I limiti della fecondazione artificiale
di Renzo Puccetti
Certo, vi è anche l’altro fronte, il relativismo negazionista dell’esistenza stessa di una verità morale, una “amoralistica superstizione” che per Dietrich von Hildebrand aveva purtroppo invaso i circoli cattolici, e non ho alcuna difficoltà a riconoscere nei suoi adepti l’elite rivoluzionaria vera e propria che senza sosta mira a distruggere qualsiasi riferimento normativo eterodosso rispetto al puro soggettivismo, ma è la perversione del vero bene, il “buonismo”, a svolgere poi il ruolo di truppa occupante dell’animo di tanti di noi, cattolici che abbiamo smarrito la nostra cattolicità.
Per restringere il campo di azione fu una presunta buona intenzione quella che animò i cattolici del no nel referendum sul divorzio del 1974 e allo stesso modo pensarono ed agirono quanti favorirono la contraccezione per raggiungere la paternità e maternità consapevole, quanti videro nella legalizzazione dell’aborto una via per tutelare la salute delle donne e nella fecondazione artificiale un modo per donare alle coppie la gioia del figlio.
Da qui, secondo una logica di coerenza interna, sono state poi avanzate istanze ulteriori e secondarie, il divorzio breve per non trascinare situazioni di conflitto e permettere un più rapido avvio di nuovi legami, l’intercezione anti-nidatoria come estensione della contraccezione, l’aborto privato per via farmacologica per favorire la privacy delle donne, la diagnosi pre-natale e pre-impianto per evitare che nasca un figlio malato, la fecondazione eterologa per aggirare il problema della sterilità assoluta di uno dei due partner e per conferire la funzione genitoriale anche alle coppie omosessuali, il congelamento degli embrioni per ottimizzare i risultati ed il congelamento degli ovociti per evitare il congelamento degli embrioni e conservare una riserva riproduttiva altrimenti abolita da una chemioterapia.
In ciascuno di questi interventi non è difficile individuare una buona intenzione, l’umanitarismo di cui parlava Lombardi Vallauri.
Questo modo di valutare le scelte morali ha trovato e tutt’oggi trova un terreno particolarmente fertile tra noi medici, professionalmente abituati e legittimati a ragionare in termini consequenzialistici e proporzionalistici quando il campo di applicazione è costituito dalle scelte cliniche, ma che si rivela disastroso quando non sappiamo cambiare registro, quando non riconosciamo il salto necessario nel ragionamento morale, quando rinunciamo a quello “sguardo contemplativo” a cui ci esortava Giovanni Paolo II in Evangelium vitae, capace di farci vedere la vita nella sua profondità.
Vi sono molte ragioni per ritenere inadeguata la prospettiva delle conseguenze come criterio assoluto di giudizio morale delle azioni; mi limiterò ad esporne un paio. Il primo di questi ce lo ricorda il libro della sapienza: “incertae providentiae nostrae”, le nostre previsioni sono incerte, spesso ci accorgiamo di essere stati miopi.
Se consideriamo i risultati di quelle azioni chi, dotato di onestà intellettuale, non sarebbe costretto ad ammettere che tanto del bene cercato con esse è stato sopravanzato da problemi ben maggiori? Il divorzio, pensato per la pace dei figli, non ha forse portato a tanti bambini e giovani smarriti dietro una cacofonica pluralità di figure di riferimento spesso provvisorie e conflittuali? Non è anche grazie alla sub-cultura dei cosiddetti “diritti riproduttivi” che l’occidente è largamente flagellato dall’inverno demografico e dalle difficoltà sociali ed economiche che ad esso fanno seguito?
Dov’è andata a finire la tutela della salute delle donne promessa dall’aborto legale se la più grande revisione mai realizzata e pubblicata sull’autorevole British Journal of Psychiatry da Priscilla Coleman dimostra che la salute mentale delle donne peggiora dopo l’aborto e se sul non meno autorevole American Journal of Obstetrics and Gynecology già nel 2004 è stata dimostrata una mortalità tripla per le donne che abortiscono rispetto a quelle che danno alla luce il figlio? Sono forse fantasie l’incremento di patologie che affligge i figli concepiti in provetta e le difficoltà per le donne prima illuse e poi deluse dalla pubblicistica dell’accanimento riproduttivo segnalati ieri da Bellieni sull’Osservatore Romano?
Non sono forse numeri, numeri incontestabili, quelli che si leggono sull’annuale relazione del ministero della salute secondo cui dai 99.258 embrioni formati con tecniche a fresco sono nati 8.077 bambini, attestando un tasso di abortività della tecnica pari al 90,6% e del 93% se si considerano gli ovociti fecondati, certamente superiore a qualsiasi stima di abortività spontanea?
Non è forse vero che mediante le tecniche di congelamento embrionale e di vitrificazione ovocitaria la resa, in termini di bambini nati, è ancora inferiore? Mentre si gioisce per i bambini che nascono, si è forse legittimati a tacere e persino silenziare il ricordo di una tale strage, considerandolo un elemento di disturbo del quieto vivere raggiunto attraverso la mediazione?
È il mitissimo San Francesco di Sales che ammonisce anche noi cattolici di oggi contro un tale accecamento: “E’ carità gridare al lupo quando si nasconde tra le pecore, non importa dove”.
C’è un secondo aspetto che ci interpella quando si deve decidere l’adeguatezza della prospettiva della buona intenzione come criterio giudicante la bontà delle azioni. Quello che faccio con l’intenzione di fare del bene, è reso automaticamente dal mio intento un bene? La mia coscienza sinceramente volta al bene purifica le mie azioni a prescindere dal contenuto di quello che vado a realizzare?
Contro una tale distorsione già ammoniva S. Agostino nell’opera contro la menzogna, ma la fattispecie verso cui è forse più sensibile l’uomo moderno è quella indicata dallo studioso Massimo Introvigne come “reductio ad Hitlerum”.
Non era forse una buona intenzione verso il popolo tedesco, stremato dalla crisi economica e dalle sanzioni belliche, quella che animava il criminale regime nazista nella sua politica di proliferazione degli armamenti e di conquista dello “spazio vitale”? Non erano forse animati dal desiderio di ottimizzare il salvataggio dei piloti caduti in mare i medici che a Dachau conducevano esperimenti di congelamento usando uomini come cavie? Non è forse vero che alcune di queste conoscenze servirono come base per ulteriori studi pubblicati su prestigiose riviste medico-scientifiche nell’immediato dopo-guerra?
Se la coscienza è il tribunale supremo, ciò doveva valere anche per quei nazisti, com’è stato allora consentito ad altri uomini di ribaltare con la condanna per crimini contro l’umanità il giudizio di quel tribunale supremo interiore? In nome di che cosa si è proceduto?
Sono riflessioni che in modo magistrale il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, il cardinale Ratzinger, svolse dalle colonne del settimanale Il Sabato nel 1991, provvidenzialmente riproposte in un recente libro edito da Cantagalli dedicato alla coscienza. Dov’è il male?
La risposta del cardinale Ratzinger risuona delle parole di un grande conoscitore della coscienza, il beato cardinale Newman, secondo cui la coscienza ha dei diritti, perché prima ha dei doveri. Il primo di questi è quello di formarsi alla luce della verità, una verità che in quel intervento il cardinale Ratzinger identificava come il termine medio, la cerniera che unisce autorità e soggettività ed in cui la norma, lungi da essere elemento di intollerabile oppressione dell’autonomia dell’individuo, interviene piuttosto come criterio che si oppone allo smarrimento di una coscienza auto-referenziale.
Così come la soppressione di un essere umano innocente realizzata con l’aborto non potrà mai essere una cosa buona ed una legge che trasforma il delitto in diritto non sarà mai una buona legge, altrettanto una pratica che trasforma l’essere umano da dono da accogliere in manufatto da assemblare mediante la fecondazione artificiale non sarà mai qualcosa da promuovere; anche quando le circostanze particolari possono intervenire nel modulare la responsabilità morale, queste non consentiranno di spacciare per un bene ciò che è di per sé un male.