Studi Cattolici n.566 aprile 2008
di Tommaso Piffer
«Improvvisamente la mia mente si riscosse ed ebbi una specie di rivelazione. La vita umana qui non ha valore, pensai amaramente. Non è più importante della cenere di sigaretta sparsa nel vento. Ma se la vita di una persona non ha valore, anche la società che foggia quella vita non ha valore. Se la gente non è altro che polvere, allora la società non vale nulla e non merita di continuare. E se la società rischia di non continuare, tocca a me fare qualcosa per impedirlo. In quel momento seppi che non potevo morire». Oggi Harry Wu ha settant’anni, diciannove dei quali passati in un lager della Cina comunista.
Il passaggio che abbiano citato è tratto dalle sue memorie (Harry Wu, Controrivoluzionario. I miei anni nel Gulag cinese, San Paolo, Cinisello Balsamo-Mi 2008, pp. 424, euro 22), di recente tradotte in italiano e pubblicate in collaborazione con Mondo e Missione, la rivista del Pime. Lo incontriamo a Milano, dove si trova in occasione di un giro di conferenze prima di tornare negli Stati Uniti.
Nato in una famiglia agiata, Harry aveva trascorso l’infanzia in una situazione tutto sommato privilegiata, studiando dai preti cattolici in un contesto molto lontano dalla povertà che affliggeva la Cina degli anni Trenta. La guerra civile e la presa del potere dei comunisti all’inizio non cambiano molto le cose. La gente, racconta Wu, si fidava di Mao, e appoggiava il regime che aveva eliminato la prostituzione, il gioco clandestino e la droga.
Lui stesso non si sottrae e all’età di 18 anni si trasferisce a Pechino per studiare Geologia: «Desideravo», scrive nelle sue memorie, «dedicare la mia vita ad aiutare il Partito comunista nella costruzione di un nuovo futuro, di una nuova nazione, in cui gli uomini potessero vivere con dignità, senza essere oppressi dal bisogno e dall’ingiustizia».
Incubi e orrori
Ma Wu aveva un padre «borghese», ed era battezzato: il suo destino è già segnato. Nel 1957, nel corso di uno dei numerosi incontri di indottrinamento politico ai quali tutti gli studenti sono sottoposti, si esprime contro l’invasione sovietica dell’Ungheria. È l’inizio di un incubo: accusato di essere un «controrivoluzionario di destra», vede crearsi rapidamente il vuoto attorno a sé. «Quando sono stato accusato di essere un controrivoluzionario di destra», ci racconta, «a scuola la gente ha smesso di parlarmi. Ero il capitano della squadra di baseball: il giorno dopo ero stato dimenticato. Gli altri membri della squadra mi hanno condannato. All’improvviso ero solo».
La pressione su di lui diventa enorme: è costretto a partecipare a infiniti gruppi di discussione durante i quali si elencano i suoi errori e le sue «devianze», deve scrivere una lettera di autocritica dopo l’altra, è sottoposto a continua sorveglianza. Neanche i parenti più stretti lo difendono, anzi lo accusano pubblicamente. Sua madre preferirà suicidarsi piuttosto che rinnegarlo, ma questo Wu lo avrebbe scoperto solo anni dopo. Nel 1960 viene arrestato e condannato all’ergastolo. Nel 1963 fa il suo ingresso nel Laogai, il sistema concentrazionario cinese.
Laogai è una sigla che sta per Laodong Gaizao Dui, e significa «riforma attraverso il lavoro». I Laogai sono parte integrante del sistema totalitario cinese, e hanno due funzioni: la prima è quella della rieducazione del prigioniero, che deve riconoscere i propri errori e imparare a comportarsi come un «buon rivoluzionario». La seconda funzione essenziale è quella di fornire una immensa forza lavoro a costo zero.
Se il primo elemento rende in qualche modo il sistema cinese peculiare rispetto a quello sovietico, per il resto leggere le memorie di Harry Wu non può non far tornare alla mente quelle di Alexander Solzenicyn. La vita nei campi è terribile, le condizioni sanitarie inesistenti, il cibo insufficiente e il tasso di mortalità elevato: «lavoravamo 18 ore al giorno, sette giorni a settimana, tutto l’anno», racconta Wu.
Ai prigionieri è richiesto di raggiungere una quota di lavoro prestabilita, e il cibo viene fornito in proporzione ai risultati raggiunti. Nel corso dei 19 anni passati nel Laogai Harry Wu verrà impiegato in diverse mansioni: lavorerà in una industria chimica, in una fattoria, in una acciaieria e in una miniera. Vedrà morire di stenti gran parte dei sui compagni. Ma non sono solo le terribili condizioni di vita che impressionano nelle sue memorie.
È soprattutto la completa disumanizzazione dei prigionieri, risultato di un continuo indottrinamento e della fame cui sono sottoposti, che li costringe a rinnegare tutte le più elementari forme di solidarietà umana pur di sopravvivere. Wu sarebbe arrivato a pesare 36 chili.
L’incubo finisce solo nel 1979, dopo diciannove anni, quando viene rilasciato insieme ai vecchi «controrivoluzionari» in seguito alla nuova politica stabilita dal partito dopo la morte di Mao. Wu calcola che di circa un milione di cinesi arrestati come lui con l’accusa di essere dei «controrivoluzionari di destra», solo diecimila sono sopravvissuti.
Una volta rilasciato, Harry Wu trova lavoro all’università di Pechino, fino a quando, nel 1985, riesce a raggiungere gli Stati Uniti. Solo in quel momento, ha raccontato poi, si è sentito libero. Con 40 dollari in tasca, ha tentato di ricostruirsi una vita.
All’inizio con un solo pensiero: dimenticare quello che era successo. «Nei primi tempi», ci dice, «il mio problema negli Stati Uniti era di procurarmi da vivere. Insegnavo in università e la sera lavoravo in un fastfood. I primi dieci giorni ho dormito per strada. Poi in una stanza con altri cinque studenti cinesi». Ma soprattutto, aggiunge, «il regime comunista era troppo potente e io non pensavo che la gente volesse stare a sentirmi. Avevo quasi cinquant’anni allora, e non volevo mettermi a combattere un regime».
All’inizio degli anni Novanta il Congresso americano gli chiede varie volte di testimoniare sulla sua esperienza nei campi di lavoro cinesi. Harry Wu accetta: da allora è sulla «lista nera» del governo cinese, ma non ha più smesso di combattere per far conoscere al mondo la realtà dei Laogai cinesi. «Anche se avevo trovato rifugio negli Stati Uniti», scrive, «non ero ancora riuscito a trovare pace. Ripensavo continuamente ai volti che mi ero lasciato alle spalle. Ero costantemente preoccupato dal fatto che, nonostante io fossi fuggito, il sistema della riforma attraverso il lavoro continuava a operare, giorno dopo giorno, anno dopo anno, ignorato su vasta scala, non sfidato e quindi immutato. Sentivo la responsabilità pressante non solo di denunciare, ma anche di rendere di pubblico dominio la verità sui meccanismi di controllo del Partito comunista, qualunque rischio corressi, qualunque disagio mi costasse rivelare la mia storia».
Difficile battaglia per la vita
Nel 1992 ha dato vita alla «Laogai Foundation», che si occupa di far conoscere al mondo le violazioni dei diritti umani in Cina. La Fondazione calcola che oggi siano oltre mille i campi ancora attivi, con un numero stimato di prigionieri che supera i tre milioni. Il governo cinese non ne riconosce ufficialmente l’esistenza. A
lcune cose con il tempo si sono modificate, lo stesso regime sotto certi aspetti è cambiato, ma bisogna rendersi conto che «in Cina c’è un regime comunista» e che «Laogai e democrazia sono incompatibili. Se c’è la democrazia non ci sono i Laogai. Se ci sono i Laogai non c’è la democrazia».
Nel 1995, quando ormai era diventato cittadino americano, è tornato in Cina per raccogliere prove dell’esistenza dei Laogai: il governo cinese lo ha immediatamente fatto arrestare e condannare a quindici anni di prigione per spionaggio. Solo la forte pressione internazionale ha permesso che la condanna fosse tramutata in espulsione dal Paese. Ma non è solo contro il sistema del lavoro forzato che combatte la Fondazione di cui è animatore: Harry Wu non si stanca di denunciare le forti restrizioni alla libertà religiosa, alla libertà di associazione, all’utilizzo di Internet da parte del governo.
E ancora, la tragica verità del traffico degli organi espiantati ai prigionieri giustiziati. La Cina, dice, è il secondo Paese al mondo per numero di trapianti effettuati, e la stragrande maggioranza degli organi proviene dalle esecuzioni. Nel corso di una battaglia che ormai dura da quindici anni, racconta Wu, l’atteggiamento della società occidentale è cambiato. «Non solo il governo americano, ma anche i semplici cittadini mi paiono sempre più interessati a questi temi».
Da quando è nata la Fondazione, il suo fondatore ha girato tutti gli Stati Uniti e buona parte dei Paesi europei. «Ma l’Italia», spiega, «è abbastanza indietro. Negli anni Novanta quando giravo l’Europa, da qui non mi è mai venuto nessun invito. Ci sono venuto solo come turista». Soltanto nel 2006 la casa editrice l’Ancora del Mediterraneo ha tradotto il libro Laogai. I gulag di Mao Zedong, che era uscito in inglese nel 1992. Nel 2006, peraltro, la forte resistenza di natura ideologica a questi temi presente nella cultura italiana si manifestò nella sua forma peggiore, quando una cinquantina di attivisti dei centri sociali impedirono la presentazione del libro a Roma.
Anche il volume pubblicato ora dalla San Paolo è uscito nella sua edizione originale inglese nel 1994, e ha quindi dovuto aspettare oltre tredici anni per essere reso accessibile al pubblico italiano. Ma Harry Wu non si scoraggia, e prosegue la sua battaglia contro l’indifferenza e il realismo politico di chi preferisce non toccare certi temi per timore di ripercussioni di natura commerciale.
«Non posso fare a meno di pensare», ha scritto sulla scelta di assegnare a Pechino le Olimpiadi del 2008, «che mentre a Hitler le Olimpiadi del 1936 furono assegnate senza immaginare gli orribili avvenimenti che sarebbero poi accaduti, a Pechino sono state concesse pur conoscendo l’efferatezza dei crimini che la Cina tuttora commette».