di Giacomo Samek Lodovici
Molti credenti, quelli fideisti, ritengono che la fede sia (più o meno) irrazionale, cioè senza rapporto con il ragionamento, dicono che l’atto di fede è un sentimento, uno slancio, un trasporto. Essi, a volte, considerano l’atto di fede addirittura un salto nel buio (con ciò inserendosi nel solco di Lutero, secondo cui la ragione è «la prostituta del diavolo»); altre volte, meno radicalmente (ma sempre come i luterani), professano il “biblicismo”, cioè ritengono che l’unica conferma dell’atto di fede sia da trovare nella Bibbia.
Ora, tale insegnamento è stato ribadito in modo deciso da Giovanni Paolo II (nonché oggi da Benedetto XVI), che ha criticato molto chiaramente i fideisti: «Non mancano […] pericolosi ripiegamenti sul fideismo, che non riconosce l’importanza della conoscenza razionale e del discorso filosofico per l’intelligenza della fede, anzi per la stessa possibilità di credere in Dio. Un’espressione oggi diffusa di tale tendenza fideistica è il biblicismo, che tende a fare della lettura della Sacra Scrittura e della sua esegesi l’unico punto di riferimento veritativo» (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, 55, d’ora in poi FR).
Del resto, un errore ancor più frequente è considerare la fede e la ragione come se fossero due distinte facoltà dell’essere umano, quando invece la ragione è una facoltà che esercita anche l’atto di fede: «la fede, infatti, è in qualche modo [un] “esercizio del pensiero”» (FR 43), a cui si accompagnano alcuni sentimenti (di slancio, devozione, affetto, talvolta di paura, ecc.), che però non ne costituiscono l’essenza, ed il credere è «pensare assentendo», cosicché «chiunque crede pensa» (FR 79).Infatti, l’atto di fede e l’atto di ragionamento filosofico sono due atti attraverso cui quella facoltà che è la ragione acquisisce una conoscenza, in sinergia con la volontà (FR 13). Può sembrare strano che anche l’atto di fede sia un atto realizzato dalla ragione, ma l’atto di fede è un’attività conoscitiva della ragione ed affermare «io credo a ciò che tu mi dici» equivale a dire «io considero vero ciò che tu mi dici».
Ora, è la ragione che considera veri o falsi un’affermazione ed un giudizio, è la ragione che dà l’assenso ad un’affermazione: noi compiamo atti di fede quando la nostra ragione considera vera (dà il suo assenso) un’affermazione che qualcuno (un parente, un amico, un libro, un giornale, la Chiesa, ecc.) ha pronunciato o scritto.
Il che vuol dire che c’è un atto di conoscenza della ragione credente ed un atto di conoscenza della ragione filosofante. Compiamo un atto di ragionamento filosofico quando con la nostra ragione acquisiamo direttamente una conoscenza senza ricorrere a qualcun altro; compiamo un atto di fede quando con la nostra ragione acquisiamo indirettamente una conoscenza e la riteniamo vera af-fidandoci a qualcun altro che la pronuncia.
Ora, per comprendere il rapporto tra fede e ragione i contributi più importanti di Papa Wojtyla sono due encicliche, la Veritatis Splendor (d’ora in poi VS) e, soprattutto, la Fides et ratio, quest’ultima dedicata appositamente a tale tema, che Giovanni Paolo II conosceva molto bene, essendo stato docente universitario di filosofia.
Il nesso tra VS e FR lo dichiara esplicitamente la stessa FR (al punto 6), spiegando che il tema della verità è il baricentro di queste due encicliche. In effetti, il Papa venuto dalla Polonia ha instancabilmente proclamato che l’uomo (cfr. per es. FR 24-29) è un cercatore della verità capace di conseguire, almeno in parte, la verità su stesso, sul senso della vita, sull’esistenza di Dio, sul senso della sofferenza, sul bene e sul male, cioè è capace di dare in una certa misura una risposta alle grandi domande che l’uomo da sempre si pone nel suo cuore, prima o poi, durante la sua vita. Nell’uomo c’è dunque un desiderio di verità, quella di cui parlano i grandi pensatori greci, per esempio Aristotele, che inizia la sua Metafisica rilevando che «tutti gli uomini, per natura desiderano sapere».
Ora, dice l’incipit di FR, «È Dio ad aver posto nel cuore dell’uomo il desiderio di conoscere la verità e, in definitiva, di conoscere Lui». Precisamente, «Dio, in quanto fonte di amore, desidera farsi conoscere, e la conoscenza che l’uomo ha di lui, porta a compimento ogni altra vera conoscenza […] circa il senso della propria esistenza» (FR 7). Infatti, sapere se Dio esista è essenziale per risolvere le domande sul senso della vita, sulla felicità umana, sulla sofferenza, sulla morte, ed è la chiave per giudicare eticamente ogni attività umana (politica, economica, scientifica, ecc.).
Pertanto bisogna scongiurare quel «processo di secolarismo, nel quale tanti, troppi uomini pensano e vivono “come se Dio non esistesse”. […] Urge allora che i cristiani riscoprano la novità della loro fede e la sua forza di giudizio» (VS 88), cioè la capacità della fede di indicare dei criteri per orientare l’agire, invece che relegare la fede nell’ambito del privato e della sola coscienza interiore.
Con queste affermazioni Giovanni Paolo II ha voluto energicamente reagire al nichilismo (su cui cfr. FR 46 e 90), secondo cui l’esistenza umana è insensata, allo scientismo (cfr. FR 88), che squalifica tutte le conoscenze (per esempio quella religiosa) diverse da quella scientifica ed al relativismo (su cui cfr., per esempio, FR 5 e 48), che asserisce l’impossibilità di conoscere la verità su noi stessi e sul senso della nostra vita.
Già Platone ribatteva al relativismo dei suoi tempi (quello dei sofisti) che chi afferma che «la verità è inconoscibile» cade in contraddizione perché, di fatto, sta inconsapevolmente affermando: «la verità è inconoscibile, ciò è conoscibile ed è una verità», cioè pretende di affermare come oggettivo che tutto è soggettivo (ci sono versioni più sofisticate di relativismo, ne sono state contate numerosissime varianti, ma si potrebbe dimostrare che nessuna riesce a sfuggire all’autocontraddizione).
Considerato che la verità è conoscibile, almeno in parte (senza mai essere squadernabile totalmente, come pretendeva presuntuosamente l’idealismo, non certo i pensatori di ispirazione cristiana), FR illustra il rapporto tra fede e ragione, e più precisamente tra Rivelazione cristiana e filosofia.
Da un lato la Rivelazione cristiana promuove ed incentiva la filosofia:
− «provoca la mente dell’uomo a non fermarsi mai» (FR 14);
– talvolta (FR 76) le sottopone dei temi da dimostrare (per esempio la filosofia greca non è riuscita comprendere la dignità di ogni essere umano o la nozione di persona, pur essendo esse accessibili di per sé alla ragione senza bisogno della Rivelazione);
– talvolta procede oltre il limite sul quale la ragione con le sue sole forze si deve arrestare (per esempio riguardo all’Incarnazione alla Trinità, cfr. FR 93), comunicando all’uomo quelle verità che la ragione umana da sola non può cogliere, ma su cui essa può cimentarsi (cfr. per es. FR 66, 73 e 93), per comprenderle meglio, una volta che le ha ricevute;
− talvolta (FR 49-50) la riporta sulla strada della verità quando la filosofia la sta smarrendo, perché quando la filosofia entra in contrasto con la Rivelazione i casi sono due: o la Rivelazione è stata mal interpretata e dunque ha ragione la filosofia, oppure l’interpretazione della parola di Dio, che è verace, è giusta e allora la filosofia si sta allontanando dalla verità.
Dall’altro la (buona) filosofia non collide con la Rivelazione, bensì ne aumenta la comprensione e rafforza di conseguenza l’atto di fede. Infatti, la filosofia:
− può anzitutto dimostrare con degli argomenti filosofici (che resistono alle note critiche di Kant e di altri) l’esistenza di Dio risalendo dal mondo a Dio (FR 19), dall’effetto alla causa (FR 22), dal contingente all’infinito (FR 24), «dal fenomeno al fondamento» (FR 83);
− può inoltre dimostrare alcune caratteristiche di Dio (può argomentare che Dio è Persona, Onnipotente, Eterno, Infinito, Perfetto, Somma Bellezza, Somma Verità, Somma Bontà, Sommo Amore, ecc.), perciò il Dio dei filosofi non è inconciliabile (pur essendo ovviamente meno “completo”, meno “ricco” di attributi) con il Dio della fede, anzi aiuta a comprenderlo e ad esercitare l’atto di fede;
− può dimostrare (FR 66 e 98) con la ragione la verità di certi principi etici («non commettere atti impuri», «non mentire», «non bestemmiare», «non divorziare», «non uccidere», «non rubare», ecc.) che si trovano nella Rivelazione e la verità di altre norme («non fabbricare uomini in provetta», «non abortire», ecc.) che si possono ricavare da essa.
Ora, le prove razionali dell’esistenza di Dio possono essere sottoposte anche a colui che non crede alla Rivelazione, perché ogni uomo possiede la ragione. In tal senso, attraverso la filosofia, chiunque, anche se non ha ricevuto il dono della fede (dono che peraltro bisognerebbe volere e cercare di ricevere; ma questo sarebbe un lungo discorso), può pervenire all’affermazione dell’esistenza di Dio.
Inoltre la filosofia può portare soccorso anche a chi è già credente, giacché persino i più grandi santi hanno vissuto periodi di “notte dello spirito”, di interiore aridità spirituale e di incertezza. In simili momenti la filosofia può sostenere l’atto di fede, aiutando un essere umano a superare i dubbi, a vincere le incertezze, a perseverare, ecc.
Insomma (per esemplificare ciò che non viene detto esplicitamente in FR, ma corrisponde fedelmente al discorso ivi svolto), gli esseri umani diventano cristiani:
− a volte perché amano e/o stimano qualcuno e perciò aderiscono alle sue affermazioni su Dio;
− a volte perché vengono convinti da dei ragionamenti;
− a volte perché percorrono simultaneamente entrambe le strade appena menzionate;
− a volte per un’irruzione speciale della grazia.
Per esempio, S. Agostino si convertì anche grazie alla lettura dei libri dei neoplatonici ed Edith Stein arrivò alla conversione anche attraverso una formazione filosofica. Un caso recente e significativo, riferito in un libro, è quello di Janne Haaland Matlary (autrice del libro Una scelta d’amore, Leonardo Mondadori Editore, 2004, prefazione di J. Ratzinger), già Viceministro degli Esteri e figura di grande rilievo in Norvegia, che era agnostica (in certi momenti atea) e che si è convertita grazie alla filosofia: «Si è trattato di una conversione intellettuale. […] mi sono imbattuta in Aristotele e San Tommaso d’Aquino.
Nel momento in cui ho scoperto il realismo ontologico, ho pure trovato la Chiesa» (http://mascellaro.it/node/25419); e Magdi Allam ha raccontato che il discorso, fatto a Ratisbona da Benedetto XVI, sul contributo della filosofia alla fede, e la corrispondenza tra Rivelazione e ragione (filosofica) sono stati fondamentali nella sua conversione al cristianesimo (lo scrivente potrebbe aggiungere altri nomi di convertiti grazie alla filosofia, per esempio i nomi di alcuni lettori di una rivisitazione, per non addetti ai lavori, di una prova filosofica dell’esistenza di Dio, i quali si sono convinti dell’esistenza di Dio proprio dopo averla letta: cfr. G. Samek Lodovici, L’esistenza di Dio, edizioni Art 2004, http://iltimone.org/quaderni/A2.html).
Del resto, Gesù convertiva le persone amandole e facendo miracoli, ma anche facendo ragionamenti, che talvolta erano semplici e talvolta erano difficili (cfr. il vangelo di Giovanni).
E anche per quanto riguarda i miracoli, la gente credeva a Gesù dopo i suoi miracoli attraverso la mediazione di un ragionamento (talmente spontaneo da non rendersi conto di compierlo): quello che applica il principio di causalità al miracolo e risale dall’effetto (il miracolo) alla causa (Dio), dal fenomeno al fondamento. Il ragionamento è il seguente: «questo è un miracolo; per compiere miracoli bisogna essere Dio (o essere strumento attraverso cui Dio agisce); dunque Gesù è Dio».
Insomma (FR 100), tra atto di fede e (buona) filosofia non c’è contrapposizione o mutua esclusione, bensì una solidarietà reciproca ed una cooperazione benefica, che reca vantaggio ad entrambe.
Se nella filosofia medievale, specialmente con Tommaso d’Aquino (FR 43-44), filosofia e Rivelazione si erano progressivamente e sempre più perfettamente sposate, il successivo divorzio tra fede e ragione ha prodotto gravi conseguenze (FR 48): «La ragione, privata dell’apporto della Rivelazione, ha percorso sentieri laterali che rischiano di farle perdere di vista la sua meta finale», cioè si è spesso dimenticata di cercare la verità e talvolta si è piegata (e oggi sempre più spesso si piega) agli interessi di parte, economici e/o ideologici.
«La fede, privata della ragione, ha sottolineato il sentimento e l’esperienza», cioè è diventata fideismo sentimentale, «correndo il rischio di non essere più una proposta universale», dato che i sentimenti interiori di ognuno sono soggettivi, possono essere raccontati ma non possono essere argomentati. «È illusorio pensare che la fede, dinanzi a una ragione debole, abbia maggior incisività; essa, al contrario, cade nel grave pericolo di essere ridotta a mito o superstizione».
Insomma, per i motivi ricostruiti nelle precedenti righe e per altri ancora (si legga per intero la FR), Giovanni Paolo II ha energicamente sottolineato che la filosofia ha un’importanza cruciale: «la Chiesa […] vede nella filosofia la via per conoscere fondamentali verità concernenti l’esistenza dell’uomo» e la considera, inoltre, «un aiuto indispensabile per approfondire l’intelligenza della fede e per comunicare la verità del Vangelo a quanti ancora non la conoscono» (FR 5). La filosofia, dunque, è «uno dei compiti più nobili dell’umanità»