Decalogo contro la pillola RU486
La questione della vita è al centro della Dottrina sociale della Chiesa, come ha chiaramente indicato Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate. E’ al centro perché riguarda in modo radicale la dignità della persona e perché da come si affronta il tema del rispetto della vita umana dipendono tutte le altre questioni sociali. Su cosa si costruirà la vita comunitaria se la nostra coscienza è «ormai incapace di conoscere l’umano?» (Caritas in veritate n. 75) e se cediamo all’«assolutismo della tecnica».
L’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuân sulla Dottrina sociale della Chiesa propone un Decalogo contro la pillola RU486, che considera espressione di una cultura disgregativa, che distrugge la passione per la vita e colpisce fin nelle origini il significato dello stare insieme.
di Monsignor Giampaolo Crepaldi
Presidente dell’Osservatorio
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3. Sembra una medicina, ma è solo un veleno. Il mifepristone, chiamato Ru486 dall’industria farmaceutica Roussel-Uclaf che la studiò e la produce, compare in letteratura nel 1982 ed è un ormone steroideo sintetico che va a sostituirsi al progesterone, l’ormone che sostiene la gravidanza, rendendolo inefficace: di conseguenza l’embrione muore o, se sopravvive, il più delle volte ha gravi danni nello sviluppo e gravi handicap: questo è il motivo per cui, in Francia, le donne firmano un modulo che le impegna a ricorrere all’aborto chirurgico se la “pillola” non dovesse fare effetto completamente. L’associazione di mifepristone e prostaglandine non ha alcuna azione terapeutica, non cura nessuna malattia, non svolge alcuna azione benefica; ha un solo scopo: eliminare tramite la sua morte un embrione umano.
4. La “pillola” per abortire banalizza l’aborto. Utilizzare un prodotto chimico, per giunta catalogato come farmaco, induce due drammatici errori: ritenere che l’aborto sia un cosa facile e che rientri nell’ambito delle terapie mediche. Che non sia facile lo dimostrano le esperienze raccontate dalle donne, le tante sofferenze che restano sconosciute e possono manifestarsi anche dopo molti anni. Ed è una grave menzogna indurre a pensare che la gravidanza sia una “malattia” da potersi “curare”, ovvero da eliminare, attraverso una opzione medica. Una gravidanza è la presenza di un nuovo essere umano, non è un mal di testa o un raffreddore: non si trattano allo stesso modo!
5. L’ RU486 costringe la donna alla solitudine. Il mifepristone viene consegnato alla donna che lo assume personalmente; dopo qualche ora insorgono dolori ed emorragia che devono essere gestiti e monitorati personalmente, da riferirsi ad una successiva visita, durante la quale viene prescritta una seconda “pillola” che aiuta la definitiva espulsione dell’embrione. Il periodo di tempo in cui avviene il tutto può andare da tre a quindici giorni, con grande variabilità individuale dei sintomi dolorosi, per i quali comunque possono essere prescritti farmaci antidolorifici, sempre da autosomministrarsi. Impensabile che tutto il percorso sia realizzabile in ospedale, visti quali sarebbero i costi altissimi di un ricovero così prolungato: e questo pone la donna totalmente sola nella gestione dell’aborto, come avveniva e ancora avviene nell’aborto “clandestino”.
6. C’è poco tempo per una adeguata riflessione. Le pillole vengono consegnate alle donne in tempi necessariamente brevi, dovendosi assumere entro i primi 49 giorni della gravidanza per essere efficaci, non consentendo una articolata riflessione sulla decisione definitiva. La legge 194/78, che in Italia regolamenta l’aborto volontario, prevede che sia lasciato un tempo adeguato alla valutazione delle situazioni, delle possibili alternative e aiuti che la donna con gravidanza difficile può ricevere. L’RU 486 mette fretta, accorcia i tempi, appare anche nella sua tempistica come una “soluzione” rapida, quasi un automatismo: sono incinta – non lo voglio – prendo la pillola.
7. Svolge un’azione diseducativa.Quale può essere l’esito educativo di una mentalità di banalizzazione delle azioni, se non la deresponsabilizzazione? Se è possibile tecnicamente, non censurabile eticamente, accettato con disinvoltura e addirittura chiamato “progresso” e “conquista di civiltà” il fatto che, di fronte ad una difficoltà nella gravidanza, il modo più semplice per risolvere i problemi sia quello di “prendere una pastiglia”, come è possibile educare alla responsabilità?
8. Rappresenta una ideologia. L’auspicio, neppure troppo nascosto, è che questa modalità chimica diventi la normale via per abortire e che addirittura possa sostituirsi alla contraccezione, così da potersi ricorrere ad essa abitualmente. La mentalità di ricorso all’aborto tutte le volte in cui la contraccezione fallisce è uno degli effetti collaterali più pericolosi del cosiddetto “controllo delle nascite”. In un prossimo futuro, se davvero fosse utilizzata l’RU486 al primo insorgere delle gravidanze, l’aborto diventerebbe, ancor più di oggi, il mezzo di pianificazione familiare consueto, con una gravissima perdita di percezione della dignità della vita umana.
9. Non essendo un farmaco, non si può imporre ai medici di prescriverla. Spesso si associa il diritto all’obiezione di coscienza del medico e dell’operatore sanitario esclusivamente ad un intervento diretto. La somministrazione di farmaci è tendenzialmente vista come indifferente nella valutazione etica, poiché ciascuno sceglie e agisce in prima persona nell’assunzione di una medicina; questa “pillola” non è un farmaco e tantomeno un “salvavita”, anzi: perciò è il suo effetto (l’aborto diretto e volontario) che cade pienamente sotto la valutazione della coscienza di ciascuno. In particolare, ogni medico deve essere libero di dissociarsi e di rifiutarne la prescrizione, la quale sarebbe una attiva e consapevole cooperazione ad un atto reputato ingiusto e illecito.
10. Un aborto è sempre e solo un aborto. Nonostante la diffusione, nonostante i numeri tanto imponenti da oscurarne la percezione reale, nonostante l’inganno semantico di cambiarne il nome (interruzione volontaria della gravidanza), nonostante gli sforzi per renderlo inavvertito, banale, routinario, l’aborto resta un atto gravemente ingiusto, un lutto da elaborare, una ferita da guarire. Perderne consapevolezza non cambia la realtà dei fatti: un fatto è un fatto. In barba a tutte le ideologie.