di Claudia Mancini
Lo scorso 2 febbraio, su laRepubblica.it, è stato pubblicato un articolo dal titolo «Meri, Franci e il semino donato. Storie allegre di “famiglie possibili”». In questo caso, più che mai, può valere la sintetica – quanto esaustiva – frase: “L’articolo si commenta da sè”.
La prima favola pubblicata è stata quella che raccontava la loro storia, dal titolo «Piccola storia di una famiglia»: «Meri e Franci si amavano e volevano una famiglia. Ma per fare un bimbo ci vogliono un uomo e una donna: la donna ha l’ovino nella pancia e l’uomo mette il semino. Meri e Franci erano due donne, avevano solo ovini.
Mancava il semino! Franci è andata in Olanda dove dei signori gentili donano i semini, per chi non ne ha, o per chi ne ha che non funzionano». Nel suo primo anno di vita, anche con la collaborazione di un disegnatore di fama come Altan, la Stampatello ha pubblicato ben cinque titoli, illustrando tutte le «famiglie possibili»: una famiglia di conigli eterosessuali, quella di due mamme gatte, di un ippopotamo single, di canguri adottivi, di pinguini gay e di cani multicolori. Tutte entreranno presto in uno spettacolo teatrale in una scuola di Torino, oltre che in un’applicazione per iPad.
L’intervista – «Perché Maria Silvia Fiengo e Francesca Pardi hanno deciso di fondare una casa editrice?» Le donne raccontano che, quando la loro primogenita – Margherita – è arrivata in prima elementare, «si è trovata ad affrontare la curiosità dei suoi compagni» che, abituati a «un unico, inderogabile, modello di famiglia», chiedevano sbigottiti – «Perchè due mamme?» -. Da questa curiosità, è nata la volontà di scrivere una favola che chiarisse – ai figli di famiglie tradizionali – tutti i modi di «coniugare le relazioni parentali».
La difficoltà, poi, di trovare una casa editrice, le ha spinte a fondarne una con moltissimi sacrifici, perché hanno «un menage eroico, una quotidianità frenetica»: scrivono di sera, tra le dieci e l’una, quando i bambini dormono, per finanziarsi rinunciano alle vacanze ed economicamente sono in ginocchio. Sono soddisfatte, però, perché, con la loro casa editrice, possono parlare ai ragazzi di «omogenitorialità, omoaffettività, della famiglia e di tutte le sue declinazioni»: «Abbiamo in testa il bambino che legge, a cui bisogna dire le cose come stanno, con un linguaggio diretto e chiaro. Vogliamo mostrare come è il mondo, e veicolare il messaggio che non esiste un unico modello, e che la bellezza e la ricchezza della vita stanno nella varietà. Obiettivo: parlare ai 100 mila minori in Italia che vivono con almeno un genitore omosessuale, e a tutti gli altri per allargare i loro orizzonti, mostrare una realtà più ricca e varia, lanciare un messaggio inclusivo di apertura e tolleranza».
Le donne – nell’intervista – affermano di aver avuto, sia come madri che come editrici, «sorprese positive dal mondo cattolico che, pur essendo durissimo nei confronti dell’omosessualità e delle famiglie omogenitoriali, è abituato, nei fatti, a convivere con le contraddizioni». Anche la scuola ha mostrato di capire che i loro figli, «portatori di esperienze diverse», sono una ricchezza per ampliare gli orizzonti della classe: « I bambini sono molto ricettivi e si adeguano agli input che arrivano dagli adulti. Se crescono con l’idea che il mondo sia un posto ricco e vario, mostreranno apertura e curiosità. Se il modello che viene loro imposto è rigido e chiuso, rischieranno di diventare bulli».
L’intervista si chiude con le due mamme, e i loro quattro figli, «su un pulmino verde pisello – con grandi margherite disegnate ovunque e la bandiera della pace – direzione pranzo domenicale a casa dei nonni». Sì, perché – conclude il giornalista – la loro è una famiglia diversa, sicuramente «non ordinaria», ma, anche loro, «per molti versi, sono ancora molto tradizionali».
L’articolo si commenta da sé, dicevamo, ma vorremmo aggiungere qualche riflessione.
La “notizia”, in sintesi, ci vorrebbe far dire che, se ieri si cantava «per fare l’albero ci vuole il seme», oggi, invece, si deve – perché si può – raccontare la favola “per fare un figlio ci vuole un semino”. L’“intervista” ci vorrebbe far credere che, se ieri l’archetipo della famiglia era quello del “Mulino Bianco”, oggi, invece, si deve – perché si può – rappresentare anche la famiglia del “Mulino Bianco…Biologico”: «un ovino ed un semino», madre e padre in numero ed ordine sparso.
La “favola” delle “famiglie possibili” è la favola della famiglia per la quale, qualsiasi cosa può essere, deve anche essere.
Una delle più grandi mistificazioni dell’epoca moderna è quella che vorrebbe convincerci che abbiamo paura del diverso, dello straniero, del nuovo, del lontano, e che da questa paura deriverebbero varie forme di intolleranza o discriminazione. Non è vero. La “favola diabolica” di tutte le “famiglie possibili”, ci dice bene, invece, che ciò di cui la società moderna ha veramente paura, e ciò che rifiuta, è la Tradizione: il senso naturale, prima ancora che soprannaturale, l’originario senso comune sul quale si fondano le radici dell’umanità, la nostra identità originaria: «L’antico degrada in primitivo, tradizionale si identifica con reazionario, le radici assumono non più il significato positivo di un’identità che si riconosce in una tradizione, ma il significato negativo di un guscio rozzo che si chiude all’altro e disconosce ogni altro luogo, ogni altra tradizione e diversità fuori della propria. (Marcello Veneziani, Di Padre in figlio. Elogio della Tradizione, Laterza, Bari 2001, pg. 183).
Da tempo, ormai, la nostra società vive nel culto della tabula rasa. Azzerare il passato, modificare la natura umana, vivere l’ebbrezza dell’anno zero: non vogliamo più riconoscere alcun precedente, alcuna storia, alcuna memoria, alcun costume ereditato; ancor più nessun principio, nessuna origine, nessun ordine naturale verso cui orientare i cambiamenti, integrare il nuovo ed il progresso, fondandolo in ciò che già è.
Il prodotto antropologico di questo scompenso – scrive Marcello Veneziani nel suo saggio – è l’idiota globale: «l’individuo che vive la dimensione globale nel recinto della sua vita privata, una mente chiusa in un orizzonte sconfinato, un individuo che non conosce altro che il suo presente, e che lo vive nella dimensione dell’assoluto. L’idiota globale è un barbaro che vive completamente scisso da ogni continuità con la comunità umana, come se fosse primordiale: esaurisce il proprio orizzonte nella propria vita e nel proprio io, convinto che la storia nasca e finisca con il proprio sé».
Scriveva Pessoa, a riguardo: « […] apparteniamo ad una generazione che ha perduto tutto il rispetto per il passato ed ogni credenza o speranza nel futuro. Viviamo perciò il presente con la fame e le ansietà di chi non ha altra casa» (Il libro dell’inquietudine, p.171). L’antagonista della Tradizione, infatti, non è il Progresso, ma l’egocentrismo del presente, l’autarchia dell’Io, che si pensa autocreato e faber sui ipsius; il narcisismo, ovvero «la presunzione che la verità della vita risieda nello specchio del momentaneo fluire che rimanda la nostra immagine». (Marcello Veneziani, Di Padre in figlio. Elogio della Tradizione, cit., pg. 9).
La Tradizione non rifiuta il Progresso, la Tradizione è l’essere nel divenire, è la continuità che fonda la realtà: anzi, «non si dà progresso se non esiste il collegamento tra due punti, uno a parte ante, l’altro a parte post». (Ivi, p.11). Ogni vero progresso presuppone una tradizione: il progresso è la tradizione che può tramandarsi solo da padre in figlio, di generazione in generazione, perché questa è l’unica forma oggettiva, perché naturale, per perpetuare l’identità umana nella continuità.
Non c’è progresso senza tradizione, non c’è tradizione che si tramandi da un “semino” qualsiasi ad un altro “semino” qualsiasi: se non c’è continuità nell’identità familiare, non c’è umanità, ma somma di individui: «La famiglia resta la metafora universale della Tradizione: lo spirito antitradizionale si configura infatti come parricidio. Liberarsi del padre è il programma di ogni pensiero antitradizionale. La tradizione nasce in seno alla famiglia. Di padre in figlio.