L’incontro di Budapest tra cattolici e marxisti. Leszek Kolakowski, grande esperto di tolitarismi
Il marxismo ha un progetto: piegare il cristianesimo alle proprie mire. In nome di cause comuni. Che con la buona volontà costruiscono tirannie
di Leszek Kolakowski
Perché mai gli uomini, che differiscono l’uno dall’altro sotto molti aspetti, non dovrebbero comunque parlarsi, nella speranza di una migliore comprensione? Una volta posta in questi termini la questione, la risposta è ovvia: non c’è nulla di male nel fatto che essi dialoghino tra loro. Eppure, quando si parla di «dialogo cristiano-marxista», l’assunto di chi cerca di promuoverlo, fa leva nelle molte cose che entrambe le parti avrebbero in comune: esse vogliono la pace, la giustizia, il benessere umano, si curano della sofferenza dell’uomo, condividono alcune fondamentali regole morali, eccetera. Ammettiamo pure che i «marxisti» che prendono parte al dialogo siano dei credenti che accettano davvero i tradizionali dogmi marxisti.
In tal caso essi crederanno, tra le altre cose, nelle seguenti dottrine:
1) che la religione, e la cristianità in particolare, è o una forma di «falsa coscienza» che esprime l’impotenza dell’uomo di fronte all’habitat sociale o naturale, oppure un inganno che mira a perpetuare la società di classe, l’ineguaglianza ed i privilegi. Un marxista — se prende sul serio la propria fede — è vincolato a credere che i partner cristiani del «dialogo» sono o degli imbroglioni che tentano di difendere l’ingiustizia sociale mediante i loro trucchi religiosi, oppure, nel migliore dei casi, vittime di superstizioni medievali che però fanno la stessa cosa, anche se incoscientemente.
2) Che il sacro dovere degli uomini che combattono per un ordine sociale giusto, o che rappresentano questo ordine sociale già stabilito — sebbene imperfettamente —, è quello di distruggere sia le superazioni religiose che le Chiese cristiane. Non c’è nulla di errato, in linea di principio, nelle più tremende persecuzioni dei cristiani dei Paesi comunisti che non sia giustificabile da una posizione marxista-leninista (tranne forse in termini tattici). La misura delle persecuzioni, repressioni e vessazioni differisce naturalmente molto da un Paese all’altro da un periodo storico all’altro. Esse sono attualmente molto peggiori in Unione Sovietica — tralasciamo l’Albania — che in Polonia, ma entrambe le dottrine (che la religione deve deperire per «legge storica», e che è dovere dello stato comunista aiutare tale deperimento) non sono mai state ripudiate, teoricamente o praticamente, da movimenti e stati marxisti.
3) Che non esiste nulla di simile ed un’etica marxista o comunista; che «nel marxismo stesso non c’è un granello di etica dall’inizio alla fine» (affermazione di Sombart citata con piena approvazione da Lenin ne Il contenuto economico del populismo) perchè (continua Lenin nello stesso testo) «teoricamente esso (il marxismo) subordina “il punto di vista etico” al “principio di causalità”: in pratica lo riduce alla lotta di classe»; che la «nostra moralità è interamente subordinata agli interessi della lotta di classe del proletariato» (discorso di Lenin al congresso del Komsomol nel 1920). Molti marxisti ortodossi (come Lukacs e Korsch) sottolinearono ripetutamente lo stesso punto, mentre i tentativi di arricchire il marxismo di una dottrina etica proveniente da altre fonti furono stigmatizzati da tutti gli ortodossi come una falsificazione revisionista (i marxisti kantiani, come Max Adler Vorländer e Bruno Bauer tentarono questo tipo di revisione, provocando l’orrore di Kautsky, Mehring, Trotsky, eccetera).
Se si tiene presente questo, ogni «dialogo» è sterile fin quando i marxisti che vi prendono parte (non importa se essi credono o no davvero nella loro dottrina) non dicono chiaramente quale sia la loro opinione sulle persecuzioni religiose — sistematicamente attuate nei Paesi comunisti — e sul rapporto che intercorre tra quelle persecuzioni e la dottrina marxista ufficiale. Essi affermano naturalmente che negli stati socialisti la religione è separata dallo stato — non diversamente da molti Paesi «capitalisti». Ma ciò è semplicemente falso.
In nessuno stato ideologico ci può essere separazione tra Chiesa e Stato —.in un Paese comunista non meno che nell’Iran di Khomeini. Separazione significa che lo Stato è indifferente al credo religioso dei cittadini, che la loro fede è irrilevante rispetto al godimento dei loro diritti civili; ciò implica, ad esempio, che in un Paese comunista un credente cristiano abbia le stesse chances di partecipare al potere che ha un marxista. Ma solo esprimere questa idea basta per comprendere l’assurdità. In alcuni Paesi la religione è semplicemente vietata per legge; questo è il caso dell’Albania che si vanta (forse a ragione) di essere l’unico stato al mondo veramente marxista-leninista: lì i genitori rischiano la pena di morte per battezzare i loro figli.
In Unione Sovietica un sacerdote commette un’offesa criminale, se si reca da una persona morente con l’Estrema Unzione (la religione deve essere confinata nelle chiese) ed i genitori sono obbligati per legge a crescere i loro figli nello spirito comunista, cioè ateo, sotto la minaccia di vederseli portar via.
D’accordo, la portata della persecuzione varia, ma essa non manca mai. La storia della drastica e brutale distruzione della Chiesa orientale ortodossa in Russia è lunga e presenta molti dettagli, sebbene non tutti molto conosciuti. Fin quando tali questioni non saranno chiarite non si potrà mai credere che i partner marxisti del «dialogo» stiano agendo bona fide. In realtà, il «dialogo» è inutile fin quando coloro che rappresentano gli stati comunisti e si identificano con la loro politica, eviteranno l’argomento o approveranno le persecuzioni religiose nei loro Paesi. E molto spesso i partner marxisti non sono altro che funzionari del partito o loro servitori — senza null’altro di personale da dire, se non rimettere unicamente il punto di vista ufficiale, provvisto di tutta la sua mendacità.
I partiti comunisti amano il «dialogo» nella misura in cui coloro che vi sono impegnati evitano le questioni cruciali, davvero rilevanti per una comunicazione reciproca, e si accontentino di diversivi quali pace, giustizia, felicità umana, concludendo con la condanna, diciamo, del’apartheid in Sudafrica o del regime militare in Cile e così via.
E’ vero che nei Paesi comunisti difficilmente c’è chi prende ancora sul serio la dottrina marxista. Ciò tuttavia non è importante fin quando i cristiani hanno a che fare con funzionari di stato o di partito. La dottrina è morta nel senso che coloro che vi credono ormai non vivono più, ma essa malgrado tutto è necessaria poiché essa fornisce la casta regnante nel comunismo dell’unico principio di legittimazione; così la dottrina deve essere predicata anche se nessuno vi crede più. Ciò rende il «dialogo» semplicemente grottesco.
Il punto centrale non è l’opposizione fondamentale tra fede cristiana e filosofia marxista e nemmeno che questa filosofia è atea nel suo nocciolo ed evaporerebbe senza il suo presupposto ateo; i cristiani non solo possono, bensì dovrebbe parlare agli atei: questo è un loro dovere. L’assunto di questo discorso è che i cristiani cerchino di convincere gli atei della propria fede ed accettino il fatto che gli atei, a loro volta, cerchino di guadagnarli al loro credo. Ciò è normale, accettabile e necessario. Ma il «dialogo» con i comunisti ha un carattere totalmente diverso.
I comunisti non cercano di convertire i cristiani all’ateismo, essi cercano di usarli per i loro obiettivi politici e di sfruttare il loro impegno morale nello spirito del «fronte popolare». Esiste naturalmente una differenza nel modo con cui i comunisti operano in paesi dove essi sono al potere e quelli dove ancora vi aspirano. In un Paese come il Cile essi offrono la cooperazione nella lotta contro la dittatura militare sia ai cattolici che a varie forze democratiche con la speranza di essere in grado di dominare l’opposizione e di stabilire, in nome della democrazia, il proprio dispotismo, peggiore di quello attuale e ben più difficile da rovesciare (cosa che hanno fatto in molti Paesi).
Perciò la restaurazione della democrazia in Cile, lungi dall’essere aiutata dalla cooperazione con i comunisti dei cattolici e dei movimenti democratici, è possibile solo come attraverso la loro separazione. La Chiesa, non essendo un’entità politica, può allora conservare la propria posizione di indipendenza: sarebbe ovviamente disastroso per essa identificarsi con un partito politico, fosse pure con la Democrazia cristiana; quanto ai movimenti politici cristiani, ogni alleanza con il comunismo allo scopo di restaurare la democrazia non ha altro significato che la disponibilità dei cristiani a fare da fertilizzanti per una tirannia futura.
L’apparente buonsenso comune dell’idea «pensiamo per il momento alla causa comune e rimandiamo a dopo le nostre differenze» e i tentativi di impegnarsi in un «dialogo» di questo genere, equivalgono ad accettare il fatto che i cristiani saranno lo strumento con cui lastricare la via alla dittatura del futuro. Tutte le lezioni impartite dalla storia recente a tale riguardo sono inequivocabili. Una volta che il comunismo prende il potere non c’è nessun «dono».
Quanto ai Paesi governati da comunisti, il «dialogo» è uno dei tanti strumenti che il partito comunista impiega per privare la Chiesa ed i cristiani della loro indipendenza. Un piccolo esempio: le autorità polacche asseriscono di essere molto interessate nella lotto contro l’alcolismo e di accettare con favore l’impegno della Chiesa nella stessa direzione. Ma quando un gruppo di cattolici organizzò dei picchetti vicino a dei negozi di liquore ed espose poster contro l’alcolismo (assolutamente privi di contenuto politico — puramente anti-alcolismo) essi furono arrestati e puniti. Questo piccolo e banale fatto mostra come stanno veramente le cose: i governanti comunisti dicono in sostanza: «Voi potete aiutarci, ma solo ai nostri ordini ed entro i limiti posti da noi». Ovviamente, a queste condizioni, essi accettano ogni tipo di aiuto…
Quanto descritto finora non ha nulla a che fare con i negoziati politici nei quali le autorità della Chiesa nei Paesi comunisti — o il Vaticano, nel caso di Budapest — sono impegnati; tali negoziati sono spesso necessari, ma non hanno nulla a che spartire con il «dialogo» come lo intendono i comunisti. La Chiesa è costretta talvolta a negoziare, ma entrambe le parti sono ben cosapevoli che stanno negoziando con un avversario. Questo è patteggiamento politico, e non ricerca di un comune terreno ideologico o filosofico.
In sintesi: un autentico dialogo è concepibile soltanto a condizione che entrambe le parti, non importa quanto remote siano l’una dall’altra in termini filosofici, agiscano in buona fede. Ma ammettere che i comunisti agiscono in buona fede implica l’ammissione da parte loro che il comunismo è sempre stato un implacabile nemico del cristianesimo, che esso ha fatto uso di tutti i mezzi più brutali per distruggerlo (di nuovo: con intensità variabile a seconda delle condizioni politiche ed in particolare della forza della Chiesa) e che ora è pronto a porre fine alla persecuzione, rinunciando così alla dottrina ufficiale o allargandola profondamente.
Non ci sono molti segnali che indichino che queste condizioni possano realizzarsi in un futuro prevedibile. Ma fintantoché questa condizione non sarà soddisfatta, il «dialogo» non è nulla più che un tentativo di sfruttare il cristianesimo per l’obiettivo di una tirannia essenzialmente anti-cristiana.
L’idea comunista, non importa quale sia la sua facciata ideologica, implica che nell’ordine sociale perfetto gli esseri umani sono proprietà dello stato; in altre parole, essa ha un’ideologia della schiavitù. E viceversa fa parte dei dogmi fondamentali del cristianesimo che la persona umana, possedendo uno status ontologico autonomo, non possa essere proprietà di nessuno, nemmeno di Dio. Credere che si possa metter da parte questo fatto per concentrarsi sulle «cause comuni» che il cristianesimo condivide con il comunismo è un sintomo di stupefacente cecità.