di giovedì 17 gennaio 2002
Dalle comuni medievali ai centri Sociali,
una irresistibile ascesa politica all’insegna di odio, invidia e tornaconto
Origine e obiettivi degli Antiglobal, consumisti autentici e rivoluzionari per burla
Il Manifesto pubblicava il 16 gennaio 1996 la seguente lettera: «Sono un venticinquenne privilegiato dell’hinterland milanese; ho potuto studiare, ho una famiglia mediamente benestante. Eppure il 10 settembre ero in piazza Cavour e quando (finalmente) è scoppiato l’odio, fazzoletto sul viso, ho caricato gli sbirri provando una gioia e un senso di liberazione mai provato prima». Illuminato da questa «gioia di odiare» il giovane scrivente, che si firma Marco Vite da Monza teorizza su un metodo per liberarsi dalla «rassegnazione collettiva» attraverso la manifestazione dell’odio.
E lo affida ai Centri Sociali: «Vorrei che i Centri Sociali riuscissero a trasformare il nostro in forme permanenti di conflitto sociale». Questo auspicio è diventato realtà a Genova tra il 19 e il 22 luglio 2001: quando decine di migliaia di contestatori antagonisti, egemonizzati dai Centri Sociali, hanno “liberato l’odio” in violentissimi fatti di guerriglia urbana e devastazioni gratuite. A Genova, nei moti contro il vertice del G8, si sono poste le basi per trasformare migliaia di odii corpuscolari, individuali, in “forme permanenti di conflitto”.
Il valore di una bandiera
Carlo Giuliani, il ventenne ucciso a Genova dal carabiniere che stava cercando di uccidere, avrebbe potuto scrivere la lettera apparsa sul Manifesto cinque anni prima. Anche lui “privilegiato”, iscritto all’università, figlio di un sindacalista della CGIL benestante, con villetta al Righi, quartiere-giardino, Anche lui nel suo giorno fatale, calato il passamontagna sul viso, ha “caricato gli sbirri” con una violenza liberatoria da posseduto. Si aggiunga che Carlo Giuliani, il figlio benestante, da tempo s’era intruppato tra i “punk-bestia”, chiedeva l’elemosina accompagnato da una torma di cani randagi, frequentava i Centri Sociali della sua città.
Al suo funerale, la sua bara (glorificata e accompagnata da pugni chiusi) era coperta da una bandiera: ma non la rossa bandiera del comunismo né la nera dell’anarchia, bensì quella della Roma, la squadra di calcio preferita. Agghiacciante particolare che la dice lunga sui “valori” (perché una bandiera è sempre un simbolo di valori) che hanno portato Carlo Giuliani a trovare la morte. [ … ]
Questo tipo umano, che a Genova ha trovato il pretesto permanente per “liberare l’odio” di cui ha bisogno per illudersi di esistere, è stato nutrito, allevato e coltivato nei Centri Sociali per anni. E dominerà, se non la storia, la cronaca nera per molti anni a venire. Per capire come mai, dobbiamo prima domandarci: che cosa sono i Centri Sociali? Quale tipo d’umanità radunano?
Un testo «di lotta dei circoli proletari giovanili di Milano» intitolato “Sarà un risotto che vi seppellirà” così rievoca la nascita dei primi Centri Sociali: «Anche le panchine erano stanche di sopportarci; dai bar ci cacciavano perché drogati, capelloni, ma soprattutto perché si consumava poco”. C’era la sede di Lotta Continua, ma era troppo stretta. Non fisicamente, ma non la sentivamo nostra. E poi sempre scazzi con i dirigenti, con gli operai”, lì dovevi sorbirti menate moralistiche, o facevi il missionario: aiutavi le vecchiette ad autoridursi le bollette della luce, vendevi il giornale, attacchinaggi ecc. Alla lunga, ti chiedevi che rapporto c’era coi tuoi bisogni di vita. Allora preferivi stare al freddo, sulle panchine … Le panchine però non bastavano più, perché c’erano sempre più giovani qualsiasi che s’incontravano lì, non più solo per droga. Lentamente è maturata la decisione di fare qualcosa di più, finalmente qualcosa: si è troppo giovani per accettare di marcire. Poi c’era uno che si bucava, stava male e noi volevamo fare qualcosa, perché era uno di noi e poteva accadere a chiunque di noi di scivolare nell’ eroina. Con questa coda di paglia, e con tanta voglia di fare qualcosa, di contare, di affermare i propri bisogni, si è passati all’occupazione di una chiesa sconsacrata. E’ bellissimo occupare chiese».
Non occupabili cronici
Il tipo umano che appare in filigrana in questa autodescrizione, e che s’è agglutinato nei Centri Sociali (anche il più noto, il milanese “Leoncavallo”, nacque nel 1975) non è affatto nuovo. La frangia antropologica qui descritta, se non è mai emersa davvero nella luce della Storia dell’Occidente (perché, come vedremo, semplicemente non è in grado di farlo) ha premuto, presenza costante per secoli, nell’area crepuscolare che s’addensa ai margini della storia. Sempre eguale a se. L’autodescrizione datata 1977 è un ritratto di sintomi psicologici già comparsi, e notati in epoche assai lontane. Capelloni, drogati, che “consumano poco” denota vite informi (incapaci di darsi una “forma”), subpersonalità incompiute o malferme, inerti e insieme irrequiete.
Non stupirà apprendere, come c’informa un’altra indagine su questo ambiente; che molti dei giovani frequentatori dei Centri Sociali sono (in Lombardia!) senza lavoro o lavoratori senza qualifica nella “Piccola fabbrica”, vittime predestinate del precario e del lavoro nero”. Più che disoccupati, dei non-occupabili. Le oscure sette millenarista che nel Medio Evo esplosero e misero a sacco intere regioni d’Europa reclutavano immancabilmente dagli “irregolari” di questo genere: marginali per incapacità a reggersi all’interno della società, a rispondere alle esigenze minime del vivere comune. I loro capi erano personalità altrettanto borderline.
Frà Dolcino, figlio illegittimo di un prete, nel 1300 stava per prendere i voti, ma dovette fuggire perché sorpreso a rubare i soldi del suo maestro. Sappiamo che, riconosciuto capo della setta dei “fratelli apostolici” predicò l’abolizione delle leggi civili e l’instaurazione di una società spontanea, fondata sul puro amore. Per questo motivo, propugnò la collettivizzazione delle terre, e anche delle donne (nell’amore tutto andava messo in comune).
Nel 1304, raccolti attorno a se cinquemila marginali, fissati, vaneggianti, maniaci, fondò tra le valli alpine una comune dove mettere in pratica i suoi principi. La comune, incapace di produrre alcunché, campò per tre anni depredando le campagne circostanti, dunque di mero parassitismo banditesco: un Centro Sociale ante litteram. [ … ] Il Giardino delle Delizie
«C’era la sede di Lotta Continua, ma non la sentivamo nostra. Lì dovevi sorbirti menate moralistiche o facevi il missionario», si lagnano i primi “autonomi”: «alla lunga ti chiedevi che rapporto c’era coi tuoi bisogni di vita». Questo tipo umano, privo di unità interiore, di volontà e fermezza, semplicemente non può dedicarsi a un progetto qualunque, che in qualche modo lo trascenda. E’ inutilizzabile anche per la Rivoluzione, perché vive ossessionato dalla necessità di soddisfare immediatamente, i “suoi bisogni di vita”.
Questa frangia antropologica non sa far altro che obbedire ai suoi impulsi primari: voglia di godere, fame, paura, odio. Non solo socialmente, ma in modo più radicale (cioè come gli animali) essa vive nel bisogno. La sola utopia che concepisce è entrare nel Giardino delle Delizie dove unica norma è il godere, nel Paese di Cuccagna dov’è l’abbondanza senza lavoro, nel Paradisus Voluptatis che Bosch, seguace dei “fratelli del libero spirito” dipinse come luogo dei piaceri soddisfatti.
Del resto, nelle sette medievali proliferate dalla gnosi catara non si facevano quasi altro che “festini”, o “riti” consistenti in unioni sessuali, spesso contro natura. Feste che in Italia si chiamavano “barilotti”, mentre in Germania i luoghi delle orge erano chiamati “paradisi”. Nei Centri Sociali la parola d’ordine è la «lotta per il diritto alla festa».
Che costoro siano giovani (categoria dell’irresponsabilità, che può prolungarsi smisuratamente fin oltre i trent’anni) e che a loro si uniscano sempre più giovani “qualsiasi” (ossia non ideologizzati) tutti sull’orlo della tossicomania, «consapevoli che poteva accadere a ciascuno di noi di scivolare nell’eroina», può stupire solo chi sia accecato dall’errore pedagogico illuminista: il quale presuppone o finge nell’adolescente una “personalità”, strutturata, “razionale” per giunta, consapevole, libera nei giudizi.
La verità è che il “giovane” è per natura, ma si spera transitoriamente, una personalità vaga, fluttuante, marginale come quella che da secoli si fa arruolare nelle sette eversive millenariste. Il soggetto che seguì Frà Dolcino, si fece anabattista e partecipò a barilotti e saccheggi, è lo stesso che oggi si arruola nell’insurrezione permanente della nuova anarchia “antagonista”, entrambi si caratterizzano per l’incapacità di unificare gli “io” plurimi e temporanei che li abitano (come Carlo Giuliani, al tempo stesso “bravo ragazzo” e punk-bestia, “studente universitario” e tifoso della Roma).
Questi “io plurimi” sono nutriti dalle forze profonde dell’inconscio in tempesta ormonale, da impulsi primari, da micro-ossessioni o fissazioni deboli, e rendono il soggetto incipiente che li porta in sé irrequieto, vagante, incapace di costanza e coerenza, dunque “ribelle” e al tempo stesso invincibilmente gregario. Folle di marginali e di psicolabili restando in modo permanente in questo stadio, che è proprio appunto del “giovane” adolescente.
La sola differenza è che nel giovane la mancanza di unità interiore e fisiologica, in qualche modo “normale”. [ … ]
L’identità del branco
Chiunque ha un figlio adolescente si domanda perché egli venga travolto in modo a volte ridicolmente, dolorosamente coattivo da “mode giovanili” ricorrenti; perché di colpo voglia vestirsi in un certo modo, “come tutti i ragazzi della mia età”, e non in un altro; e come soffra se glielo si impedisce; e come gli piaccia una certa musica che piace a tutta la sua generazione; e come si comporti in modo stupidamente gregario, obbedendo all’istinto della banda di eguali.
La risposta è: perché, non essendo ancora formato e maturo, non è capace di reggere lo sforzo di vivere in proprio. Avere personalità è, essenzialmente, saper reggere il disagio della solitudine radicale, sopportare l’atmosfera psichica anonima del momento. Al punto – come sa chiunque ricordi la sua adolescenza – da sentire come una disperata privazione di se l’impossibilità, o il divieto dei genitori, di agire “come tutti i miei compagni” di parlare come loro, di frequentare i luoghi che frequentano “tutti”, di adorare gli idoli del gruppo giovanile, e soprattutto di indossare i jeans, le magliette e le scarpe Nike che “danno identità” ai suoi coetanei, beninteso un’identità collettiva, di gruppo sociale, di banda. Ciò è esattamente il contrario della spontaneità e della originalità, che pure il giovane persegue perdutamente, narcisisticamente.
Quanto più la società incita il giovane a essere “libero”, tanto più egli sente necessario adeguarsi mimeticamente al gruppo coetaneo: perché, quell’età, sentirsi “libero” significa sentire con tutta l’angoscia il vuoto, il nulla del suo io incipiente.
Narcisismo patologico
La pedagogia contemporanea, che invita gli scolari delle elementari a “esprimere il proprio io” o addirittura la “propria creatività”, non fa che fissarli in un narcisismo patologico: chi non ha (ancora) nulla da esprimere, finisce per esprimere violenza chimicamente pura. Chi viene dichiarato “libero” senza avere ancora le qualità per esercitare la libertà, viene gettato nel vuoto: e nel vuoto psicologico nasce l’aggressività. Che questo vuoto (pieno d’angoscia, di dubbi sulla propria adeguatezza) sia oggi spesso riempito dalla droga è quasi inevitabile vista la valorizzazione che la pedagogia criminosa del nostro “illuminato” ed edonista conferisce al “provare emozioni”.
Bisogna vedere un diabolico sarcasmo, un’atroce freddura satanica nel fatto che le droghe spacciate ai nostri ragazzi abbiano nomi che alludono alle alte cose di cui vengono defraudati: eroina al posto dell’Eros e dell’Eroe, ecstasy come surrogato dell’Estasi ascetica, crack al posto dello schianto dell’io che esce da se stesso nel sacrificio estremo di sé.