di mons. Luigi Negri
Ormai è diventato dominante, nella mentalità di questa nostra società, affermare che il valore delle scelte non sta nel loro contenuto specifico ma dipende dall’intensità, dall’affezione, dalla sincerità, dalla permanenza di benessere che queste scelte assicurano. Siamo in pieno soggettivismo etico.
Questo vuoi dire che la famiglia naturale, quella fondata sul matrimonio – una, indissolubile, feconda, con la responsabilità della procreazione e dell’educazione, quella su cui i padri costituenti, tanto omaggiati e osannati, hanno fondato la nostra società – è diventata una mera scelta. Una scelta che qualcuno può fare se ritiene che tale tipologia lo soddisfi.
Anche la famiglia cattolica, che sostanzialmente ha la stessa dinamica della famiglia naturale ma possiede in più una rivelazione adeguata della natura della famiglia stessa e soprattutto l’indicazione di un compito e gli aiuti che la Grazia dona per attuare pienamente tale vocazione, è un’altra scelta possibile, che ha le stesse motivazioni della prima, cioè di immediata corrispondenza.
Poi ci sono le convivenze: anch’esse hanno la stessa dignità perché sono fatte per corrispondere immediatamente ai propri istinti, desideri e programmi. Poi c’è la coppia omosessuale: anch’essa ha la sua dignità che, appunto, deriva dalle condizioni psico-affettive o sociali per cui è fatta.
In questo bailamme l’ecclesiasticità italiana rischia di subire come contraccolpo il fatto che la famiglia cristiana è difesa in quanto una tra le opzioni possibili ma non entra in dialettica con nessun’altra fondazione. Come dire: noi che siamo bravi, che siamo intelligenti, che abbiamo la fede, che abbiamo anche un pizzico di eroismo per restare fedeli agli impegni del matrimonio, possiamo farlo. Gli altri che non vogliono farlo, non lo fanno e chiuso.
È necessario, a mio parere, che il mondo cattolico riprenda con vigore quella che il mio maestro, mons. Giussani, chiamava «la priorità dell’ontologia sull’etica». C’è un’impostazione globale della realtà umana, storica, naturale, sociale. Una è la posizione che è pienamente nella linea della Rivelazione e quindi in corrispondenza con le esigenze del cuore umano. Il pluralismo di fatto, che nessuno, e tanto meno il sottoscritto, si sogna di contestare, non conferisce valore alle scelte errate che soggettivamente si possono fare.
La carenza del senso dell’oggettività del reale è una conseguenza della carenza della ragione e certamente, oggi, il pericolo non è l’eccesso di fede ma la debolezza della ragione. Forse se i vescovi cattolici e i sacerdoti non solo riprendessero a fondo la Fides et Ratto del beato Giovanni Paolo II ma, in questo anno della fede, la facessero diventare uno strumento sistematico di insegnamento, si potrebbe ovviare a quello che è, secondo me, l’equivoco più grande della nostra società.
Se si concepisce la Chiesa come una struttura sociale nella quale ciascuno ha tutti i diritti possibili, e quindi l’autorità diventa in qualche modo la controparte sindacale di questi detentori di diritti totali, viene alterata la natura stessa della Chiesa, come ci hanno ricordato tante volte Benedetto XVI e papa Francesco. La Chiesa è una realtà organica alla quale si partecipa totalmente nella misura in cui si accettano le regole che lo stesso Gesù Cristo ha fissato.
Se il Signore Gesù Cristo ha stabilito che condizione sine qua non per partecipare validamente all’Eucaristia, che è fons et culmen totius vitae christianae, è una regolarità di posizione matrimoniale, diventa perfettamente inutile che ogni giorno noi siamo assediati da torme di persone che chiedono il diritto alla Comunione. Ma soprattutto è grave che noi cominciamo a pensare alla concessione dell’Eucaristia a coloro che oggettivamente si sono messi in posizione contraddittoria, a come favorirli, magari in maniera soft, nel potere partecipare a questi diritti.
Il card. Scola nella sua bellissima relazione generale al Sinodo dei vescovi sull’Eucaristia e soprattutto le limpide prese di posizione di Benedetto XVI all’Incontro mondiale delle famiglie a Milano, a me sembrava che avessero una volta ancora e definitivamente chiuso la questione. In ogni caso il problema dei nostri fratelli divorziati o separati che intendono partecipare, per quanto in modo contratto, a certi momenti significativi della vita della Chiesa da cui certamente non sono esclusi, esige l’impegno di un itinerario da fare con loro.
Questo è faticoso; non il combattere, anche da parte del clero, per il riconoscimento o la concessione di certi diritti che non possono essere né riconosciuti né concessi, poiché sono state violate le condizioni essenziali per partecipare in pienezza alla vita della Chiesa.
Io sono molto colpito in questi tempi dalla necessità di dover richiamare cose come queste, che sono di assoluto buon senso ancor prima che di coscienza cristiana. Forse aveva ragione il Manzoni quando diceva, all’epoca della grande peste di Milano, che il buon senso si era tenuto nascosto e prevaleva il senso comune che è la cosa più equivoca, più generica, più manipolabile e più falsa che la società possa produrre