Congregazione per la Dottrina della Fede,
La Rivoluzione Culturale procede. Dopo aver insidiato il matrimonio con l’introduzione del divorzio nell’ordinamento giuridico della Repubblica Italiana, è passata all’attacco della vita promuovendo l’aborto, quindi è entrata nel mondo delle biotecnologie. Preparata da un massiccio battage massmediatico, è ora la volta della promozione dell’eutanasia, “uno dei sintomi più allarmanti della “cultura di morte”” (Giovanni Paolo II [1978-2005], Enciclica “Evangelium vitae” sul valore e l’inviolabilità della vita umana, del 25-3-1995, n. 64). Un documento illuminante della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, già nel 1980, ne descrive la problematica e l’inconciliabilità con la dottrina naturale e cristiana.
Dichiarazione sull’eutanasia «Iura et bona»
Introduzione
I diritti e i valori inerenti alla persona umana occupano un posto importante nella problematica contemporanea. Al riguardo, il Concilio Ecumenico Vaticano II ha solennemente riaffermato l’eccellente dignità della persona umana e in modo particolare il suo diritto alla vita. Ha perciò denunciato i crimini contro la vita “come ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario” (Gaudium et Spes, 27).
La Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, che di recente ha richiamato la dottrina cattolica circa l’aborto procurato (Declaratio de abortu procurato, die 18 nov. 1974: AAS 66 [1974] 730-747), ritiene ora opportuno proporre l’insegnamento della Chiesa sul problema dell’eutanasia. In effetti, per quanto restino sempre validi i principii affermati in questo campo dai recenti Pontefici, (Pio XII, Allocutio ad Delegatos Unionis Internationalis Sodalitatum mulierum catholicarum, die 11 sept. 1947: AAS 39 [1947] 483; Allocutio ad membra Unionis Catholicae Italicae inter obstetrices, die 29 oct. 1951: AAS 43 [1951] 835-854; Allocutio ad membra Consilii Internationalis inquisitionis de medicina exercenda inter milites, die 19 oct. 1953: AAS 45 [1953] 744-754; Allocutio ad participantes XI Congressum Societatis Italicae de anaesthesiologia, die 24 febr. 1957: AAS 49 [1957] 146; cf. etiam Allocutio circa queestionem de “reanimatione”, die 24 nov. 1957: AAS 49 [1957] 1027-1033; Paolo VI, Allocutio ad membra Consilii Specialis Nationum Unitarum versantis in quaestione “”Apartheid”, die 22 maii 1974: AAS 66 [1974] 346; Giovanni Paolo II, Allocutio ad Episcopos Statuum Foederatorum Americae Septentrionalis, die 5 oct. 1979: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, II, 2 [1979] 629ss) i progressi della medicina hanno messo in luce negli anni più recenti nuovi aspetti del problema dell’eutanasia, che richiedono ulteriori precisazioni sul piano etico.
Nella società odierna, nella quale non di rado sono posti in causa gli stessi valori fondamentali della vita umana, la modificazione della cultura influisce sul modo di considerare la sofferenza e la morte; la medicina ha accresciuto la sua capacità di guarire e di prolungare la vita in determinate condizioni, che talvolta sollevano alcuni problemi di carattere morale.
Di conseguenza, gli uomini che vivono in un tale clima si interrogano con angoscia sul significato dell’estrema vecchiaia e della morte, chiedendosi conseguentemente se abbiano il diritto di procurare a se stessi o ai loro simili la “morte dolce”, che abbrevierebbe il dolore e sarebbe, ai loro occhi, più conforme alla dignità umana. Diverse Conferenze Episcopali hanno posto, in merito, dei quesiti a questa S. Congregazione per la Dottrina della Fede, la quale, dopo aver chiesto il parere di competenti sui vari aspetti dell’eutanasia, intende con questa Dichiarazione rispondere alle richieste dei Vescovi per aiutarli ad orientare rettamente i fedeli e per offrire loro elementi di riflessione da far presenti alle Autorità civili a proposito di questo gravissimo problema.
La materia proposta in questo Documento riguarda, innanzi tutto, coloro che ripongono la loro fede e la loro speranza in Cristo, il quale, mediante la sua vita, la sua morte e la sua risurrezione, ha dato un nuovo significato all’esistenza e soprattutto alla morte del cristiano, secondo le parole di San Paolo: “Sia che viviamo, viviamo per il Signore; sia che moriamo, moriamo per il Signore. Quindi, sia che viviamo, sia che moriamo siamo del Signore” (Rm. 14, 8; cfr. Fil. 1, 20).
Quanto a coloro che professano altre religioni, molti ammetteranno con noi che la fede in un Dio creatore, provvido e padrone della vita — se la condividono — attribuisce una dignità eminente a ogni persona umana e ne garantisce il rispetto. Si spera, ad ogni modo, che questa Dichiarazione incontri il consenso di tanti uomini di buona volontà, che, al di là delle differenze filosofiche o ideologiche, hanno tuttavia una viva coscienza dei diritti della persona umana.
Tali diritti, d’altronde, sono stati spesso proclamati nel corso degli ultimi anni da dichiarazioni di Congressi Internazionali (Attendatur peculiari modo ad Admonitionem 779 [1976] de iuribus aegrotorum et morientium, quae acceptata fuit a Coetu Deputatorum Consilii Europae, in XXVII sessione ordinaria. cfr. SIPECA, n. 1, mense martio 1977, pp. 14-15.); e poiché si tratta qui dei diritti fondamentali di ogni persona umana, è evidente che non si può ricorrere ad argomenti desunti dal pluralismo politico o dalla libertà religiosa, per negarne il valore universale.
I Valore della vita umana
La vita umana è il fondamento di tutti i beni, la sorgente e la condizione necessaria di ogni attività umana e di ogni convivenza sociale. Se la maggior parte degli uomini ritiene che la vita abbia un carattere sacro e che nessuno ne possa disporre a piacimento, i credenti vedono in essa anche un dono dell’amore di Dio, che sono chiamati a conservare e a far fruttificare.
Da quest’ultima considerazione derivano alcune conseguenze: 1. Nessuno può attentare alla vita di un uomo innocente senza opporsi all’amore di Dio per lui, senza violare un diritto fondamentale, inammissibile e inalienabile, senza commettere, perciò, un crimine di estrema gravità. (Hic omnino praetermittuntur quaestiones de poena mortis et de bello, quae postulant ut aliae fiant peculiares considerationes, quae huius Declarationis argomento extraneae sunt.
2. Ogni uomo ha il dovere di conformare la sua vita al disegno di Dio. Essa gli è affidata come un bene che deve portare i suoi frutti già qui in terra, ma trova la sua piena perfezione soltanto nella vita eterna
3. La morte volontaria ossia il suicidio è, pertanto, inaccettabile al pari dell’omicidio: un simile atto costituisce, infatti, da parte dell’uomo, il rifiuto della sovranità di Dio e del suo disegno di amore. Il suicidio, inoltre, è spesso anche rifiuto dell’amore verso se stessi, negazione della naturale aspirazione alla vita, rinuncia di fronte ai doveri di giustizia e di carità verso il prossimo, verso le varie comunità e verso la società intera, benché talvolta intervengano— come si sa — dei fattori psicologici che possono attenuare o, addirittura, togliere la responsabilità. Si dovrà, tuttavia, tenere ben distinto dal suicidio quel sacrificio con il quale per una causa superiore — quali la gloria di Dio, la salvezza delle anime, o il servizio dei fratelli — si offre o si pone in pericolo la propria vita (cfr. Gv. 15, 14).
II L’eutanasia
Per trattare in maniera adeguata il problema dell’eutanasia, conviene, innanzi tutto, precisare il vocabolario. Etimologicamente la parola eutanasia significava, nell’antichità, una morte dolce senza sofferenze atroci. Oggi non ci si riferisce più al significato originario del termine, ma piuttosto all’intervento della medicina diretto ad attenuare i dolori della malattia e dell’agonia, talvolta anche con il rischio di sopprimere prematuramente la vita. Inoltre, il termine viene usato, in senso più stretto, con il significato di “procurare la morte per pietà”, allo scopo di eliminare radicalmente le ultime sofferenze o di evitare a bambini anormali, ai malati mentali o agli incurabili il prolungarsi di una vita infelice, forse per molti anni, che potrebbe imporre degli oneri troppo pesanti alle famiglie o alla società.
È quindi necessario dire chiaramente in quale senso venga preso il termine in questo Documento. Per eutanasia s’intende un’azione o un’omissione che di natura sua, o nelle intenzioni, procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati.
Ora, è necessario ribadire con tutta fermezza che niente e nessuno può autorizzare l’uccisione di un essere umano innocente, feto o embrione che sia, bambino o adulto, vecchio, ammalato incurabile o agonizzante. Nessuno, inoltre, può richiedere questo gesto omicida per se stesso o per un altro affidato alla sua responsabilità, né può acconsentirvi esplicitamente o implicitamente.
Nessuna autorità può legittimamente imporlo né permetterlo. Si tratta, infatti, di una violazione della legge divina, di una offesa alla dignità della persona umana, di un crimine contro la vita, di un attentato contro l’umanità. Potrebbe anche verificarsi che il dolore prolungato e insopportabile, ragioni di ordine affettivo o diversi altri motivi inducano qualcuno a ritenere di poter legittimamente chiedere la morte o procurarla ad altri.
Benché in casi del genere la responsabilità personale possa esser diminuita o perfino non sussistere, tuttavia l’errore di giudizio della coscienza — forse pure in buona fede — non modifica la natura dell’atto omicida, che in sé rimane sempre inammissibile. Le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, non devono essere intese come espressione di una vera volontà di eutanasia; esse infatti sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto.
Oltre le cure mediche, ciò di cui l’ammalato ha bisogno, è l’amore, il calore umano e soprannaturale, col quale possono e debbono circondarlo tutti coloro che gli sono vicini, genitori e figli, medici e infermieri.
III. Il cristiano di fronte alla sofferenza e all’uso di analgesici
La morte non avviene sempre in condizioni drammatiche, al termine di sofferenze insopportabili. Né si deve sempre pensare unicamente ai casi estremi. Numerose testimonianze concordi lasciano pensare che la natura stessa ha provveduto a rendere più leggeri al momento della morte quei distacchi, che sarebbero terribilmente dolorosi per un uomo in piena salute.
Perciò una malattia prolungata, una vecchiaia avanzata, una situazione di solitudine e di abbandono, possono stabilire delle condizioni psicologiche tali da facilitare l’accettazione della morte. Tuttavia, si deve riconoscere che la morte, preceduta o accompagnata spesso da sofferenze atroci e prolungate, rimane un avvenimento, che naturalmente angoscia il cuore dell’uomo.
Il dolore fisico è certamente un elemento inevitabile della condizione umana; sul piano biologico, costituisce un avvertimento la cui utilità è incontestabile; ma poiché tocca la vita psicologica dell’uomo, spesso supera la sua utilità biologica e pertanto può assumere una dimensione tale da suscitare il desiderio di eliminarlo a qualunque costo.
Secondo la dottrina cristiana, però, il dolore, soprattutto quello degli ultimi momenti di vita, assume un significato particolare nel piano salvifico di Dio; è infatti una partecipazione alla Passione di Cristo ed è unione al sacrificio redentore, che Egli ha offerto in ossequio alla volontà del Padre. Non deve dunque meravigliare se alcuni cristiani desiderano moderare l’uso degli analgesici, per accettare volontariamente almeno una parte delle loro sofferenze e associarsi così in maniera cosciente alle sofferenze di Cristo crocifisso (cfr. Mt. 27, 34).
Non sarebbe, tuttavia, prudente imporre come norma generale un determinato comportamento eroico. Al contrario, la prudenza umana e cristiana suggerisce per la maggior parte degli ammalati l’uso dei medicinali che siano atti a lenire o a sopprimere il dolore, anche se ne possano derivare come effetti secondari torpore o minore lucidità. Quanto a coloro che non sono in grado di esprimersi, si potrà ragionevolmente presumere che desiderino prendere tali calmanti e somministrarli loro secondo i consigli del medico.
Ma l’uso intensivo di analgesici non è esente da difficoltà, poiché il fenomeno dell’assuefazione di solito obbliga ad aumentare le dosi per mantenerne l’efficacia. Conviene ricordare una dichiarazione di Pio XII, la quale conserva ancora tutta la sua validità.
Ad un gruppo di medici che gli avevano posto la seguente domanda: “La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici… è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?”, il Papa rispose: “Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì” (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957: AAS 49 [1957] 147).
In questo caso, infatti, è chiaro che la morte non è voluta o ricercata in alcun modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone. Gli analgesici che producono negli ammalati la perdita della coscienza, meritano invece una particolare considerazione.
È molto importante, infatti, che gli uomini non solo possano soddisfare ai loro doveri morali e alle loro obbligazioni familiari, ma anche e soprattutto che possano prepararsi con piena coscienza all’incontro con il Cristo. Perciò Pio XII ammonisce che “non è lecito privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo” (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957: AAS 49 [1957] 145; cf. Pio XII, Allocutio, die 9 sept. 1958: AAS 50 [1958] 694).
IV L’uso proporzionato dei mezzi terapeutici
È molto importante oggi proteggere, nel momento della morte, la dignità della persona umana e la concezione cristiana della vita contro un tecnicismo che rischia di divenire abusivo. Di fatto, alcuni parlano di “diritto alla morte”, espressione che non designa il diritto di procurarsi o farsi procurare la morte come si vuole, ma il diritto di morire in tutta serenità, con dignità umana e cristiana.
Da questo punto di vista, l’uso dei mezzi terapeutici talvolta può sollevare dei problemi. In molti casi la complessità delle situazioni può essere tale da far sorgere dei dubbi sul modo di applicare i principii della morale. Prendere delle decisioni spetterà in ultima analisi alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici, alla luce degli obblighi morali e dei diversi aspetti del caso. Ciascuno ha il dovere di curarsi e di farsi curare.
Coloro che hanno in cura gli ammalati devono prestare la loro opera con ogni diligenza e somministrare quei rimedi che riterranno necessari o utili. Si dovrà però, in tutte le circostanze, ricorrere ad ogni rimedio possibile? Finora i moralisti rispondevano che non si è mai obbligati all’uso dei mezzi “straordinari”. Oggi però tale risposta, sempre valida in linea di principio, può forse sembrare meno chiara, sia per l’imprecisione del termine che per i rapidi progressi della terapia.
Perciò alcuni preferiscono parlare di mezzi “proporzionati” e “sproporzionati”. In ogni caso, si potranno valutare bene i mezzi mettendo a confronto il tipo di terapia, il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione, con il risultato che ci si può aspettare, tenuto conto delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali.
Per facilitare l’applicazione di questi principii generali si possono aggiungere le seguenti precisazioni: — In mancanza di altri rimedi, è lecito ricorrere, con il consenso dell’ammalato, ai mezzi messi a disposizione dalla medicina più avanzata, anche se sono ancora allo stadio sperimentale e non sono esenti da qualche rischio. Accettandoli, l’ammalato potrà anche dare esempio di generosità per il bene dell’umanità. — È anche lecito interrompere l’applicazione di tali mezzi, quando i risultati deludono le speranze riposte in essi.
Ma nel prendere una decisione del genere, si dovrà tener conto del giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici veramente competenti; costoro potranno senza dubbio giudicare meglio di ogni altro se l’investimento di strumenti e di personale è sproporzionato ai risultati prevedibili e se le tecniche messe in opera impongono al paziente sofferenze e disagi maggiori dei benefici che se ne possono trarre. — È sempre lecito accontentarsi dei mezzi normali che la medicina può offrire.
Non si può, quindi, imporre a nessuno l’obbligo di ricorrere ad un tipo di cura che, per quanto già in uso, tuttavia non è ancora esente da pericoli o è troppo oneroso. Il suo rifiuto non equivale al suicidio: significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia o alla collettività. — Nell’imminenza di una morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Perciò il medico non ha motivo di angustiarsi, quasi che non avesse prestato assistenza ad una persona in pericolo.
Conclusione
Le norme contenute nella presente Dichiarazione sono ispirate dal profondo desiderio di servire l’uomo secondo il disegno del Creatore. Se da una parte la vita è un dono di Dio, dall’altra la morte è ineluttabile; è necessario, quindi, che noi, senza prevenire in alcun modo l’ora della morte, sappiamo accettarla con piena coscienza della nostra responsabilità e con tutta dignità. È vero, infatti, che la morte pone fine alla nostra esistenza terrena, ma allo stesso tempo apre la via alla vita immortale.
Perciò tutti gli uomini devono prepararsi a questo evento alla luce dei valori umani, e i cristiani ancor più alla luce della loro fede. Coloro che si dedicano alla cura della salute pubblica non tralascino niente per mettere al servizio degli ammalati e dei moribondi tutta la loro competenza; ma si ricordino anche di prestare loro il conforto ancor più necessario di una bontà immensa e di una carità ardente.
Un tale servizio prestato agli uomini è anche un servizio prestato al Signore stesso, il quale ha detto: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt. 25, 40).
Roma, dalla sede della Sacra Congregazione per la Dottrina della Fede, il 5 maggio 1980.
+ Franjo Cardinale Seper
Prefetto
+ Fr. Jérome Hamer, O.P.
Arcivescovo tit. di Lorium
Segretario