Sete di petrolio.Fame di materie prime. Ricerca di sbocchi commerciali. E soprattutto una spregiudicata rete di alleanze. L’ascesa politica di Pechino segue le orme dei suoi interessi economici
di Federica Bianchi
Gli operai spediti in mezzo mondo dalle aziende di Stato cinesi sono diventati un’immagine onnipresente negli aeroporti di Pechino e Shanghai, ma anche in quelli di Nairobi, Luanda e Lusaka. Sono la carne da cannone degli strateghi del politburo che pianificano all’ombra della Città Proibita e dei generali che complottano al Consiglio di sicurezza dell’Onu per difendere l’equilibrio socio-economico su cui Pechino ha gettato le fondamenta di quella che ha definito la sua “ascesa pacifica” sulla scena mondiale.
Sono i soldati semplici della nuova armata che, con il fragore degli yuan, sta invadendo il Continente africano, facendosi spazio in quello sudamericano, penetrando nel terreno del Medio Oriente, consolidando le posizioni asiatiche e persino valutando la propria capacità offensiva alla periferia d’Europa.
Dal peso che Pechino e Mosca daranno alla loro solidarietà con Belgrado, orgogliosa rovina dell’impero di Tito, dipenderà il diritto all’indipendenza del Kosovo e un’eventuale rovinosa guerra civile con la Serbia, ancora una volta sugli scalini di casa nostra. Dall’intesa che la Cina riuscirà a trovare con il Giappone di Abe, dopo decenni di insulti e ostilità reciproche, attenuate soltanto dal fiorente commercio bilaterale, dipenderà la stabilità dell’Asia orientale. Dal sostegno che la Cina continuerà o meno a dare a Stati canaglia come la Birmania, iI Sudan, lo Zimbabwe o l’Angola, in cambio di generosi contratti industriali, dipenderà la costruzione di un mondo più equo e longevo.
Non è la prima volta che Pechino assume un ruolo di rilievo sulla scena internazionale. Al contrario, nel lungo corso della sua vita, il secolo e mezzo di relativa debolezza in politica estera rappresenta più l’eccezione che la norma. Per secoli è stata lei la tessitrice della storia orientale del mondo, come dice il suo stesso nome: Zhong Guo, Terra al Centro (del mondo).
A dimostrazione di un’abilità diplomatica mai sopita, nei 1981 Mao Tse Dong riuscì a convincere tre quarti delle Nazioni Unite a conferire alla Repubblica Popolare di Cina, sottraendolo a Taiwan, il seggio nel Consiglio di sicurezza e, quindi, quel diritto di veto che oggi Hu Jintao, l’attuale presidente cinese, “affitta” senza scrupoli al miglior offerente in cambio dì accordi commerciali e complicità politica nella difesa di regimi autoritari.
Paradossalmente furono proprio gli Stati Uniti di Richard Nixon, in quegli anni alla ricerca di sponde per il contenimento dell’Unione Sovietica, ad aiutarla, non opponendosi con vigore alla sua ricerca di legittimità, insieme al vecchio Terzo Mondo, che vedeva nella Cina il portabandiera dei paesi non allineati. Per trent’anni, alla prese con le sue vicende interne, Pechino ha scelto però un posto più da osservatore che da protagonista.
Ma, raggiunta l’interdipendenza economica con le nazioni più forti del mondo, allo scoccare del XXI secolo, ha cominciato a riallacciare le trame, sfilacciate, mai strappate, di quell’amicizia nata sotto il segno del socialismo e alimentata oggi da un assistenzialismo selvaggio.
Con un pragmatismo che non lascia posto all’etica e, solo nel caso di Taiwan, un poco all’ideologia, l’espansionismo politico sta seguendo le orme e le esigenze dell’ascesa economica. Africa, America Latina, Europa e Medio Oriente sono diventate nell’ultimo triennio meta di molteplici delegazioni mandarine. La Cina ha iniziato ad acquistare materie prime in grande quantità su quattro continenti e, recentemente, anche a venderle a quegli stessi continenti, nel tentativo di smarcarsi dalla dipendenza con gli Stati Uniti. A oggi le esportazioni verso gli Usa valgono sei volte quelle americane verso la Cina, benché l’economia americana sia quattro volte maggiore di quella cinese.
Nei paesi africani la nomenclatura è andata soprattutto alla ricerca di nutrimento per il vorace settore industriale: petrolio in Sudan, Angola, Kenya, Sudafrica e Libia; legname in Liberia, Mozambico, Gabon e Congo; platino e metalli preziosi in Zimbabwe e nella Repubblica Democratica del Congo; cotone in Mali; pesce lungo le coste di Senegal, Capo Verde e Somalia.
Un po’ovunque ha costruito ministeri degli Esteri con tetti a forma di pagoda, una vecchia abitudine de! ventennio in cui la Cina e Taiwan ancora lottavano per il sostegno delle nazioni africane all’Onu (adesso solo cinque nazioni riconoscono Taiwan); reti autostradali e ferroviarie (che consentono il trasporto dei bottini più che lo spostamento dei cittadini); residenze sontuose per i dittatori del caso, da Mugabe (con la villa dal tetto sinuoso rivestito di cobalto) a dos Santos in Angola; e, soprattutto, ha elargito, oltre alle sempreverdi forniture d’armi, prestiti e finanziamenti senza condizioni ideologiche o economiche agli alti ufficiali di alcuni dei regimi più corrotti del mondo.
Per non mettere in pericolo investimenti e alleanze, ha poi iniziato a brandire il suo diritto di veto, limitando l’azione delle potenze occidentali. Il caso più eclatante è il Darfur, dove ha impedito alle Nazioni Unite di inviare i caschi blu per non ledere il rapporto con le autorità di Khartoum che, con i proventi dei giacimenti di petrolio sfruttati dalla Cina, finanziano le milizie colpevoli del genocidio in corso (mezzo milione di morti) e costruiscono principeschi edifici nella capitale.
Non a caso, volendo denunciare il ruolo fondamentale giocato da Pechino nell’alimentare la tragedia, Eric Reeves, uno dei principali esperti del disastro umanitario nel Darfur, ha coniato lo slogan “Olimpiadi del genocidio” per i giochi del 2008 che la Cina considera il suo “debutto ufficiale in società”.
La strategia è più complicata in America Latina. Se da una pane la retorica socialista la avvicina a paesi come il Venezuela di Chàvez, ricchissimo in petrolio, dall’altra, l’ostilità dei sindacati nei confronti dei lavoratori cinesi che immancabilmente sono spediti lungo le rotte degli accordi, la distanza geografica che rende più difficile salvaguardare gli investimenti in caso di conflitto, e la tradizionale egemonia degli Usa nell’area, rendono il Sudamerica più un territorio di marginale diversificazione economica che di conquista politica.
Senza contare, come sottolinea il centro studi dell’Economist, che non avrebbe senso danneggiare la fine rete di rapporti intessuti in altri paesi con Chevron, Royal Dutch Shell, Exxon Mobil, Eni, Repsol o Petrobras, solo per nominare alcune delle maggiori società petrolifere mondiali.
Nonostante il battage mediatico degli ultimi due anni, né l’America del sud, né l’Africa, dove la battaglia per il controllo economico e strategico con Stati Uniti e Europa è soltanto agli inizi, rappresentano il fronte principale della politica estera cinese. Dall’Africa arriva soltanto un quarto delle importazioni petrolifere cinesi (con 125 milioni di tonnellate nel 2005 è il secondo importatore mondiale di petrolio dopo gli Usa).
Quasi la metà è acquistata in Medio Oriente, un territorio diplomaticamente affollato, ricco di riporse e spesso indipendente dal denaro estero (vedi l’Arabia Saudita) che Pechino non può permettersi di ignorare. «Man mano che la Cina cresce in esperienza e capisce come usare la diplomazia a sostegno dei suoi interessi in Medio Oriente, acquista importanza in un gioco fino a oggi dominato dagli occidentali», spiega Jori Alterman, direttore per il Medio Oriente del Centro Studi Strategici e Internazionali di Washington.
Naturalmente la crisi iraniana con l’Occidente sul programma nucleare ha fornito ai cinesi la chiave d’accesso ai campi di petrolio e gas naturale del Paese: sostegno al Consiglio di sicurezza dell’Onu in cambio di contratti alle tre società petrolifere di Stato.
Ma è in Estremo Oriente che la Cina ha recentemente compiuto la rinascita maggiore, cominciando a vedere i propri vicini di casa in termini di potenziali mercati di sbocco per le proprie merci. Sarà uno sguardo non proprio cristallino, ma è parso ai paesi interessati pur sempre più rispettoso di quello americano che vede nell’Oriente soprattutto un campo di battaglia.
Sfruttando prima la crisi finanziaria del 1997, durante la quale venne in soccorso delle quattro Tigri non svalutando lo yuan, e poi manovrando abilmente il calo d’interesse nella regione da parte degli Stati Uniti dopo il 2001, la Cina è riuscita ad allacciare buoni rapporti con i vicini, proponendo addirittura la creazione entro il 2010 di un’area di libero scambio asiatica vantaggiosa per tutti.
E questo senza dimenticare gli alleati tradizionali nella regione: Cambogia (per cui la Cina rappresenta il principale partner commerciale) e Birmania. Tre mesi fa, con la Russia e il Sudafrica, e grazie all’astensione di Indonesia, Quatar e Congo (nonostante il voto positivo di Francia, Italia, Belgio, Slovacchia, Ghana e Perù), Pechino è riuscita a respingere una risoluzione dell’Onu proposta da Stati Uniti e Gran Bretagna che avrebbe imposto alla giunta birmana di porre fine alla persecuzione degli oppositori politici e dei gruppi minoritari.,
Contemporaneamente, la storica visita di Wen Jiabao a Tokyo il mese scorso e gli accordi sul territorio nell’ambito – al momento – politicamente neutro delle problematiche ambientali, dimostrano un credito di buona volontà nei confronti del rivale strategico che Pechino potrà riscuotere in futuro. Soprattutto se il Giappone non vorrà ritrovarsi una potenza isolata nell’area, come temono gli Stati Uniti.
E proprio l’America che, con l’invasione dell’Iraq e gli scandali di Guantanamo e Abu Ghraib, ha perso il primato mondiale della superiorità morale che dalla Seconda guerra mondiale ne aveva ammantato le scelte militari, osserva con misurato timore la crescente influenza politica e l’escalation militare del Dragone.
Pechino ha recentemente annunciato un aumento del budget della difesa del 18 per cento, portandolo così a 45,3 miliardi di dollari: ancora non una cifra enorme (poco più del 10 per cento del budget statunitense), ma un altro mattoncino della lunga e determinata marcia verso un rinascimento non soltanto economico, ma soprattutto politico, sociale e militare
A Scuola da Confucio
II primo è stato aperto il 15 giugno del 2004 a Tashkent, in Uzbekistan. Oggi ne esistono 128 in tutto il mondo: 46 in Asia, 46 in Europa, 26 in nord America, sei in Africa e quattro in Oceania. Si sono moltiplicati con la stessa velocità con cui sono esplosi i commerci e si sono intensificate le relazioni diplomatiche di Pechino.
Sono gli Istituti Confucio, la risposta cinese all’Alliance Francaise, al Goéthe Institute e al British Council. Hanno il compito «di espandere l’insegnamento della lingua e della cultura cinese» e, indirettamente, l’influenza politica di Pechino nel mondo.
Rispondono tempestivamente alle migliaia di studenti che vogliono imparare il mandarino, affidando all’insegnamento linguistico anche la diffusione del consenso. In partnership con università (a Roma è la Sapienza) o istituti locali che offrono la sede mentre II ministero dell’Educazione cinese fornisce lo staff, si adattano rapidamente alle necessità locali, offrendo corsi di cucina e visite culturali in Cina, ma anche corsi didattici a distanza, come in Kansas.
Il nome di Confucio non è stato scelto a caso. La Cina di Hu Jintao ha rinverdito il mito del filosofo, le cui teorie furono messe al bando da Mao, per offrire un’alternativa ideologica al comunismo con cui legittimare il partito unico e giustificare la necessità della stabilità sociale.
Nella visione confuciana, il buon individuo antepone al suo interesse individuale il senso del dovere, ovvero la costruzione si uno Stato armonioso in cui i cittadini siano rispettosi dell’autorità e delle gerarchie. Si tratta di quel ”modello asiatico” che la nomenclatura difende in contrapposizione alla democrazia occidentale fondata su elezioni pluraliste.