualche decennio un abitante della penisola su cinque sarà uno straniero senza passaporto italiano, e molti detentori di passaporti italiani saranno immigrati nati all’estero e che avranno ottenuto nel frattempo la cittadinanza.
Benché, prosegue Blangiardo, il numero degli stranieri che nascono nei nostri ospedali sia «destinato a raddoppiarsi» nei prossimi cinquant’anni, questo dato «non sarà sufficiente a compensare il forte calo delle nascite italiane: -127mila tra il 2012 e il 2064 (-27%)», e già oggi il nostro tasso di natalità è il più basso del mondo. I bambini italiani diventeranno una specie in via di estinzione, ancorché nelle nostre strade vedremo ancora un certo numero di bambini: stranieri.
In compenso, vedremo tanti vecchi. Già nel 2041 «la fascia di età più rappresentata nella struttura degli italiani diventerà quella dei settantenni». Oggi ci sono in Italia più nonni che nipoti; dal 2028 ci saranno più bisnonni – cioè italiani con più di ottant’anni – che pronipoti, cioè bambini di età inferiore a dieci anni.
La frazione di Pil destinata alle pensioni dovrà anch’essa raddoppiare, non essendo ipotizzabili senza determinare sconvolgimenti sociali e politici un ulteriore aumento dell’età pensionabile o tagli alle pensioni di chi oggi già fatica a sopravvivere. Blangiardo ritiene che le statistiche correnti rispetto alla sempre maggiore difficoltà di sostenere le pensioni addirittura sottostimino il problema, e che sia un’illusione ottica quella d’immaginare che le pensioni dei nostri vecchi le pagheranno gli immigrati. Infatti non si considera che anche gli immigrati invecchiano, e che esiste quello che lo studioso chiama «invecchiamento importato».
I primi immigrati cominciano ad arrivare alla pensione. Tra poco saranno una massa di pensionati, che per di più «ha avuto un lavoro regolare solo in età matura», spesso con salario basso, così che i loro contributi certamente non pagheranno le loro pensioni, che dovranno essere sostenute da altri.
A causa dell’«invecchiamento importato» il numero di pensionati raggiungerà il suo vertice nel 2030, quando andranno in pensione i figli del baby boom degli anni 1960, ma sorprendentemente questo vertice «non sarà seguito dal declino che ci si attenderebbe per via della caduta della natalità sviluppatasi dalla metà degli anni ‘60». Infatti legioni di pensionati immigrati compenseranno la riduzione nel numero di pensionati italiani, mantenendo il numero totale di chi fruisce di una pensione costante.
Ma le cattive notizie non finiscono qui. Non bastasse la drastica riduzione, da record mondiale, del numero dei bambini – che, ha rilevato Blangiardo nella sua conferenza stampa, benché sia vietato dirlo deriva ampiamente dagli aborti – anche tra gli italiani che, superando un vero percorso a ostacoli, sono riusciti a nascere, molti rappresenteranno solo un costo per il sistema Paese – occorre mandarli a scuola e curarli quando si ammalano prima di entrare nel mondo del lavoro – ma non daranno poi alcun contributo al Pil perché se ne andranno all’estero.
Non si tratta di aneddoti – molti hanno un vicino il cui figlio è andato a lavorare a Londra o in America – ma di centinaia di migliaia di giovani, in gran parte laureati, che per mancanza di lavoro e soprattutto per sfiducia nell’Italia se ne vanno, e non torneranno più.
Tranne pochi ultraricchi, sono costretti a rimanere in Italia invece i pensionati, di cui i figli – che non sono mai nati, o sono pochi a causa del «modello del figlio unico» – si prendono sempre meno cura, così che deve occuparsene lo Stato, con ulteriori costi per i contribuenti. «Va altresì osservato – aggiunge Blangiardo – che la crescita degli ultra85enni soli è più intensa per la componente maschile (+102% per gli uomini rispetto a +62% per le donne), ossia proprio in corrispondenza di quei soggetti che spesso hanno meno capacità, o semplicemente meno consuetudine, nel vivere in autonomia».
Blangiardo si rende conto che queste statistiche sono pericolose, perché possono fare venire in mente a qualcuno «soluzioni non conformi alla dignità umana», cioè l’eutanasia, che proprio in questi giorni è rilanciata a gran voce dai Radicali. Ci sono troppi vecchi? Ammazziamone un certo numero. Ma, a parte ogni ovvia considerazione morale, la «soluzione» sarebbe di breve periodo. Presto arriveranno alla pensione altri vecchi, e altri ancora. Qualcuno proporrà di ucciderli tutti?
L’unica soluzione razionale – e morale – è il rilancio della famiglia. Blangiardo invita a segnarsi la data del 2031, quando in Italia il numero degli adulti che vivono da soli (8,7 milioni) supererà il numero delle famiglie. E quando 6,4 milioni di coppie di coniugi italiani non avranno figli, iniziando una pericolosa marcia di avvicinamento al numero di coppie con figli.
Mi capita spesso, in dibattiti pubblici, di spiegare che queste statistiche c’entrano molto con il dibattito in corso sulle unioni omosessuali. Se si diffondono più modelli alternativi di famiglia – non lo dico io ma i numeri – diminuisce il numero di famiglie. Se si diffondono più modelli alternativi di matrimonio, la confusione sociale sull’idea stessa del matrimonio fa diminuire i matrimoni.
Meno matrimoni significa meno figli. Trovo quasi sempre qualche cortese oppositore che si alza e, con un sorrisetto ironico, mi fa notare che una donna non sposata è altrettanto capace di fare figli di una donna sposata. Di norma ringrazio l’interlocutore per la straordinaria rivelazione – senza di lui, gli dico, non ci sarei mai arrivato – ma gli spiego anche che sto parlando d’altro. Le donne non sposate hanno la stessa possibilità biologica di fecondità delle donne sposate. Ma hanno un tasso di fecondità molto più basso. Lo dicono i numeri, in tutto il mondo, e non c’è ideologia che riesca a cambiarli.
E il dato statistico non è poi così sorprendente. Fare un figlio non è un semplice fatto biologico. Senza prospettive di stabilità e sicurezza per allevarlo ed educarlo, è più difficile che una donna decida oggi d’intraprendere quest’avventura, ed eventualmente resista alle sirene dell’aborto.
Se non aumentano le nascite l’Italia muore. Muore per tutti, cattolici e laicisti, credenti e non credenti, perché saranno i portafogli di tutti a doversi aprire per mantenere legioni di pensionati, italiani e immigrati, e fare fronte a tante crisi economiche determinate dalla denatalità. Ma l’unico modo di far aumentare le nascite è scegliere – nella politica, nella cultura e anche nella Chiesa – la famiglia. Quella fondata sul matrimonio su un uomo e una donna. Altro che mettere in discussione il matrimonio e pensare a introdurre modelli alternativi!