L’Intraprendente, 28 agosto 2013
L’invito di al Bustanji è il trionfo dell’ideologia del politically correct, che ci rende rispettosi di tutti meno che di noi stessi e della nostra cultura. Urge cambiare rotta se non vogliamo che c’islamizzino col nostro tacito consenso
di Marco Respinti
E se la libertà religiosa è il contrario esatto del relativismo teologico e culturale, la libertà religiosa non è mai e poi mai stata nemmeno intesa come semplice libertà di culto per i cristiani (a discapito degli altri). Ma che la libertà religiosa faccia da copertura alla violenza anche solo annunciata, corteggiata o esaltata – come evidenzia il caso dell’imam Riyadh al Bustanji– è un segno tragico dei tempi bui in cui viviamo.
Soprattutto perché il tutto avviene con il consenso informato e plaudente delle vittime designate.La malriposta nostra fiducia in un concetto di “tolleranza” che tanto più ci piace quanto più è ambiguo e sfuggente c’impedisce infatti di discernere con criterio fra gl’interlocutori che la globalizzazione e il pluralismo contemporanei ci pongono innanzi, e, per non sbagliare, consentiamo tutto e tutto permettiamo, salvo ciò che mette in discussione questo permissivismo acritico e insulso.
Così, chi solo osa porre qualche domanda in questa che Eric Voegelin (1901-1985) definiva acutamente l’epoca del “divieto di fare domande”, come di fronte all’intollerabile estremismo di Riyadh al Bustanji ha fatto il portavoce della sinagoga Beth Shlomo Davide Romano, si pone automaticamente dalla parte del torto. Seppur perversa, in tutto questo una logica del resto c’è. Se infatti non esiste alcun criterio per distinguere e quindi anche per discriminare – cioè scegliere a ragion veduta dopo aver conosciuto attraverso lo studio delle cause –, chiunque agisca in base a un qualsiasi metro di giudizio è poco meno che un criminale colto in flagrante.
Abbiamo imparato a chiamarlo “politicamente corretto”, e a subire le angherie del suo totalitarismo repressivo e inibente, ma è molto di più che una facile formuletta a uso giornalistico. È piuttosto la resa totale di una cultura intera, la nostra, quella occidentale, che, non sapendo più rendere conto di sé anzitutto a se stessa, di fronte a terzi non sa far altro che calare le brache.
In Italia, Paese di buontemponi e di mezze tacche, lo facciamo alla buona, cucinando salamelle alla festa di quartiere, organizzando i “festival dei diversi” o al più attraverso un servizio al tiggì stucchevole, banale e buonista, e per questo ci pare di accorgercene meno. Negli Stati Uniti, invece, che sono un Paese molto più serio, la cosa è nota sin dai tempi della resa di fronte all’obbrobrio comunista, nel 1964, quando James Burnham (1905-1987) titolò un suo piccolo capolavoro nientemeno che “Il suicidio dell’Occidente” (trad. it. Edizione del Borghese, Roma 1965).
In quelle sue pagine, forse più comprensibili oggi di allora, semplicemente sostituendo l’islamismo al comunismo, venivano dettagliatamente descritti la nascita e lo sviluppo di quel falso mito incapacitante che invece di fondare (come ogni buon mito vero fa) sgretola e distrugge un mondo intero per dabbenaggine, inanità e ignavia. Si chiama “democrazia”, specialmente quella moderna, in sé piuttosto diversa da quella ateniese delle origini, che, avendo tutto aggredito e inghiottito, costituisce oggi il ventre molle dell’Occidente. Il suo debolismo strutturale: sordo e muto.
Sotto quello stesso vecchio titolo, in anni più vicini il filosofo inglese Roger Scruton ha riattualizzato e perfezionato la lezioni di Burnham pubblicando “Il suicidio dell’Occidente” (intervista a cura di Luigi Iannone, Le Lettere, Firenze 2010). Un decennio fa, più o meno, il sempre lucidissimo Giuliano Ferrara la chiamava “stanchezza dell’Occidente”. Nel Quattro-Cinque-Seicento, sempre più o meno, si manifestò come un manierismo intellettualistico da Azzeccagarbugli che iniziò il declino della filosofia.
Oggi, a itinerario forse inesorabilmente compiuto, è l’incapacità di (voler) sapere chi siamo a impedirci di (voler) mettere un freno agl’imam esaltati, ai loro insipienti fiancheggiatori neopostcomunisti di cui sono colme le nostre giunte cittadine o ai jihadisti che si agitano Oltremare. Un altro americano, di origini ungheresi, Paul Hollander, sempre trattando – allora – di comunismo, descrisse questa mortifera cupio dissolvi del “mondo libero” in un libro disgraziatamente troppo poco studiato, Pellegrini politici. Intellettuali occidentali in Unione Sovietica, Cina e Cuba (trad. it. Il Mulino, Bologna 1988), denunciando i pericoli dell’appeasement.
Siccome, come ricordava George Santayana (1863-1952), chi non riesce a ricordare il passato è condannato a ripeterlo, eccoci qua tutti ancora una volta proni a servire e a riverire i nostri carnefici. L’arrendevolezza attuale dell’Occidente stanco, debole e malato può essere l’inizio della fine della sua storia gloriosa di libertà e di civiltà. I jihadisti lo hanno capito bene, ed è per questo che si propongono alla nostra maleodorante voglia di eutanasia come coadiutori del suicidio assistito.