Sviluppo economico e Paesi asiatici
di Ettore Gotti Tedeschi
L’occidente, già obbligato a comprare petrolio in Medio oriente, in mancanza di reazioni strategiche opportune, si rivolgerà sempre di più all’Asia per investire, per produrre – ma anche per comprare – prodotti. Dal punto di vista economico, in questo modo si sta verificando un’opportuna ridistribuzione di ricchezza fra nazioni occidentali e orientali come a suo tempo avvenne fra le classi sociali. È una ridistribuzione che dovrebbe evitare una possibile lotta di razze, quasi una variazione moderna della lotta di classe.
Ma quali scenari si stanno preparando come effetto dello spostamento della ricchezza a est? La ricchezza finanziaria di un Paese può nascere da vantaggi naturali dati dalla disponibilità di beni utili al mercato globale, e di conseguenza opportunamente esportabili.
La disponibilità di petrolio, per esempio, sta fornendo una liquidità esorbitante ai Paesi mediorientali, che non viene sostanzialmente ridistribuita al loro interno per creare ricchezza diffusa, ma che invece è utilizzata soprattutto quale strumento finanziario. E questo sia per effettuare investimenti strategici in Paesi esteri, sia per fornire capitali a questi stessi Paesi, sempre più gravati da debiti accumulati per le importazioni petrolifere.
Nei Paesi asiatici invece la ricchezza finanziaria viene prodotta grazie alla crescita economica conseguente al processo di globalizzazione dei mercati, alla esportazione dei prodotti finiti e allo sviluppo dei mercati finanziari interni.
Con il trascorrere del tempo i cosiddetti Paesi emergenti, grazie alla crescita delle esportazioni di materie prime e di prodotti, sono diventati fornitori di capitali al resto del mondo. Oggi più del 35 per cento dei capitali raccolti nelle borse internazionali provengono dai Paesi emergenti e le società cinesi quotate hanno raccolto nel solo 2006 più capitali di tutte le società dell’eurozona.
Sempre nel 2006 i Paesi emergenti hanno investito all’estero più di un trilione di dollari, un terzo dei quali solo da parte della Cina, che ha investito all’estero più del doppio di quanto i Paesi stranieri abbiano investito nel suo mercato (383 miliardi di dollari contro 166). Sembra dunque chiaro che i Paesi emergenti stiano investendo anche per assicurarsi il controllo delle materie prime necessarie allo sviluppo e per presidiare i settori economici strategicamente più importanti dei Paesi cosiddetti maturi. A partire dall’Europa.
L’euro forte dovrebbe scoraggiare gli investimenti non europei nell’Europa stessa. Invece si stima che ben il 40 per cento dei capitali investiti nelle borse europee in azioni sia straniero, contro il 14 per cento negli Stati Uniti e il 12 per cento in Cina. A tutto il 2006 gli investitori esteri hanno immesso nella cosiddetta eurozona 3.500 miliardi di dollari, molto di più che negli Stati Uniti (dove sono stati investiti 2.770 miliardi), in Asia (540 miliardi), o in America Latina (320 miliardi).
È inevitabile a questo punto chiedersi di chi sia il mercato europeo. Ma soprattutto se la colonizzazione mediorientale e asiatica di cui siamo testimoni resti solo finanziaria o se non sia destinata a evolvere verso la diffusione di modelli culturali in un’Europa che manca di valori forti. Di chi sarà poi il vecchio continente?
(A.C. Valdera)