Da qualche tempo è vivo nella Chiesa il dibattito su un particolare aspetto del Concilio Vaticano II: se esso sia in continuità o in rottura con il Magistero precedente. Particolarmente interessati alla diatrìba da una parte i progressisti che, al seguito della “Scuola di Bologna”, predicano la discontinuità affermando che sia una benedizione per la Chiesa e per il suo auspicato rinnovamento, dall’altra gli ultra tradizionalisti che, con varie sfumature ma sempre affermando una supposta discontinuità, se ne dolgono rifiutando questo “nuovo corso”.
A questi due aspetti del “discontinuismo” hanno reiteratamente risposto chiaramente i pontefici, dal venerabile Paolo VI in poi, proponendo sempre una interpretazione dei documenti conciliari e degli atti magisteriali in perfetta continuità con tutto l’insegnamento precedente. Una parola decisiva l’ha poi detta il Papa Emerito Benedetto XVI coniando le espressioni “ermeneutica della riforma nella continuità” ed “ermeneutica della discontinuità e della rottura”, causa quest’ultima di confusione nella Chiesa.
Alleanza Cattolica, da sempre eco fedele del Magistero, ancora una volta ribadisce la sua fedeltà contro ogni tentazione anticonciliarista e discontinuista proponendo questo articolo di Massimo Introvigne uscito oggi sul quotidiano “il Foglio” con il titolo “Capisco il disagio, ma nella Chiesa o si cammina con il Papa o si va verso lo scisma“. Va precisato che non si intende sostenere che è a rischio di scisma il disagio nei confronti di Papa Francesco ma l’atteggiamento di chi, per arruolare truppe, usa questo disagio per promuovere una contestazione anticonciliarista che si era già manifestata nei confronti del beato Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI, degenerando in riduzionismo sul Magistero in genere.
il Foglio, 11 ottobre 2013
di Massimo Introvigne
Da sociologo, ho letto con interesse l’articolo di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, come spia di disagio rispetto a gesti e atteggiamenti di Papa Francesco che anch’io ho rilevato in settori minoritari ma non irrilevanti nella Chiesa. Assunto e trasformato in riflessione e cultura, questo disagio può essere utile, e credo che lo stesso Papa Francesco lo preveda e ne tenga conto nella sua visione di una Chiesa dove, come ama spiegare, l’unità non va confusa con l’uniformità.
Il disagio non va però confuso con il rifiuto del Magistero ordinario, che invece porta verso lo scisma. La tesi potrà sembrare forte, ma la si capisce con un passo indietro. Quando, a partire almeno dal 1968, il venerabile Paolo VI cercò di prevenire certe derive del post-Concilio, i progressisti rifiutarono di seguirlo sostenendo che i pronunciamenti del Papa non erano infallibili e costituivano semplici indicazioni pastorali, da cui si poteva dissentire rimanendo buoni cattolici.
Continuarono con il beato Giovanni Paolo II. Il cardinale Ratzinger e il cardinale Scheffczyk replicarono affermando non che tutto il Magistero è infallibile – una solenne sciocchezza, di cui non conosco seri sostenitori – ma che non si può essere cattolici accettando solo i rarissimi pronunciamenti infallibili dei Pontefici: per stare nella Chiesa occorre camminare con i Papi e farsi guidare dal loro Magistero quotidiano. Fuori di questo cammino stretto c’è la strada larga che porta allo scisma.
È un rischio – per usare categorie politiche non del tutto pertinenti, ma che aiutano a capire – a sinistra. Ma è un rischio anche a destra, dove – naturalmente a proposito di testi diversi da quelli criticati dai progressisti – si cominciò a ripetere la stessa stanca canzone secondo cui, per esempio, certi documenti del Concilio Ecumenico Vaticano II non sono infallibili e sono meramente pastorali, per cui potrebbero essere tranquillamente ignorati o rifiutati.
Benedetto XVI cercò di mettere ordine con la sua famosa proposta della «ermeneutica della riforma nella continuità», che invitava ad accogliere lealmente gli elementi di riforma del Concilio interpretandoli però non contro il Magistero precedente ma tenendo conto di questo. La proposta fu rifiutata a sinistra, e spesso capita male a destra.
Qui si plaudì alla continuità dimenticandosi della riforma, e si credette che il Papa autorizzasse ad accogliere, del Vaticano II, solo quanto avesse presentato in modo nuovo («nove») quanto era già stato insegnato prima, rifiutando invece quanto era in effetti «novum», nuovo, non – secondo Benedetto XVI – in contraddizione con il Magistero precedente ma certo non riducibile a questo. Non era così.
Questa «destra» interpretò il discorso di commiato di Papa Ratzinger ai parroci romani del 14 febbraio 2013 come un’ammissione che l’ermeneutica della riforma nella continuità era fallita. Mentre quello che era fallito era il tentativo di usare Benedetto XVI per rifiutare il Concilio. Rivendicando orgogliosamente il suo ruolo di teologo al Concilio in quella «Alleanza renana» dei padri conciliari tedeschi, francesi, belgi e olandesi che proposero alcune delle principali riforme del Vaticano II, Papa Ratzinger chiariva, al momento di lasciare il ministero petrino, che nulla nel suo pontificato autorizzava a rifiutare la riforma in nome della continuità.
È possibile che Papa Francesco avvii ulteriori riforme nella Chiesa, che il cattolico fedele dovrà accogliere con docilità e insieme cercare di leggere non contro gli insegnamenti dei precedenti Pontefici ma tenendo conto di essi. Nell’enciclica «Caritas in veritate» Benedetto XVI ha chiarito che l’ermeneutica della «riforma nella continuità» non riguarda solo il Vaticano II ma tutta la vita della Chiesa.
La formula di Benedetto XVI sarà di grande aiuto per metabolizzare il disagio, e per trasformarlo in una voce utile nella grande sinfonia della Chiesa. Costruire la continuità come rifiuto della riforma, o dichiarare di voler seguire il Papa solo nei suoi pronunciamenti infallibili – un paio al secolo -, confinando tutto il resto in una sfera del «fallibile» che potrebbe essere ignorata, porta invece, magari insensibilmente, allo scisma.