L’ambientalismo e l’ecologismo mascherano un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura intesa in senso puramente naturalistico la salvezza per l’uomo
di Francesca Pannuti
Già da vari decenni siamo sottoposti alla pressione di una vera e propria forma di propaganda, attuata attraverso un’abbondante produzione di libri, articoli, trasmissioni televisive, di quello che viene chiamato «ecoterrorismo».
I temi ricorrenti, proposti a tale riguardo, sono il surriscaldamento del pianeta, l’aggressione della tecnologia sulla natura, i rischi per le specie in via di estinzione, la necessità di perseguire con urgenza uno «sviluppo sostenibile» pena la riduzione imminente delle risorse sufficienti per mantenere la popolazione e la conseguente distruzione dell’equilibrio ecologico del pianeta e della stessa vita su di esso.
Questo finisce per inoculare nella gente piccoli e grandi fobie su quello che mangiamo, respiriamo, facciamo, quasi che il mondo fosse popolato da mille pericoli, mille demoni e altrettanti idoli. A insistiti annunci catastrofisti, però, fanno frequentemente riscontro la loro smentita nei fatti e la scoperta della superficialità e inattendibilità dei dati proposti dai cosiddetti esperti, fino a giungere alla denuncia di vere e proprie manipolazioni od occultamento di dati come nel caso del Climategate.
Il prof. Robert Watson, che ha guidato l’Ipcc (Ufficio Onu per lo studio dei cambiamenti climatici) dal 1997 al 2002 ha dichiarato che «non è vero che ci stiamo squagliando. Il surriscaldamento del pianeta è un’enorme bufala. L’organismo delle Nazioni Unite che consiglia i leader mondiali sui cambiamenti climatici deve indagare sugli errori che hanno portato a esagerare l’impatto del riscaldamento globale» (Libero, 15 febbraio 2010).
Dietro a tale capillare opera di persuasione cosiddette associazioni non governative, in collaborazione con l’Onu, agiscono con lo scopo di diffondere un’«ecoteologia» di stampo panteista che promuove una «religione umanitaria» la quale mira a unire tutte le religioni della terra, cercando di raccogliere il consenso attorno alla comune lotta a favore dell’ambiente. Situazione, questa, già ampiamente prevista e in larga parte delineata da Solov’èv ne I tre dialoghi e il racconto dell’anticristo e da R. Benson ne Il dominatore del mondo.
L’uomo, «cancro» del pianeta
Facendo costante riferimento alle teorie del pastore Malthus, poi, si tende a creare la persuasione che la sovrappopolazione e l’uso della tecnologia sono i veri mali da combattere per salvare il pianeta, senza tener conto che la risorsa più importante è l’anima dell’uomo e che, col crescere della popolazione e con lo sviluppo della scienza, l’uomo ha messo in atto tecniche per creare beni in vista dello sviluppo, senza le quali il nostro pianeta sarebbe un deserto.
La stessa Onu spiegò che, se tra il 1900 e il 2000 la popolazione mondiale era aumentata di 4 volte, il Pil mondiale era cresciuto di ben 40 volte. In definitiva, le associazioni ambientaliste colpevolizzano l’uomo, indicandolo come il «cancro del pianeta», da estirpare, mediante il «controllo delle nascite», al fine di salvare la natura. Ciò si deve realizzare attraverso sterilizzazioni di massa, aborti, quando non con la definitiva estinzione (sic) dell’uomo. La terra, Gaia, viene considerata come una dea da adorare, a cui sacrificare i figli degli uomini, in una sorta di neopaganesimo di stampo panteista.
Un esempio sconcertante: il 14 ottobre 2003 il Centro Internazionale Crocevia, Greenpeace Italia, Verdi Ambiente Società, Associazione Italiana Agricoltura Biologica, Associazione rurale italiana e Flai-Cgil si sono ritrovati davanti al Tempio di Vesta a Roma per chiedere alla dea Cerere di liberare l’Italia dagli organismi geneticamente modificati.
Di fronte a questa vera e propria aggressione alla dignità dell’uomo, il Papa, sia nell’enciclica Caritas in ventate (cfr C. Cavalieri, «Per un’ecologia “umana”», Sc n. 587, gennaio 2010, p. 1), sia nel Messaggio per la XLIII giornata mondiale della pace, 1 gennaio 2010, come pure in vari altri interventi, insiste nel sensibilizzare le coscienze sull’importanza dell’ecologia, ma dell’«ecologia umana», come via per la pace e per lo sviluppo (cfr C. Cavalieri, «Per un’ecologia “umana”», cit.).
La lungimirante azione del Pontefice, accogliendo le esigenze autentiche di una sana ecologia, ribalta l’impostazione neopagana che nega la creazione, la trascendenza divina, la dignità dell’uomo, creato a somiglianza di Dio, e ricupera il valore dell’autentico rapporto creaturale. Egli, nel suo In principio Dio creò il cielo e la terra. Riflessioni sulla creazione e sul peccato, Lindau, 2006, ha affermato: «La minaccia alla vita da parte dell’azione dell’uomo, di cui oggi tanto si parla, ha conferito nuova urgenza al tema della creazione. Nello stesso tempo, però, assistiamo paradossalmente alla scomparsa quasi totale dell’annuncio della creazione dalla catechesi, dalla predicazione e perfino dalla teologia. I racconti della creazione vengono taciuti; le loro affermazioni non sembrano più proponibili» (Premessa, p. 9).
Il rimedio a tale situazione, dunque, non può essere che il ricupero di una corretta visione della metafisica, della teologia, dell’etica e quindi anche dell’ecologia, che mostri di nuovo il mondo permeato di quella verità e di quell’amore con cui è stato creato da Dio. Solo l’amore, infatti, può mostrare il senso profondo della dipendenza creaturale, che il panteismo rifiuta, cioè la libertà.
Benedetto XVI, in tal modo, si pone in continuità con gli appelli di Giovanni Paolo II alla responsabilità nei confronti del creato, allorché affermava che l’umanità è di fronte a un bivio: fare della terra un giardino o un deserto, a motivo dell’incombente rischio di autodistruzione per la messa in atto da parte dell’uomo di comportamenti sempre più distanti dalla morale, tali da minacciare la pace fino a condurre a conflitti nucleari di portata insospettabile.
E la via indicata dai Pontefici è quella di collegare inscindibil-mente la cura per il creato con quella per l’uomo, nel rispetto del diritto alla vita umana, di ricuperare un’etica secondo il diritto naturale, nonché di denunciare le dottrine che a ciò si oppongono, in particolare il panteismo: «Si viene di fatto a eliminare l’identità e il ruolo superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della “dignità” di tutti gli esseri viventi. Si da adito, cosi, a un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo» (Messaggio, cit.).
Tale mentalità, invero, si insinua in svariati ambiti della nostra cultura, dalla filosofia, dalla teologia, ai massmedia, ai giocattoli per bambini, ai cartoni animati come per esempio Kungfu panda, dove, accanto alla trasmissione di valori condivisibili, si propone una visione del mondo dove è assente il senso della trascendenza. Inoltre, come rileva bene Nicola Bux nel suo Dove egli dimora. Il senso dell’orazione nella vita cristiana, San Paolo, Milano 2005, tra i fedeli si sta diffondendo una certa diffidenza nei confronti della gestualità tipica della preghiera, perché si pensa, sotto l’evidente influsso di una concezione panteista della corporeità, simile a quella buddhista, che per elevarsi a Dio occorra estraniarsi dal corpo.
Conseguenze di questo modo di concepire la preghiera sono il rifiuto di esprimere mediante genuflessioni il profondo senso di adorazione che l’anima vive in sé, l’attrattiva sempre maggiore che si prova verso l’interpretazione data dai monaci buddhisti al rapporto con il divino, e, all’estremo, l’introduzione, in seno alla preghiera cristiana, di formule tipiche della meditazione orientale, come suggerisce il gesuita De Mello.
Confusione di realtà
II panteismo, dunque, termine utilizzato a partire dal XVIII secolo, designa un’impostazione filosofica che attraversa pressoché tutta la storia del pensiero ed è caratterizzata dalla coincidenza tra mondo e divino (pàn, «tutto» e Théos, «Dio»). Non si tratta di una semplice immanenza o presenza del divino in noi, bensì di effettiva confusione di realtà, che non può che condurre all’ateismo.
Già questo ci fa capire l’irrazionalità che sta alla base: far coincidere ciò che è eterno e immutabile con il divenire. Ne deriva come conseguenza che si fa di ciò che è mutevole un assoluto, così che esso finisce per essere un «prodotto» del primo (orientamento materialista), oppure il divenire è ridotto a mera apparenza da superare in un annullamento nel divino. In ogni caso non si riesce a dare adeguata consistenza al divenire e a concepire che in esso entra sì il non essere, ma come un non essere ancora o non essere più, un non essere questo o quell’altro.
Il panteismo, invece, finisce per considerare anche il male in esso contenuto qualcosa di insuperabile, necessario alla realizzazione del bene, quindi di confuso con esso, tanto da rendere ogni azione umana inefficace o inutile: «Non c’è nessuna reale possibilità di ricavare dal panteismo alcun particolare impulso all’azione morale», sostiene Chesterton, «perché il panteismo implica essenzialmente che una cosa è altrettanto buona quanto un’altra; mentre l’azione implica essenzialmente che una cosa sia grandemente preferibile a un’altra» (G. K. Chesterton, Ortodossia, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 182-183).
L’esito inevitabile è o la ricerca di liberazione dal transeunte e l’annullamento nel divino, oppure la proposta di questo mondo, vero «regno di dio», come unica sfera di azione per l’uomo. L’etica, quindi, viene dissolta di fronte all’ineluttabilità degli eventi della storia e alla legittimazione del «buonismo», mediante l’attribuzione all’uomo, unica creatura razionale sulla terra, della qualifica del divino. «Sbaglia di grosso», sostiene ancora Chesterton, «chi ritiene che il fatalismo materialistico induca all’indulgenza e sia favorevole alla abolizione della crudeltà delle pene o all’abolizione delle pene senz’altro. La verità è esattamente il contrario.
La dottrina della necessità verosimilmente non cambia niente… Il determinismo porta, se mai, alla crudeltà come porta sicuramente alla vigliaccheria… il determinismo non crede che si possa fare appello alla volontà, ma crede al cambiamento di ambiente. Esso non deve dire al peccatore: – Va’ e non peccar più -, perché il peccatore non può convertirsi; ma può prenderlo e tuffarlo nell’olio bollente per fargli mutare ambiente» (ivi, p. 36). L’idolatria della natura, pertanto, coesiste con la gnostica esaltazione dell’uomo considerato «come dio», e con la legittimazione del potere tirannico.
Dimostrazione di ciò si ha in quanto sta accadendo in Laos. Il regime comunista, che convive con il 65% della popolazione buddhista, perseguita i cristiani, 48 dei quali sono in carcere finché non avranno deciso di rinunciare alla loro fede. In definitiva la radice gnoseologica del panteismo va vista nella filosofia idealista, laddove, per il totale abbandono del realismo tomista che vedeva il pensiero «ubbidiente» al reale, l’essere stesso viene fatto coincidere con l’idea, e come tale diviene «mio prodotto».
A chi obiettava a Hegel che la realtà non stava proprio come egli affermava, la risposta era: «Tanto peggio per la realtà». Questa posizione trova la sua spiegazione laddove si rifletta che l’uomo, che nega il Creatore e la sua somiglianza e sinergia con Esso, ha una sola possibilità concreta di farsi esso stesso dio e creatore, nel fare il male sottraendosi alla legge dettata da Dio.
La matrice satanica di tale soggettivismo si manifesta bene all’interno della setta gnostica (la divinità gnostica ha assunto sia la forma trascendente sia quella panteista, cosa che non stupisce, poiché in alcuni autori, come Plotino, il panteismo convive con un malinteso senso della trascendenza) dei Cainiti dove il vero dio è il serpente del paradiso terrestre, annunciatore della «vera libertà», intesa quale liberazione dalla legge imposta dal Dio «oppressore». In tale contesto soggettivistico, dunque, l’altro, il tu, non è se non una mia rappresentazione, un qualcosa di «strumentale» alla mia volontà; i rapporti sociali (anche quelli improntati sulla «solidarietà») non sono altro che funzionali al mio egoismo, al mio desiderio di potere.
«Superare» il cristianesimo
Resta l’importante esigenza di fondo del panteismo che viene manifestata anche da movimenti come il New Age e da filosofie con risvolti religiosi: il desiderio di raggiungere un rapporto più intimo con il divino, superando ogni forma di estraneità con esso, come pure una visione «olistica» (totale) della natura, contraria alla concezione meccanicista.
Ma è proprio nel New Age, movimento sincretistico simpatizzante per le religioni orientali e il neopaganesimo, che tale esigenza vede deluse le sue aspettative. Esso propone il rifiuto della centralità dell’uomo nel mondo, la rinuncia alla pratica ascetica delle virtù per favorire l’uso di tecniche di carattere psicologico o esoterico, fino a quello degli stupefacenti, per migliorare la capacità di rientrare in sé stessi, la promozione a livello politico e culturale di una religione umanitaria mirante al «superamento» del cristianesimo in cui l’uomo, tramite politiche di controllo delle nascite ed esperimenti genetici, finisce per crearsi da sé.
L’affermazione di san Paolo, secondo cui in Dio viviamo, ci muoviamo e siamo (cfr At 17, 28), va intesa, secondo l’interpretazione data da san Tommaso (cfr Summa, I, I, q. XVIII, a. IV), nel senso che noi siamo conservati nell’essere dalla potenza divina, in quell’essere, di cui non c’è niente di più intimo in noi, dal punto di vista naturale. Ma è questo nostro essere sottoposti al «potere» forte e soave dell’amore di Dio che non viene accettato dal panteista, il quale vede questo legame d’amore come qualcosa di troppo sottile, forse inaffidabile.
Si insinua il sospetto satanico sulle vere intenzioni di Dio, a somiglianza del sibilo del serpente nel paradiso terrestre. Occorre, pertanto, smascherare il volto del panteismo per liberare Dio dai falsi concetti che gli attribuiamo. L’eliminazione, dunque, dell’idea stessa di creazione (oppure la riduzione di dio alla causa materiale o solo formale del mondo, ovvero la concezione del mondo come una teofania o un’emanazione del divino), allo scopo di sottrarsi al «potere» di Dio, per appropriarsene, fa scomparire il rapporto di immagine e somiglianza tra noi e Dio, e, a livello metafisico, i concetti di analogia e di partecipazione.
A ciò va aggiunto che solo in Cristo la divinità e l’umanità si uniscono così da non essere confuse, bensì inseparabilmente legate, e che la vita mistica di profonda unione con Dio può squadernare le sue infinite possibilità solo a partire da Cristo. Ora, però, in un contesto di immanentismo, si finisce per deformare anche il rapporto tra le due nature in Cristo, attribuendo a Dio la mutevolezza e l’ambiguità del reale segnato dal peccato.
Così da Lutero si giunge a Hegel, fino a von Balthasar, a Rahner, all’esistenzialismo, in un malinteso rapporto tra natura e soprannatura. Il primo infatti, vedendo la creazione segnata dal peccato, afferma: «L’uomo è infatti uomo finché non diventa Dio, il solo che è verace… Mediante questo uscire da se stesso egli ritorna nel nulla. Dove finisce infatti colui che spera in Dio se non nel proprio nulla? E chi finisce nel nulla, dove finisce se non là da dove proviene? Ora però l’uomo proviene da Dio e dal proprio nulla; pertanto chi ritorna nel nulla ritorna a Dio» (WA 5, 167, 40 ss., cit. in Ratzinger-Benedetto XVI, In principio Dio creò il cielo e la terra, cit., p. 135).
La presenza del male, pertanto, viene esigila in Dio e lo stato di peccato attribuito da Lutero a Cristo morente in croce. Von Balthasar, da parte sua, riconosce un conflitto di volontà tra Cristo e il Padre e dell’inferno in dio (salvo poi rassicurare dicendo che tutti si salvano), fino a negare la visione beatifica in Cristo almeno per un certo tempo. Da qui a fare di Gesù un eroe gnostico, che ha ricevuto nel tempo la rivelazione della sua missione, secondo la raffigurazione propria del film Matrix, il passo è breve.
Anche Rahner non contempla la presenza della visione diretta del Padre da parte di Cristo perché non riesce a spiegare in Lui la compresenza di due intelligenze e due volontà in una sola persona. Egli, pur negando esplicitamente il panteismo, però finisce per cadere in svariate contraddizioni, causate dalla sua impostazione filosofica che vede l’essere coincidente con l’autocoscienza, e il mondo come autocomunicazione di Dio.
Svalutazione della singolarità
II panteismo, che tende ad assumere mille forme e mascherarsi sotto la veste della scienza o della religiosità, si manifesta fin dall’antichità nelle religioni naturali, come quella del Veda, del bramanesimo, del buddhismo, dove si tende a riconoscere dio in noi e a superare l’apparenza delle cose esterne per annullarsi nell’Anima universale.
Già qui si nota l’incapacità di vedere nella divinità, riconosciuta come entità indefinita e universale, le caratteristiche di un tu personale cui potersi rivolgere. Questo porta qui, e, almeno in parte, nella riflessione greca influenzata da forme panteiste, alla svalutazione della singolarità anche nella sfera dell’umano. «Ora Parmenide dal confronto dell’esistente col nulla assoluto ricava giustamente l’essere come un’unità che si pone al di là delle differenze tra le singole essenze e i singoli supposti individuali», osserva Tomas Tyn, «eppure la ricerca impostata con sorprendente profondità sull’asse soggetto-esistenza non conduce – cosa questa, dovuta alla sua logica interna – alla scoperta dell’essere trascendente, in quanto l’essere scoperto nella sua assoluta attualità non può porsi al di là del soggetto esistente per il semplice motivo che tale soggetto è del tutto assorbito dall’essere che gli appartiene. Si ritorna così al monismo immanentistico ben inferiore alle virtualità incluse nel principio “essere”. L’attualità parmenidea non consente potenzialità alcuna» (Tomas Tyn, Metafisica della sostanza. Partecipazione ed analogia entis, Esd, Bologna 2000, n. 5, p. 32).
Se, poi, in Platone non manca anche un elemento panteistico rappresentato dal fatto che il mondo è un «grande organismo vivente», dotato di una sua anima, nei pensatori stoici si nota un deciso panteismo materialista e in Plotino quello di natura emanazionista. Nei primi, una Ragione universale o Fato, costituita di materia sottilissima, governa il mondo secondo una ferrea necessità, in cui la presenza del male è funzionale all’armonia universale.
La libertà, mancando il riferimento a un Dio personale dotato di intelligenza e volontà, non è contemplata se non come sottomissione allo stato necessario delle cose. L’anima, di natura corporea come le sue facoltà, dopo un tempo di sosta nella regione sopralunare in seguito alla morte, è destinata ad annullarsi nella Ragione universale. L’impossibilità, dunque, nell’impostazione panteista, di apprezzare la superiorità della sfera spirituale su quella materiale e la frequente svalutazione della materia conducono inevitabilmente a visioni riduzioniste in ambito etico quanto al rapporto tra anima e corpo.
Pure il pensiero contemporaneo sembra non riuscire a scrollarsi di dosso retaggi immanentistici e pantelstici che si rifanno, nel sincretismo proprio della New Age, al panteismo di Bruno, adombrato dai colori, oggi particolarmente alla moda, di un misticismo agnostico e magico. Quanto al soggettivismo idealista, esso risente dell’influsso del pensiero di quell’autore che ha fatto del panteismo il centro della sua riflessione, Spinoza.
Secondo questi, l’unica sostanza esistente, il Deus sive natura causa di sé stesso, incapace di produrre alcunché al di fuori di sé, è dotata di un’infinità di attributi coincidenti con essa, così che l’essere, il pensare, l’agire vengono a identificarsi, e gli enti finiti sono ridotti a semplici modi di essa. La libertà viene dissolta in un sistema del tutto deterministico e il male, mera apparenza, non è che una manifestazione della natura, è la natura, è dio stesso.
Spinoza ha, in tal modo, aperto la strada all’idealismo, che, in forme mascherate, viene oggi riproposto instancabilmente in svariate correnti teologiche e filosofiche, in seno a certa critica esegetica e a certa teologia «trascendentale». Anche l’ascoltatissimo Vito Mancuso, ritenendo che lo spirito non è qualcosa che si oppone alla materia, bensì ne è il frutto, conclude che se Dio esiste va pensato come natura (cfr Gianni Baget Bozzo, «Teologismi esistenzialisti di Vito Mancuso», Sc n. 578, aprile 2009, pp. 271-272).
Non si comprende, invero, che la strada per una nuova filosofia e una nuova teologia, capaci di soddisfare le esigenze profonde della nostra interiorità e spiritualità, non può non ripartire dal realismo teista di san Tommaso, che ci ricorda che il vero appartiene al nostro intelletto in quanto si conforma alla res, dalla quale riceve la conoscenza, e che la verità sarà nella cosa solo grazie alla sua conformità all’intelletto divino (cfr Gc 1, 16-18).