Abstract: dialogo con l’islam; i cristiani conoscono poco l’Islam e ne hanno una visione spesso semplicistica che impedisce loro di affrontare con realismo il dialogo con questa religione, erroneamente considerata vicina per il fatto di adorare lo stesso Dio
Il Domenicale, 28 febbraio 2004
L’impossibile dialogo con l’Islam
Spesso i cristiani considerano in modo troppo semplicistico la fede in Allah. In realtà, si tratta di una religione estremamente forte, al cui centro sta una concezione del rapporto uomo-Dio contraria a quella tipica del mondo ebraico e cristiano. Per questo motivo i musulmani sono più lontani dalla fede in Cristo che non i pagani. Maometto? Meglio Omero e Virgilio
(Traduzione dal francese di Giorgio Bianco)
Beninteso, non è nelle mie intenzioni esprimere un giudizio globale sull’islam. Nell’anno 622 della nostra era nasceva ufficialmente a Medina una religione nuova, in diretta contrapposizione ai tre dogmi cristiani fondamentali, la Trinità, l’Incarnazione e la Redenzione. Al giorno d’oggi gli adepti di questa religione stanno diventando più numerosi dei cristiani, di tutte le confessioni assommate. Da mezzo secolo a questa parte, tre fatti hanno radicalmente modificato il quadro.
I Paesi musulmani, che erano caduti sotto il dominio degli imperi europei (considerati come cristiani dai musulmani), specificatamente gli imperi inglese, russo, francese, olandese, hanno ritrovato l’indipendenza (con la sola eccezione della Cisgiordania palestinese). Le minoranze cristiane, ancora numerose all’inizio del XX secolo in Turchia, in Egitto, in Medio Oriente, si sono convertite, sono state espulse (come i Greci dell’Asia Minore), talvolta massacrate (come gli Armeni). Infine, forti minoranze musulmane si sono pacificamente insediate nell’Europa occidentale. In Francia esse costituiscono circa il 10% della popolazione, e secondo i demografi probabilmente costituiranno il 20% entro una ventina d’anni. In Germania, in Inghilterra, negli Stati Uniti, le cifre sono minori, ma non meno significative.
Quest’ultimo evento suscita, in questi Paesi, una certa inquietudine. Il problema viene posto in termini demografici, in termini comunitari, in termini di assimilazione, di lotta contro il “razzismo”, ma molto più raramente in termini religiosi. Infatti, l’inclinazione delle Chiese, da mezzo secolo, è verso l’irenismo, l’ecumenismo. Sebbene molte di esse sembrino in crisi – o giustappunto a causa di questa crisi – non si nota in esse alcuna inquietudine propriamente religiosa. Il loro problema è di fare buona accoglienza all’islam, di cercare il contatto, i punti comuni, il dialogo.
Il mio scopo è innanzitutto storico: quali sono stati, dopo l’Egira, i principali atteggiamenti dei cristiani verso l’islam. Poi sarà teologico: quale statuto dare all’islam dal punto di vista teologico, vale a dire cristiano. Infine, tornerò alla storia per valutare la situazione attuale.
I tre approcci cristiani
In una panoramica storica di quattordici secoli, è possibile osservare fra i cristiani tre approcci principali. Il primo è ben rappresentato da san Giovanni Damasceno. Lo chiamerò l’atteggiamento del rifiuto, più precisamente della constatazione dell’incompatibilità.
Giovanni Mansur detto Damasceno discendeva da una famiglia di alti funzionari bizantini che avevano avuto un loro ruolo nella resa di Damasco. Fu inizialmente al servizio del Califfo, nell’amministrazione fiscale. Con le prime persecuzioni, entrò nel convento di S. Saba, dove morì nel 754. Non ha scritto che alcune pagine, che sono preziose, poiché si tratta di un testimone della prima ora. Il suo primo testo si trova inserito nel suo catalogo, Il libro delle eresie, in cui l’islam è classificato come l’eresia numero 100. Ciò indica che a questa data, specialmente tra i monofisiti e i nestoriani, che detestavano l’ortodossia melchita perché rappresentava l’oppressione bizantina, non era chiaro se l’islam fosse un’altra religione, o se non era altro che un’ulteriore versione all’interno della nebulosa cristiana.
Ma oggi non è così. La descrizione del Damasceno è puramente sarcastica. Maometto è un falso profeta. Le sue dottrine sono assurde e non possono che esserlo perché negano le verità cristiane. Il secondo testo, più tardo, si presenta sotto la forma di una Controversia tra un musulmano e un cristiano. In questo caso si tratta di una breve catechesi per dissuadere i cristiani dal convertirsi, cosa che facevano già in massa. Egli cerca di difendere il libero arbitrio contro il fatalismo che attribuisce all’islam, e anche la consistenza della natura creata, l’ordine delle leggi di natura contro il puro capriccio di Dio secondo l’islam. San Giovanni parla con accondiscendenza, un po’ come un distinto teologo del XIX secolo avrebbe trattato la rivelazione di Joseph Smith e il Libro dei Mormoni.
Nella tradizione del rifiuto puro e semplice, san Tommaso d’Aquino è un punto di riferimento essenziale. Nella Summa contra gentiles (I, 5) avanza la seguente argomentazione: Maometto è stato capace di sedurre dando dei comandamenti che soddisfano la concupiscenza degli uomini carnali; egli fornisce soltanto verità facili a comprendersi per uno spirito ordinario; mescola favole e dottrine che sminuiscono quanto vi è di verità naturale nel suo insegnamento; le sue prove si fondano sulla potenza delle armi, prove che non fanno assolutamente difetto ai malfattori e ai tiranni. Né l’Antico né il Nuovo Testamento testimoniano a suo favore, al contrario egli li ha deformati con racconti leggendari e proibisce ai suoi discepoli di leggerli. In breve, conclude, «coloro che prestano fede alla sua parola, credono con leggerezza».
Il secondo approccio cristiano è quello che chiamerò delle Tre Leggi. Se ne trova un buon esempio nel dialogo che ebbe luogo tra il futuro imperatore Manuele Paleologo e un saggio musulmano nel 1390. Si tratta di stabilire un ordine di superiorità tra la Legge di Mosè, di Gesù e di Maometto. Manuele esordisce affermando che la legge musulmana è inferiore a quella degli ebrei, in particolare a causa del jihad, secondo cui gli uomini possono scegliere tra la conversione da un lato, e la morte o la schiavitù dall’altro. Ora, la volontà divina non si compiace del sangue e vuole condurre gli uomini alla fede attraverso la persuasione e non con la violenza. A maggior ragione la legge musulmana è inferiore alla legge di Cristo. Al che il musulmano risponde che effettivamente la legge di Cristo è migliore di quella di Mosè, ma è troppo dura, troppo elevata, dunque impraticabile. È peccare per eccesso il dover amare i propri nemici, ricercare la povertà, sopportare la verginità. Il Corano si pone in una posizione intermedia fra le carenze della legge mosaica e gli eccessi di quella di Cristo. Ora, il giusto mezzo, la moderazione, è sinonimo di virtù e ragione.
Manuele controbatte in maniera classica, distinguendo i comandamenti biblici e i consigli evangelici. Poi assesta un colpo di clava con il suo argomento più forte: la tua legge, dice al musulmano, si contrappone alla legge cristiana e ritorna a quella di Mosè. Maometto ha plagiato questa legge e l’ha corrotta, componendo qualcosa di eterogeneo e disordinato. Manuele, in questo dialogo sincero, non può invocare l’autorità delle Scritture, perché il musulmano non la riconosce. È dunque costretto a disporre le tre leggi sullo stesso piano temporale e sinottico. Non può più mettere in risalto la continuità storica tra Israele e Cristo. Non può fondarsi sulla comune nozione di Alleanza, poiché questa nozione non è riconosciuta nell’islam. Non gli resta che comparare astrattamente le tre leggi. E contro la legge del Corano, ritrova la posizione spiritualista di Bisanzio: la legge antica è carnale, come quella musulmana, mentre quella cristiana è spirituale. Una simile impostazione del problema dà all’islam un vantaggio sull’ebraismo, poiché è universale e onora Gesù e la Vergine.
Il terzo approccio è quello che definirò la ricerca del punto sublime di superamento dall’alto. Un buon esempio è il De pace fidei, scritto dal cardinale Niccolò da Cusa nel 1452, proprio alla vigilia della caduta di Costantinopoli. Il suo fine è quello di raggiungere un punto di vista superiore e inclusivo, tale per cui si potrebbe interpretare l’islam come una forma di cristianesimo inconsapevole di se stesso. Dal momento che non può più fare appello alla Bibbia, decide di partire dall’articolo di fede che ritiene comune, la fede nel Dio unico.
A partire da questo assioma, egli deduce, con un ragionamento scolastico tanto sapiente quanto astratto, la Trinità e gli altri grandi dogmi cristiani. Questa esposizione strettamente razionale poteva, egli sperava, piacere a saggi musulmani nutriti della miglior filosofia, quella di Avicenna. Ma questo lo condanna ad abbandonare il tema della salvezza sul piano storico, così come si contempla attraverso i due Testamenti. Ecco anche lui prigioniero dell’antistoricismo musulmano, con la sola arma della filosofia, o piuttosto della sua particolare filosofia. Egli ha disincarnato la teologia, al punto di ridurla ad un sistema astratto, ad uno schema. Il punto sublime conduce alla tenebra superiore, che si riduce ad essere la notte di Hegel, in cui tutte le vacche sono grigie.
Come si vede, i due tentativi di dialogo di Manuele e di Niccolò Cusano li hanno condotti a un monologo in cui espongono apoditticamente la religione cristiana. Ma loro malgrado, questa esposizione li spinge a una sorta di sbilanciamento del cristianesimo, come se, nello sforzo di avvicinarsi e di farsi comprendere dall’islam, la loro ortodossia cristiana subisse una discreta e inconsapevole deformazione. Occorre adesso comprendere perché.
Rivelazione o religione naturale?
Quale statuto la religione cristiana può assegnare all’islam? Una religione rivelata, oppure una religione naturale?
In buona sostanza, la teologia cristiana divide così il genere umano: la prima parte si trova sotto l’Alleanza detta di Noè. Attraverso quest’alleanza, essi possono prendere conoscenza della legge naturale, vale a dire della morale comune, e formarsi un’idea del divino nel quadro delle religioni che si chiameranno pagane. All’interno di questa umanità comune, Dio ha “scelto” un uomo, Abramo, e la sua “casa”, con cui ha stipulato un’alleanza, ripresa e sviluppata in quella che Mosè riceve in nome del popolo che Dio si “crea” ai piedi del monte Sinai. Infine Dio, nel suo Verbo Incarnato venuto come “Messia” di Israele, istituisce una “Nuova Alleanza”, suscettibile di estendersi, a partire da Israele e dal suo Messia, all’umanità intera. Dove collocare, all’interno di questa classificazione, l’islam.
La difficoltà e il disagio che i cristiani e gli ebrei provano nel collocarlo all’interno del gruppo delle religioni naturali deriva dal fatto che l’islam professa di credere in un solo Dio, eterno, onnipotente, creatore, misericordioso. Non si riconosce allora la prima delle Dieci Parole rivolte a Mosè, il primo comandamento? Sì, ma manca un punto, ossia il fatto che il Dio dell’Esodo si presenta come il liberatore del suo popolo in una situazione storica particolare: «Io sono l’Eterno tuo Dio che ti ha fatto uscire dall’Egitto, dalla casa della servitù». Non vi è traccia di storia nel Corano. Si riconosce allora il primo punto del Credo cristiano? «Credo in un solo Dio onnipotente, creatore del Cielo e della Terra»? Sì, ma manca il fatto che questo Dio è qualificato come Padre, ossia gli è attribuita una relazione personale e reciproca con gli uomini.
Occorre tener presente che i musulmani propongono un’altra classificazione. Essa contrappone i pagani e coloro che, ebrei, cristiani, musulmani, hanno “ricevuto una rivelazione”. Il secondo gruppo è così legato da una similitudine formale (aver ricevuto una rivelazione) e non da una concatenazione storica.
Il Corano è increato
Posso ora enunciare la mia tesi teologica: l’islam è una religione naturale del Dio rivelato. Classicamente, si distingue la religione naturale dalla religione rivelata. La religione naturale, quella dei pagani, può eventualmente raggiungere il vero Dio (ossia, il Dio rivelato) più o meno chiaramente. Così, la Chiesa che ha condannato gli idoli ha nondimeno riconosciuto il dio della filosofia come il vero Dio cercato a tentoni. D’altra parte, la Chiesa crede che questo stesso Dio abbia voluto manifestarsi e comunicare la sua volontà riguardo alla salvezza degli uomini, e dunque far conoscere loro delle verità che oltrepassano le possibilità dello spirito umano. Per gli ebrei, questa rivelazione è contenuta nella Bibbia, alla quale i cristiani hanno aggiunto un “Nuovo Testamento”, ma riconoscendo la piena autorità del documento biblico così come si è formato prima della venuta del loro Messia
Anche i musulmani ritengono di aver ricevuto una rivelazione. Essa è concepita come la trasmissione di un testo preesistente. In questa trasmissione, il profeta non riveste alcun ruolo attivo. Egli non fa che ricevere i testi, usciti dalla Madre dei Libri, che ripete come sotto dettatura. A differenza della Bibbia, che i cristiani dichiarano “ispirata”, il Corano è increato. Esso è la parola increata di Dio.
L’islam distingue tra il profeta (nabi) e l’inviato (rassoul) che è, tra i primi profeti, quello che ha ricevuto un messaggio normativo. Anche Adamo, Lot, Noè, Mosè, Davide, Gesù sono stati inviati. Sono stati mandati a popoli particolari. Solo Maometto, il “sigillo dei profeti”, ha ricevuto una missione universale. I grandi inviati di Dio, Mosè, Davide, Gesù, hanno trasmesso letteralmente, proprio come Maometto, i libri che sono stati loro dettati, la Torah, i Salmi, il Vangelo (al singolare). Anche Adamo, Seth, Abramo hanno prodotto dei libri. Ma, il punto è essenziale, questi libri reali o immaginari, non sono considerati veridici, perché il loro testo è stato falsificato. Ebrei e cristiani hanno manipolato le loro scritture e distorto il loro significato. Per giunta, dal momento che il Corano contiene tutta la verità, anche se fossero autentici, non potrebbero aggiungere nulla di nuovo. Questo fa sì che i musulmani non riconoscano il valore dei documenti di rivelazione anteriori al loro. La vera Torah, il Vangelo autentico non devono essere cercati altrove che nel Corano. I veri discepoli di Gesù sono i musulmani.
La palla è dunque nel campo degli ebrei e dei cristiani: possono, essi, riconoscere la Bibbia nel Corano? La risposta è no.
Quali sono i rapporti di filiazione tra la Bibbia e il Corano? Nessuno, assicurano i musulmani. Maometto era analfabeta. Dio dichiara al profeta: «Tu non conoscevi, prima, che cosa siano le Scritture e la fede». Se vi sono coincidenze, è naturale, poiché lo stesso messaggio è stato indirizzato a tutti gli “inviati” e se vi sono delle divergenze, è perché gli ebrei e i cristiani lo hanno mutilato e falsato.
Questo i cristiani non possono crederlo. Maometto aveva una certa conoscenza della Bibbia. La Medina era piena di ebrei e di cristiani di diverse sette. Giovanni Damasceno era influenzato da un monaco ariano. Altri, da un monaco nestoriano. A chi ha familiarità con la Bibbia, le figure bibliche citate nel Corano appaiono allo stesso tempo identificabili e deformate. Abramo non è Ibrahim, né Mosè è Moussa. Prendiamo Gesù. Issa appare al di fuori dello spazio e del tempo senza riferimento al Paese di Israele. Sua madre, Maria, che è la sorella di Aron, lo mette al mondo sotto la palma. Poi Issa fa diversi miracoli che sembrano tratti dai vangeli apocrifi. Egli annuncia la futura venuta di Maometto. Sarà testimone il giorno della resurrezione.
I cristiani sono talvolta impressionati dal posto occupato da Gesù nel Corano. Ma non si tratta del Gesù a cui danno la loro fede. Il Gesù del Corano ripete ciò che avevano annunciato i profeti anteriori, Adamo, Abramo, Lot, ecc.: infatti, tutti i profeti hanno lo stesso sapere e proclamano lo stesso messaggio, che è l’islam. Tutti sono musulmani. Gesù è inviato per predicare l’unicità di Dio. Egli rivendica di non essere un “associatore”. «Non dite Tre». Non è figlio di Dio, ma una semplice creatura. Non è un mediatore, poiché l’islam ignora la mediazione. Dal momento che per l’islam è inconcepibile che un inviato di Dio sia sconfitto, Gesù non è morto sulla croce. È stato sostituito con un sosia. Questa cristologia, dal punto di vista cristiano, presenta impronte miste di nestorianesimo e di docetismo.
L’islam è estraneo all’idea di una rivelazione progressiva. Il messaggio divino è infuso nel primo uomo, da Adamo, il primo profeta. Semplicemente, gli uomini dimenticano il messaggio e la ripetizione di questo diventa necessaria. Maometto è l’ultimo inviato e il definitivo riformatore. La sola prospettiva da cui la storia può essere contemplata è la legge del trionfo degli inviati e l’annientamento di coloro che si sono opposti ad essi. L’islam, vale a dire la “sottomissione”, è il regolatore che riconduce il tempo al suo istante eterno, così come Dio riconduce periodicamente gli uomini al suo decreto eterno
Tanto per un ebreo quanto per un cristiano, non vi è continuità fra la Bibbia e il Corano. L’uno e l’altro constatano che la storia raccontata nella Bibbia risulta, nel Corano, frammentaria, deformata, rappresentata secondo una matrice dogmatica e coerente, tale per cui gli stessi fatti appaiono sotto un’altra luce e con un altro significato
Questa esteriorità si manifesta nel momento stesso in cui, apparentemente, si produce la coincidenza tra l’islam e la religione biblica, quello del Dio Uno, creatore, onnipotente e misericordioso. Infatti, sebbene il musulmano ami sgranare i 99 nomi di Dio, questi nomi non sono rivelati nel quadro di un’Alleanza, come avviene con il roveto ardente o nel Vangelo nel dono del nome del Padre. Questo Dio Uno, che pretende la sottomissione, è un Dio separato. Chiamarlo Padre è un antropomorfismo sacrilego. Dio ha accondisceso a far discendere una legge sacra. Egli richiede obbedienza. Non si impegna in una relazione amorosa. Il Dio musulmano è assolutamente impassibile e attribuirgli amore sarebbe sospetto. Piuttosto, una condiscendenza gratuita, una benevolenza.
Questo è il motivo per cui gli ebrei e i cristiani sono obbligati a rifiutare al Corano lo statuto di rivelazione. Essi contestano all’islam anche quello di religione abramica. L’Abramo che l’islam rivendica è un inviato e un musulmano. Non è il padre comune di Israele, e poi dei cristiani che condividono la sua fede. «Abramo non è né ebreo né cristiano». Ha partecipato al culto musulmano costruendo la Kaaba e istituendo il pellegrinaggio alla Mecca. Lungi dall’essere Maometto ad avere avuto la fede di Abramo, è Abramo che ha avuto la fede di Maometto. Poiché la verità, secondo il Corano, è data tutta intera dal primo giorno e dal primo uomo, è inconcepibile che Abramo abbia avuto il ruolo fondatore che gli assegnano gli ebrei e i cristiani. I musulmani, quando si richiamano a Ibrahim, non hanno né la fede di Abramo che la storia delle religioni cerca di restituirgli, né la fede di Abramo nel senso che professano il giudaismo e il cristianesimo.
Consideriamo ora il problema dal lato opposto: consideriamo l’islam come religione naturale.
Un tratto comune delle religioni naturali è l’evidenza di Dio o del divino diffuso ovunque. L’islam, che viene rappresentato come la religione della fede, non ha bisogno di fede per credere, o piuttosto per constatare l’esistenza di Dio. L’oggetto della fede non è Dio, è l’unicità di Dio. Come per i Greci e i Romani, è sufficiente contemplare il cosmo, la creazione, per essere certi, prima di ogni ragionamento, che Dio, o il divino, è, in maniera tale che il non credervi è segno di irragionevolezza, la quale esclude il miscredente dalla natura umana. Questa non è l’opinione della teologia cristiana, secondo la quale la ragione non può accettare l’esistenza di Dio se non mediante ricerca e ragionamento. La fede teologale, che è soprannaturale, viene in seguito a suggellare questa certezza.
Agli uomini, Dio ha dato una legge attraverso un patto unilaterale. Questa legge non ha nulla in comune con la legge del Sinai che fa di Israele l’interlocutore di Dio, né con la legge dello Spirito di cui parla San Paolo. La legge dell’islam è una legge esterna all’uomo, che esclude qualunque idea di imitazione di Dio quale è proposta nella Bibbia. È chiesto soltanto di rimanere entro i limiti del patto i cui termini sono stati fissati da Dio nella sua parola increata e nella sunna, la tradizione autentica. Ogni desiderio di oltrepassare questi limiti è sospetto. È sufficiente fare il bene ed evitare il male per beneficiare delle ricompense promesse e sfuggire ai castighi previsti.
In questa prospettiva è normale ritrovare qualche norma dell’etica pagana. L’ascetismo è estraneo allo spirito dell’islam. La civiltà islamica è una civiltà della buona vita. Essa offre piaceri diversi e leciti nell’ordine dei sensi. Vi è un carpe diem musulmano, una felicità musulmana che ha spesso affascinato i cristiani, così come essi hanno avuto nostalgia del mondo antico. La predestinazione, quale la intende l’islam, non è lontana dal sentimento antico del fatum. Il musulmano mette naturalmente in relazione queste benedizioni con la perfezione della sua Legge. Essa è moderata, più adatta alla natura umana rispetto alla legge cristiana, più dolce di quella ebraica. Questa moderazione, che si definisce «la facilitazione della religione», è ascritta a suo merito e rende maggiormente inescusabile il fatto di non credervi. Non vi è peccato originale, non vi sono pene infernali eterne per il credente.
Talvolta si deride il paradiso musulmano. Ma si sbaglia. Certo, esso non è, come il paradiso ebraico e cristiano, una visione di Dio e una partecipazione alla vita divina. Nell’aldilà Dio resta separato e inaccessibile. Ma l’uomo vi trova, con la salvezza e la pace, la “soddisfazione”. La Bibbia fa percorrere all’uomo un itinerario che inizia in un giardino, l’Eden, e finisce in una città, la Gerusalemme celeste. Nel Corano, egli ritorna al giardino. Le mitologie antiche ci offrono le stesse immagini di banchetti ideali in cui circolano le coppe, gli efebi, le giovani vergini, in uno stesso clima di soddisfazione e di appagamento di tutti i desideri.
In accordo con la religione naturale e il sostrato ellenistico sul quale si è esteso l’islam, la vita religiosa comporta modalità differenti e a più livelli. Per le anime religiose si aprono due vie che esistevano anche nel mondo greco-romano, la filosofia (la falsafa così impregnata di neoplatonismo) e la mistica. Alle anime meno esigenti è consentito, mediante il rispetto della Legge e una pratica leggera dei “cinque pilastri” dell’islam, condurre una vita religiosa assolutamente superficiale e tuttavia perfettamente lecita e sufficiente. Si tratta di un grande vantaggio rispetto alle due religioni bibliche, che richiedono per principio più scrupolo e maggiore interiorità. La stabilità di questa religione superficiale e legale non è priva di somiglianze con la religione antica, fatta di riti che accompagnavano il senso naturale e spontaneo del divino.
La reciprocità impossibile
Due fatti hanno sempre colpito i cristiani, la difficoltà di convertire i musulmani e la solidità della loro fede, anche fra le persone più superficialmente religiose.
Per un musulmano è assurdo diventare cristiano, innanzitutto perché si tratta di una religione del passato, la cui parte migliore è stata ripresa e superata dall’islam. Ma più fondamentalmente, il cristianesimo gli appare antinaturale. Le sue esigenze morali gli sembrano oltrepassare le capacità umane. Il dogma trinitario cristiano lo inquieta: sembra esposto al shirk, il peccato irremissibile di dare a Dio degli “associati”. Il cristianesimo è sospettato di essere una religione dei misteri, cosa che egli condanna, e, in quanto tale, di essere irrazionale. Ora, l’islam si considera razionale, la sola religione razionale. In questo vi è una nota minacciosa, poiché se la ragione caratterizza la natura umana, l’irrazionalismo cristiano è un abbandono dello statuto umano. In questo caso la condizione di dhimmi è una debole protezione. Gli Stati musulmani non possono dunque acconsentire, in termini di diritto rigoroso, alla reciprocità di tolleranza che domandano loro gli Stati cristiani. Invocandola, i cristiani non fanno che denunciare la propria ignoranza riguardo all’islam.
Quanto alla solidità della fede musulmana, essa significa molto semplicemente lo stupore dei musulmani di fronte a quel fenomeno, intimamente legato alla storia del cristianesimo, che è l’ateismo moderno. Come cristiani moderni, noi abbiamo la tendenza a guardare all’ateismo come all’alternativa alla fede. Ma non era così nel mondo antico, che accusava i cristiani di ateismo perché rifiutavano di ammettere l’esistenza degli dei. L’indignazione dei musulmani è della stessa natura.
E pertanto i cristiani nei loro incontri con i musulmani non hanno ritrovato la natura come la incontravano nel paganesimo greco-romano, germanico, slavo, indoamericano. Si direbbe che la natura e la rivelazione si sono reciprocamente mutilate. Non parlo dell’esteriorità, dello stile della città musulmana, della struttura familiare, dello statuto della donna, del sistema dei costumi, ma di qualcosa di più interiore, che ha a che vedere con l’essenza di questa religione. Voglio evidenziare tre aspetti.
Il primo è una negazione della natura nella sua stabilità e nella sua consistenza. Non esistono leggi naturali. Atomi, accidenti e corpi non durano che un istante e sono creati in ogni istante da Dio. Non vi è relazione causale fra due eventi, non vi sono che “abitudini” di Dio. Il giorno coincide abitualmente con la presenza del sole, ma Dio può cambiare abitudine e far brillare il sole nel mezzo della notte. Il miracolo non è dunque una sospensione della legge naturale, ma un cambiamento di abitudine da parte di Dio. Una volta che il principio di causalità è stato abolito, qualunque cosa concepibile può accadere.
Non vi è nessuna causa, in luogo di essa vi è una sequenza, una consecuzione. La creazione di Adamo fa di lui l’origine di una stirpe: ciascun uomo è creato ex novo come Adamo. «Egli vi ha creati nel grembo di vostra madre, creazione dopo creazione». Ogni momento della crescita è l’oggetto di un nuovo atto creatore. Un Dio la cui natura e i cui disegni sono nascosti, un tempo atomizzato in una serie di istanti senza legame l’uno con l’altro, una natura sospesa alle “abitudini” dell’Onnipotente: la stabilità del cosmo musulmano, agli occhi dell’occidentale, sembra compromessa. Non si vede più il confine tra realtà e sogno.
Il secondo tratto, abbiamo visto, è la negazione della storia. La Bibbia è una storia. La rivelazione procede per tappe. Dio interviene nella storia con parole e con atti il cui ricordo è conservato dalla tradizione e da un libro ispirato, perpetuamente sottoposto all’interpretazione. Il Corano è increato, e non esiste magistero esegetico. Esso non contiene una storia, ma delle storie. L’intervento di Dio consiste nel proteggere i profeti, che sono infallibili, immuni dal peccato, e nell’annientare i loro nemici. Poiché lo stesso messaggio è invariabilmente trasmesso da tutti gli Inviati, il sentimento della storia è quello di una ripetizione infinita della stessa lezione. Non vi è differenza fondamentale tra il presente, il passato e il futuro.
Un terzo tratto riguarda la virtù della religione. È una virtù morale quella che si trova nelle religioni naturali come nelle religioni rivelate e che, secondo Cicerone, «offre le sue cure e le sue cerimonie a una natura superiore che viene definita divina». Essa governa in tutte le religioni la pietà, la preghiera, l’adorazione, i sacrifici e altri simili atti. Se si nega al Corano l’autenticità di una rivelazione, sembra difficile non rapportare la fede musulmana ad una forma particolare della virtù religiosa. Quello che aumenta la confusione, è che sotto l’islam questa virtù può essere spinta al di là di ciò che è opportuno nella religione biblica.
In quest’ultima, infatti, l’uomo è responsabile dei suoi casi nel quadro di una natura fisica, sociale, politica, che ha la sua consistenza e le sue leggi regolari. I doveri religiosi sono dunque limitati a una zona ragionevole al di qua e al di là della quale si pecca per difetto o per eccesso. L’idea di ordine naturale non ha la stessa solidità nell’islam, in cui il capriccio di Dio si estende alle cause seconde come alle cause prime. La virtù religiosa può dunque assumere un’intensità e un’estensione che in ambito ebraico o cristiano sarebbero considerate eccessive rispetto al giusto mezzo.
In conclusione: comprendiamo ora meglio il nostro problema iniziale, che era il malinteso che incombe sul cristiano quando si avvicina all’islam. Il cristiano è colpito dallo slancio religioso del musulmano verso un Dio che riconosce, gli piaccia o meno, come il suo stesso Dio. Ma non si riconosce né in questo Dio separato né nella relazione che il musulmano ha con lui. Il cristiano è abituato a distinguere l’adorazione dei falsi dei, che chiama idolatria, e l’adorazione del vero Dio, che definisce vera religione. Per trattare adeguatamente dell’islam, occorrerebbe forgiare un concetto difficile a pensarsi, che sarebbe l’idolatria del Dio di Israele.
Difficoltà, dubbi e impasse
Torniamo alla situazione storica contemporanea. L’islam, che è in crescita, non sembra, oggi più attratto dal cristianesimo di quanto fosse un tempo. I cristiani, al contrario, subiscono la sua attrazione e possono esserne anche tentati.
Questa attrazione è molto sensibile in un sapiente che ha influenzato non poco la visione cristiana dell’islam nel XX secolo, Louis Massignon. Egli ha inculcato in alcuni ambienti teologici due opinioni ancora vive, vale a dire che il Corano è a suo modo una rivelazione, senza dubbio riduttiva, primitiva, ma comunque una rivelazione di essenza assolutamente biblica. In secondo luogo, che l’islam è, come esso stesso rivendica, di filiazione abramica.
Quando si guarda nelle nostre librerie la letteratura favorevole all’islam, il più delle volte scritta da preti cristiani influenzati da Massignon, si vede che l’attrazione per l’islam deriva da diversi sentimenti. Una certa critica della nostra modernità liberale, capitalista, individualista, competitiva trova degli elementi di attrazione nella civiltà musulmana tradizionale, la quale presenta aspetti contrari, la stabilità delle tradizioni, lo spirito comunitario, il calore delle relazioni umane. Questi ecclesiastici, in preda al panico a causa del raffreddamento della fede e della pratica in Paesi cristiani, specialmente in Europa, ammirano la devozione musulmana.
Si meravigliano di questi uomini che, nel deserto o in un capannone industriale della Francia o della Germania, si prosternano cinque volte al giorno per le preghiere rituali. Ritengono sia meglio credere a qualche cosa che non credere a niente del tutto, e immaginano che, dal momento che essi credono, credono suppergiù alla stessa cosa. Confondono fede e religione. Infine, sono felici di constatare il posto elevato che hanno Gesù e Maria nel Corano, senza fare attenzione al fatto che questo Gesù e questa Maria sono omonimi che non hanno in comune altro che il nome con il Gesù e la Maria che conoscono.
Quest’ultimo punto è grave, perché altera la relazione fra cristiani ed ebrei. In questa prospettiva i musulmani sembrano “migliori” degli ebrei, poiché onorano Gesù e Maria, cosa che gli ebrei non fanno. Così, ebraismo e islam sono posti in simmetria, con un vantaggio per l’islam. Anche gli ebrei mettono in simmetria cristianesimo e islam, anch’essi con un vantaggio per l’islam il cui monoteismo è meno problematico. Ma i cristiani non possono seriamente mantenere questa simmetria e la Chiesa cattolica l’ha espressamente condannata.
Se l’accettasse, questo significherebbe rinunciare alla propria filiazione a partire da Abramo, della profezia di Israele, significherebbe rinunciare alla filiazione davidica del Messia, significherebbe trasformare il cristianesimo in un messaggio atemporale, privato della sua fonte, della sua storia. Il Vangelo diventerebbe allora un altro Corano. E si confonderebbe nell’universalismo di quest’ultimo. È per questo che bisognerebbe stare attenti e purificare il discorso cristiano contemporaneo da espressioni pericolose come “le tre religioni adamitiche”, “le tre religioni rivelate” e anche “le tre religioni monoteiste” (perché ve ne sono diverse altre). La più falsa di queste espressioni è “le tre religioni del libro”. Essa non significa che l’islam fa riferimento alla Bibbia, ma che esso ha previsto per i cristiani, gli ebrei, i sabelliani e gli zoroastriani una categoria giuridica, “le genti del libro”, tale per cui essi possono rivendicare lo statuto di dhimmi, ossia, attraverso la discriminazione, preservare la loro vita e i loro beni in luogo della morte o della schiavitù a cui sono destinati i kafir, o pagani.
Il fatto che si utilizzino così facilmente queste espressioni è un segnale del fatto che il mondo cristiano non è più capace di fare chiaramente la differenza fra la propria religione e l’islam. Siamo tornati ai tempi di San Giovanni Damasceno, in cui ci si domandava se l’islam era una forma come un’altra di cristianesimo? Non è escluso. Per lo storico è una situazione ben conosciuta. Quando una Chiesa non sa più ciò in cui crede, né perché crede, essa scivola verso l’Islam, senza accorgersene. Così hanno fatto, in massa e in poco tempo, i monofisiti d’Egitto, i nestoriani di Siria, i donatisti dell’Africa del nord, gli ariani di Spagna.
Vorrei concludere proponendo tre tesi.
I cristiani hanno il grande torto di considerare l’islam una religione semplicistica, elementare, una “religione dei cammellieri”. Al contrario, si tratta di una religione estremamente forte, una cristallizzazione specifica del rapporto dell’uomo con Dio perfettamente contrapposta al rapporto ebraico e cristiano, ma non meno coerente.
I cristiani hanno il torto di ritenere che l’adorazione da parte dell’islam del Dio unico di Israele renda più prossimi a loro i musulmani rispetto ai pagani. In realtà, come dimostra la storia delle loro relazioni, essi ne sono più radicalmente separati a causa del modo di adorazione dello stesso Dio.
Ne consegue che nel loro sforzo per comprendere i musulmani e “dialogare” con loro, i cristiani devono appoggiarsi a ciò che permane di religione naturale, di virtù naturale in seno all’islam. E innanzitutto devono insistere sulla natura umana comune che condividono con essi. Ma il Corano, a differenza di Omero, Platone o Virgilio, non può essere considerato come una preparatio evangelica.
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Dialogo con l’islam, per approfondire:
Dialogo? I cristiani d’Europa soffrono di «meaculpismo»
Cristiani troppo «ingenui» nel dialogo coi musulmani? L’autocritica di un missionario