Articolo pubblicato su Avvenire
di Antonio Gaspari
Negli anni ’70 si disse che saremmo stati 8 miliardi nel 2000. Negli anni ’80 la previsione si ridusse a 7 miliardi. Agli inizi degli anni ’90 si parlò di sei miliardi e mezzo. Ora sappiamo che ad ottobre di quest’anno raggiungeremo il numero di 6 miliardi.
La bomba demografica da tanti paventata non è mai esplosa. I Paesi europei, Italia e Germania in particolare, stanno anzi affrontando un grave inverno demografico: pochi bambini e un numero di anziani sempre più rilevante.
In uno studio pubblicato dall’ultimo numero della rivista «Il Mulino», Antonio Golini – direttore del Dipartimento di demografia della Sapienza di Roma – ha scritto che «l’Italia avrà un calo davvero sensibile, con un tasso medio annuo (-2,2%) molto forte». Ma «una tendenza simile si avrà per l’Unione europea nel suo complesso, sia pure con intensità minore, e per un buon numero di Paesi centro-meridionali, con particolare riferimento a Spagna (-2,1%) e Germania (-1,1%); anche in Europa orientale si registrerà un calo non trascurabile della popolazione giovane in età lavorativa (-11% di variazione totale)». Mentre «Medio Oriente e Nord Africa vedranno rallentare vistosamente il ritmo di crescita che le ha caratterizzate nei passati vent’anni: da tassi del 3.0-3,3% all’anno passeranno a tassi dell’1,8-1,9%».
Eppure, nonostante l’evidenza di questi dati, alla recente Conferenza dell’Aja «Cairo +5», il Fondo per le Nazioni Unite per la popolazione ha continuato a chiedere ingenti fondi per ridurre il numero delle nascite. La questione è controversa: siamo troppi o troppo pochi? Risponde lo stesso Golini.
Professore, a distanza di 25 anni la bomba demografica si è rivelata una preoccupazione esagerata. Le previsioni catastrofiche del Club di Roma e dei neomalthusiani sembrano errate anche nei contenuti. Molti parlano di inverno demografico. Qual è la sua opinione a riguardo?
«La bomba demografica si è rivelata esagerata non tanto nelle dimensioni della crescita demografica, che era stata prevista abbastanza correttamente, quanto nell’inaccuratezza delle previsioni circa il consumo delle risorse e il pericolo della scarsità alimentare. Benché la popolazione mondiale sia cresciuta in maniera formidabile, oggi globalmente considerata, vive più a lungo e in condizioni migliori come mai nella storia dell’umanità».
L’ultimo rapporto Unfpa denota un crescente squilibrio tra la crescita della popolazione anziana in rapporto al numero dei giovani. Non è forse giunto il momento di ripensare alla politica di controllo delle nascite?
«Il problema è molto complesso, perché non c’è dubbio che più veloce è il decremento delle nascite più rapido risulta l’invecchiamento delle popolazione. Si tratta di vedere quale potrebbe essere la strategia migliore per gestire questo fenomeno, considerando le differenze tra i paesi più industrializzati e quelli in via di sviluppo. In questi ultimi avremo nei prossimi decenni un’enorme crescita dei giovani in cerca d’occupazione.
Nella sola India la popolazione in età da lavoro crescerà di circa 230 milioni di persone in vent’anni. Mentre in gran parte dei Paesi industrializzati avremo una scarsità di giovani in proporzione al numero di anziani. In alcuni Paesi sviluppati il calo delle nascite è stato così rapido e intenso che ha portato e sta portando un invecchiamento difficilmente sostenibile. L’Italia per esempio è il Paese con la più alta percentuale di anziani.
Una situazione simile la troviamo in Giappone, Spagna, Lettonia, Bulgaria e Germania. In questi Paesi abbiamo un eccesso di bassa fecondità, siamo infatti intorno ad una media di 1,1-1,2 figli per donna. Un tasso enormemente più basso della crescita zero, che è intorno a 2 figli per donna. Se si vuole tentare di far risalire almeno un poco la fecondità dovremo pensare come eliminare le penalizzazioni di ordine economico, organizzativo, psicologico e culturale – che oggi hanno le donne e in generale le coppie che vogliono avere un figlio in più.
Stati Uniti e Gran Bretagna hanno una media di figli per donna di 1,7-1,8. Questo livello di fecondità sembrerebbe garantire una certa stabilità, perché pur essendo inferiore alla crescita zero è compensato dall’allungamento della durata della vita»
Gli economisti, soprattutto quelli dei Paesi sviluppati aderenti all’Ocse, si sono molto preoccupati dello squilibrio tra pensionati e giovani lavoratori. I sistemi pensionistici rischiano la bancarotta. Alcuni propongono di accelerare l’integrazione dei giovani immigrati, mentre i demografi sembrano più favorevoli a una politica di sostegno alle famiglie e alla procreazione. Lei che cosa proporrebbe
«Come ha spesso sottolineato anche il Governatore della Banca d’Italia, il fattore demografico è di grande importanza in questo campo. Le proiezioni ci dicono che nel 2030-2035 l’italia potrebbe essere il primo Paese al mondo in cui il numero i ultrasessantenni supererà le persone da 20 a 60 anni, cioè la popolazione in età lavorativa. E’ chiaro che il sistema non sarà più sostenibile. Anche perché considerando i disoccupati, i malati, le casalinghe, la forza lavorativa effettiva è solo il 70% di quella in età lavorativa.
Da questo punto di vista l’immigrazione è sicuramente necessaria e conveniente. Il punto da chiarire è quanta immigrazione si possa avere fisiologicamente ogni anno. Abbiamo assorbito circa 50.000 immigrati l’anno negli ultimi dieci anni. Questo numero ha giovato all’economia del nostro Paese. Pensiamo a che cosa sarebbero il settore della pesca, l’agricoltura, e alcuni settori industriali, specie nel Nord-est, se non ci fossero stati gli immigrati.
Per di più nelle grandi città gli immigrati assicurano il lavoro domestico e parzialmente anche la cura degli anziani. Questo è un contributo formidabile perché consente alle donne di andare a lavorare fuori casa e al sistema sanitario nazionale di risparmiare un bel po’ di soldi, perché se tanti anziani non autosufficienti non fossero assistiti a casa andrebbero a gravare sulle strutture pubbliche. Se però il numero degli immigrati supera la cifra di 80/100.000 all’anno ecco che potrebbero esserci degli squilibri sociali.
Il flusso degli immigrati dev’essere graduato anche rispetto alla capacità – sociale, psicologica e culturale – di accettazione della popolazione italiana. Dal punto di vista previdenziale bisogna poi considerare che gli immigrati non possono coprire gli squilibri del sistema previdenziale: la pensione media di un italiano è infatti ben più alta del contributo medio che possono fornire i lavoratori immigrati. L’immigrazione è necessaria e conveniente, ma non può essere considerata la panacea dei nostri problemi».
La teoria malthusiana secondo cui alla crescita della popolazione corrisponde direttamente un impoverimento della società sembra smentita dai fatti. Sembra anzi vero il contrario: molti autorevoli economisti e premi nobel come Gary Becker sostengono che non c’è sviluppo economico senza crescita demografica. Anche l’ultimo rapporto dell’Undp riporta quello che è stato chiamato il «miracolo di Machakos» in Kenya, dove solo dopo che la popolazione è quintuplicata i raccolti di grano sono cresciuti di oltre sei volte. Sono solo eccezioni?
«Si tratta di una questione antichissima. Negli anni Venti e Trenta in Italia e all’estero si è sviluppata una vasta letteratura sul cosiddetto “optimum di popolazione”. Dopo tante discussioni si arrivò a concludere che non esiste un dato certo perché è troppo legato a tanti altri fattori, quali la composizione sociale, la rilevanza economica e soprattutto lo sviluppo tecnologico.
Allora il dibattito si è spostato sul calcolo di un massimo e un minimo di popolazione per un determinato tipo di territorio. Il massimo è stato superato dalla realtà, esempi come l’Olanda e Hong Kong hanno dimostrato che in Paesi ricchi ci può essere una densità di popolazione molto elevata.
Quanto al minimo sembra evidente che se si scende sotto una certa densità di popolazione non si raggiunge la “massa critica” per creare un mercato, avere una produzione, favorire gli scambi anche sociali e così via. L’unico esempio vero di grande crescita demografica e di grande sviluppo economico è quello degli Stati Uniti, che però mi sembra un caso particolare»
Molte persone credono ancora che una crescita rapida della popolazione sia incompatibile con una sana gestione dell’ambiente. Ma le zone più inquinate e degradate della Terra sembrano quelle con la minore densità demografica. E la natura non migliora il suo stato senza il progresso delle attività umane. Lei è già intervenuto su questo tema in occasione del convegno Population and environment in developed society. Può illustrarci il suo punto di vista?
«Ho studiato la realtà italiana dell’alta collina e della montagna, dove c’è stato un fortissimo spopolamento e un altrettanto rapido invecchiamento della popolazione. Questo significa che le risorse umane sono diminuite in maniera eccezionale sia dal punto di vista numerico che qualitativo. La nostra montagna è antropizzata, non è un ambiente selvaggio come quello dell’Amazzonia; per secoli l’uomo se n’è preso cura e, dal momento in cui sono calate le risorse umane, la montagna è stata trascurata e si è arrivati in molte aree ad un pericoloso degrado ambientale».