di Mauro Ronco
1. La “giusta misura” platonica
Nel dialogo Il Politico Platone si ripromette di cogliere la trama e l’ordito che la vera scienza politica viene tessendo, nella ricerca dinamica del bene comune, sul fondamento del riconoscimento in comune del Bene (1).
Socrate e i suoi interlocutori mostrano di conoscere con precisione le caratteristiche delle varie forme costituzionali in cui si manifesta l’esercizio del potere politico, dal comando di uno solo al dominio dei pochi, al potere della moltitudine, ciascuna forma con le sue possibili varianti, a seconda che sia diffuso l’uso della costrizione ovvero il potere si eserciti prevalentemente previo il consenso dei sudditi, a seconda che l’ordinamento si basi su leggi scritte ovvero si regga sulle consuetudini antiche.
Tutti i partecipanti al dialogo concordano sul principio che non possono e non debbono servire alla individuazione del valore delle costituzioni le circostanze contingenti che il potere sia esercitato dai pochi o dai molti, che prevalga la libera accettazione, ovvero sia più rilevante il peso della costrizione, che vi sia nello Stato una condizione generalizzata di ricchezza ovvero la povertà caratterizzi la vita del maggior numero.
Ciò che decide essenzialmente della qualità, buona o cattiva, è il possesso in chi governa — chiunque esso sia: uno solo, pochi, ovvero molte persone — di una scienza e di un’arte, analoghe alla scienza e all’arte medica, intese alla conoscenza teoretica e alla concreta applicazione del giusto potere, cioè del potere politico esercitato secondo giustizia.
Alla domanda: “[…] dobbiamo forse pensare che una di queste costituzioni sia retta, se definita con questi termini: uno, pochi, molti (con ricchezza e povertà, coazione e spontaneità); e se le avvenga d’essere con leggi scritte o senza leggi?”, il Forestiero di Elea — il principale interlocutore del dialogo platonico — risponde: “Ed è appunto questo che dobbiamo comprendere, ché il carattere distintivo di tali costituzioni non può essere né i pochi né i molti né la spontaneità né il coatto, né la povertà né la ricchezza, ma deve consistere in una scienza“ (2).
Relativizzando più oltre, nel corso del dialogo, la portata della distinzione fra le varie forme di governo, Platone sottolinea che monarchia, potere di pochi e potere di molti possono essere, o meno, orientati al bene e al giusto.
Il Forestiero rileva anzitutto che anche la democrazia, così come la monarchia e il governo dei pochi, può degenerare: “Dalla forma monarchica risulta il governo regio e la tirannide; dal governo dei non molti abbiamo detto che risulta l’aristocrazia, augurale nel suo nome, e l’oligarchia. Quanto poi al governo dei molti, poiché allora lo ritenevamo semplice, gli davamo il nome di democrazia, ma anche questo ora va considerato come doppio” (3). Invero, non v’è ragione alcuna per cui anche la democrazia non vada sottoposta al comune criterio di giudizio: “[…] ché il governare secondo le leggi e contro le leggi è comune a questa come alle altre costituzioni” (4).
Quanto, poi, al rapporto fra le varie forme di costituzione, il Forestiero osserva: “La monarchia, dunque, accoppiata a buone prescrizioni scritte che diciamo leggi, è la migliore delle sei costituzioni; senza leggi però è la forma più penosa e quella in cui si vive peggio”; “Quanto poi al governo dei non molti — prosegue —, come il poco è medio fra l’uno e la massa, così riterremo tale governo quale medio fra l’una e l’altra costituzione; ed infine riterremo il governo di massa debole in tutto ed incapace di far nulla di grande, in bene o in male che sia, nei confronti degli altri, ché in esso le regole del comando sono distribuite fra troppa gente e frammentariamente. Ecco perché tale governo, fra i varii tipi di costituzioni che si reggono su leggi, è il peggiore, mentre è il migliore fra tutti quelli che si reggon senza leggi” (5).
Gli studiosi contemporanei di diritto costituzionale — e gli uomini politici che ai primi si ispirano — ritengono di rintracciare in complessi sistemi di ingegneria costituzionale la soluzione di molti problemi attinenti alla vita politica; è singolare, però, che essi non prestino alcuna attenzione alla costellazione dei fini del vivere associato. Eppure, il fallimento dei vari progetti di ingegneria costituzionale dovrebbe indurre a comprendere che la democrazia — come forma di governo —, così come ogni altro tipo di regime, non può essere assunta come principio aggregante la comunità. Invero, quando si assume la forma di governo a origine e fine della comunità, si determina il vuoto politico, ossia si costituisce un governo imbelle — forte con i poveri e debole con i potenti — e si contribuisce alla disgregazione della società (6).
Secondo Platone, coloro che — tiranni o democratici — pretendono di comandare senza piegarsi ad apprendere e a praticare la scienza e l’arte del bene non sono dei veri uomini politici, ma dei faziosi; “[…] e poiché si fan guida di grandissime, false immagini, tali sono essi medesimi, e poiché sono ad un tempo insigni mimi e ciarlatani, divengono fra i sofisti i sofisti più grandi” (7).
Il problema della vera scienza politica consiste, dunque, nel fare in modo che gli uomini politici non siano “mimi e ciarlatani”, “veri sofisti”: e ciò avviene soltanto se essi formano il proprio giudizio e indirizzano le loro azioni sul fondamento della “giusta misura” (8) e in vista della realizzazione di ciò che è giusto. Non diversa è la tesi della dottrina politica della Chiesa.
Riaffermando fermamente che la potestà di comandare proviene da Dio, Papa Leone XIII, nell’enciclica Diuturnum, del 20 giugno 1881, proclamava la legittimità di ciascuna delle varie forme di governo, purché l’ordinamento sia giusto e rivolto al comune vantaggio: “Importa però notare qui che coloro i quali siano per esser preposti alla pubblica cosa, possano in talune circostanze venir eletti per volontà e deliberazione della moltitudine, senza che a ciò sia contraria o ripugni la dottrina cattolica. Colla quale scelta tuttavia si designa il Principe, ma non si conferiscono i diritti del principato: non si dà l’imperio, ma si stabilisce da chi deve essere amministrato. — Né qui si fa questione dei modi del pubblico reggimento: poiché non vi è alcuna ragione, perché la Chiesa non approvi il principato d’uno o di molti, purché esso sia giusto e rivolto al comune vantaggio. Perciò, salva la giustizia, non s’impedisce ai popoli di procacciarsi quel genere di reggimento, che meglio convenga alla loro indole, o alle istituzioni ed ai costumi dei loro maggiori” (9).
Affinché, però, la legge sia giusta occorre l’individuazione della giusta misura: cioè di un parametro oggettivo alla cui stregua il tessitore — cui Platone assimila, con perspicua metafora, l’uomo politico (10) — sappia gerarchizzare e armonizzare tutte le “misure” particolari, definite dall’affermarsi e consolidarsi nella vita sociale dei valori e degli interessi delle persone e dei gruppi che compongono la società.
Diametralmente contrario a qualsivoglia teoria etica che, con terminologia moderna, potremmo definire “teleologica”, sia essa di tipo “consequenzialistico” o di tipo “proporzionalistico”, secondo cui il criterio del bene si ricaverebbe dal bilanciamento delle conseguenze degli atti ovvero dall’assetto dei valori e degli interessi — in termini di soddisfazione del maggior numero — dopo il compimento dell’azione (11), Platone suggerisce come necessario per rintracciare il giusto diritto il metodo della comparazione di ciascun bene, prima e più ancora che con ogni altro bene particolare, con il criterio del giusto.
“E dunque bisogna porre che due siano questi modi di essere e queste distinzioni del grande e del piccolo, e non dobbiamo […] considerarli soltanto nel loro rapporto reciproco, ma, come si è detto appena sopra, dobbiamo piuttosto, da un lato distinguere il loro reciproco rapporto, dall’altro lato anche quello in cui si trovano con il giusto mezzo” (12).
Il metodo adottato dalla giurisprudenza costituzionalistica contemporanea in tema di aborto, così come in moltissimi altri settori dell’esperienza giuridica, corrisponde a quello criticato da Platone, poiché si esaurisce nel porre a confronto fra loro i due valori — il grande e il piccolo —, senza procedere all’indispensabile comparazione di ciascun valore con la giusta misura, ovvero con il criterio del diritto. Così la vita del feto, pur esso “valore”, secondo il Giudice supremo italiano che pronunciò la sentenza del 1975, come vita di chi ancora non sarebbe compiutamente vita — “il piccolo” —, dovrebbe soccombere di fronte alla salute della madre, come interesse di chi già possiede la capacità di azionare giudizialmente la sua pretesa — “il grande” — (13): vita del feto e salute della donna — il “piccolo” e il “grande” — sono posti a confronto fra loro con esclusivo riguardo al bilanciamento dei costi sociali ricollegabili al sacrificio dell’uno e dell’altro, senza alcuna attenzione al rapporto reciproco di ciascuno di essi con il criterio morale che definisce in radice lecita o illecita la condotta che volontariamente attenta a ciascun bene.
Secondo Platone, se si ammettesse che il più grande a nient’altro stia in relazione se non al più piccolo, e si misconoscesse la necessità del confronto con la giusta misura, allora sarebbe annientata la possibilità stessa del diritto e della politica, così come di qualsivoglia altra arte (14).
Come il giudizio relativo alla perfezione del prodotto di ciascuna arte concerne il superamento o la carenza della giusta misura, sì che può dirsi che l’opera d’arte in tanto esiste in quanto è presupposta la giusta misura, così ugualmente il diritto e la politica esistono sul presupposto che il legislatore e l’uomo politico ispirino la legislazione e la propria condotta al criterio del giusto e del bene comune.
Senza attenzione, in capo a chi dirige e orienta la cosa pubblica, a tale criterio, diritto e politica sono annientati: vi potranno essere strategia, amministrazione, giurisprudenza e retorica, ovvero metodologia raffinata dell’esercizio della forza e dell’astuzia, gestione impegnata della dimensione economica della vita associata, legislazione abbondante e incessante applicazione coattiva delle leggi e dei regolamenti, manipolazione instancabile delle coscienze attraverso l’uso dei mezzi di comunicazione di massa, ma non sussisteranno diritto e politica, come dimensioni della vita associata caratterizzate dalla forza dinamica di rintracciare, definire, garantire e promuovere il bene di tutti in comune.
Vi sono due modalità diverse di misurare: l’una costituita dalle “arti che misurano il numero, la lunghezza, l’altezza, la larghezza, la velocità in rapporto ai loro contrarii” e l’altra formata dalle “arti che si riferiscono alla giusta misura, al conveniente, all’opportuno, al doveroso, in una parola a tutto ciò che ha per sua sede naturale il mezzo fra gli estremi” (15): la riduzione delle arti di questo secondo tipo a quelle del primo tipo e la conseguente scomparsa del criterio del diritto, con la perdita dell’idea di ciò che è dovuto, è all’origine e alla base della dis-società, in cui viviamo, stracolma di leggi, di regolamenti, di decreti e di circolari interpretative, ma del tutto priva dell’idea e della realtà del diritto, come criterio del dovuto, e, in conseguenza di ciò, del giusto.
Molti contemporanei si stupiscono che la dilatazione della dimensione regolamentativa (16), attraverso la riscrittura di ogni rapporto sociale in termini di dover essere giuridico, non rechi con sé l’ordine dei rapporti intersoggettivi e la pace delle parti tra loro, delle parti con il tutto e di quest’ultimo con esse, bensì accresca obiettivamente il conflitto sociale e diffonda l’atteggiamento litigioso come il modo consueto di rapportarsi del singolo agli altri soggetti dell’ordinamento.
In realtà, quanto più il reale è visto privo di qualità e sempre più è assimilato a massa da misurarsi con le unità di calcolo delle scienze quantitative, tanto più esso è incapace di comunicare messaggi di intrinseca normatività e sempre più viene assoggettato alla legge dettata dalla decisione, arbitraria e variabile, dell’uomo che detiene l’uso della forza.
Poiché lo statuto del diritto è la giusta misura — cioè la legge morale e, a fondamento di questa, la legge eterna di Dio impressa nella realtà creata e partecipata alla ragione dell’uomo —, l’ordinamento che rimuove il riferimento alla giusta misura annienta se stesso come ordinamento giuridico, erigendo al suo posto, in una vana opera di sostituzione, l’indefinita varietà delle decisioni particolari, che illegittimamente pretendono la qualifica della giuridicità, sul fondamento della loro coercitività. Ma tutto ciò non vale a creare diritto, bensì soltanto ad approfondire la dissociazione delle parti tra loro e ad accrescere nel corpo sociale il sentimento della costrizione e dell’oppressione.
2. Il diritto naturale
Nell’enciclica Veritatis splendor, Papa Giovanni Paolo II esprime esemplarmente l’insegnamento tradizionale della Chiesa in ordine all’integrazione armonica fra le inclinazioni naturali, come sono manifestate all’uomo dalla dimensione corporea, e l’ordine razionale, colto dalla ragione assistita dalla grazia di Dio (17).
Richiamandosi espressamente all’Istruzione “Donum vitae” su il rispetto della vita umana nascente e la dignità della procreazione, della Congregazione per la Dottrina della Fede, emessa in data 22 febbraio 1987 (18), il Sommo Pontefice sottolinea come le inclinazioni naturali anticipino e suggeriscano i princìpi normativi che la ragione compiutamente definisce alla luce del destino eterno cui ciascun uomo è chiamato dall’Amore di Dio.
Nella realtà corporea è inscritta la legge naturale: “[…] essa si riferisce alla natura propria e originale dell’uomo, alla “natura della persona umana”, che è la persona stessa nell’unità di anima e di corpo, nell’unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento del suo fine” (19). Come sottolinea l’istruzione Donum vitae, la legge morale “[…] non può essere concepita come normatività semplicemente biologica, ma deve essere definita come l’ordine razionale secondo il quale l’uomo è chiamato dal Creatore a dirigere e a regolare la sua vita e i suoi atti e, in particolare, a usare e disporre del proprio corpo” (20).
Non vi sono “valori spirituali”, “valori sentimentali”, “valori attinenti alla sfera della corporeità”, separati gli uni dagli altri, misurabili secondo i calcoli delle scienze quantitative, che il legislatore avrebbe il compito di massimizzare secondo la legge della maggior quantità per il maggior numero.
Operando in un modo siffatto si prescinderebbe del tutto dal tener conto della giusta misura, costituita dalla legge naturale, come legge che si riferisce alla “natura della persona umana”, limitandosi alla comparazione tra grandezze meramente quantitative, con l’inevitabile annientamento del diritto. Nessun bene — neppure la vita umana — possiede un valore assoluto, un valore, cioè, che prescinda dal significato morale in riferimento al bene della persona nella sua integralità.
Insegna Papa Giovanni Paolo II nell’enciclica Veritatis splendor che il fondamento del dovere di rispettare la vita umana sta nella dignità della persona e non semplicemente nell’inclinazione naturale a conservare la vita fisica: “Così la vita umana, pur essendo un bene fondamentale dell’uomo, acquista un significato morale in riferimento al bene della persona che deve essere sempre affermata per se stessa: mentre è sempre moralmente illecito uccidere un essere umano innocente, può essere lecito, lodevole o persino doveroso dare la propria vita (cf. Gv 15, 13) per amore del prossimo o per testimonianza verso la verità” (21).
Il diritto è suggerito dall’esame attento e rispettoso della realtà fisica, biologica, psicologica, poiché nel reale è rimasta impressa l’impronta di Dio creatore. Il suo criterio è la legge eterna di Dio. Nell’enciclica Veritatis splendor il Sommo Pontefice ribadisce in modo perentorio la dottrina tradizionale della Chiesa a riguardo dell’essenziale subordinazione della ragione e della legge umana alla Sapienza di Dio e alla sua legge (22).
Il primo riferimento dell’enciclica è alla Dichiarazione sulla libertà religiosa “Dignitatis Humanae”, 3, ove è ricordato che “[…] norma suprema della vita umana è la stessa legge divina, eterna, oggettiva e universale, per mezzo della quale Dio con un disegno di sapienza e amore ordina, dirige e governa il mondo intero e le vie della comunità umana. E Dio rende partecipe l’uomo di questa sua legge, cosicché l’uomo, per soave disposizione della provvidenza divina, possa conoscere sempre più l’immutabile verità” (23).
Il Concilio rinvia alla dottrina classica sulla legge eterna di Dio. Sant’Agostino la definisce come “la ragione o la volontà di Dio che comanda di conservare l’ordine naturale e proibisce di turbarlo” (24), san Tommaso la identifica con “la ragione della divina sapienza che muove tutto al fine dovuto” (25).
E la Sapienza di Dio si prende cura degli uomini in modo diverso rispetto agli esseri che non sono persone: non semplicemente operando “”dall’esterno”, attraverso le leggi della natura fisica, ma “dal di dentro”, mediante la ragione che, conoscendo col lume naturale la legge eterna di Dio, è perciò stesso in grado di indicare all’uomo la giusta direzione del suo libero agire” (26).
Sì che l’uomo è chiamato da Dio “a partecipare alla sua provvidenza”, poiché egli, partecipando con la sua ragione alla legge eterna di Dio, è capace di guidare il mondo, tanto delle creature inanimate, quanto delle persone umane, attraverso la sua ragionevole e responsabile cura.
Questo è l’orizzonte eterno della legge naturale, espressione umana della legge eterna di Dio. Secondo san Tommaso, la creatura razionale è soggetta in modo più eccellente alla divina provvidenza rispetto alle altre creature, “[…] in quanto anche essa diventa partecipe della provvidenza, provvedendo a se stessa e agli altri: perciò si ha in essa una partecipazione della ragione eterna, grazie alla quale ha una naturale inclinazione all’atto ed al fine dovuti: tale partecipazione della legge eterna nella creatura razionale è chiamata legge naturale” (27).
3. La nozione di diritto naturale
Papa Giovanni Paolo II afferma solennemente nell’enciclica Veritatis splendor che la Chiesa ha assunto nel proprio insegnamento morale la dottrina tomistica di legge naturale (28). Il Pontefice Regnante richiama espressamente i princìpi essenziali della dottrina politica e giuridica della Chiesa, siccome nitidamente espressi da Papa Leone XIII nell’enciclica Libertas praestantissimum, secondo cui tanto la ragione individuale quanto la legge della comunità politica sono essenzialmente subordinate alla Sapienza di Dio e alla sua legge (29).
Il fondamento della normatività della ragione umana sta nella sua partecipazione alla legge eterna di Dio. Per Papa Leone XIII, infatti, “[…] questo medesimo comando e divieto dell’umana ragione non ha forza di legge, se non perché voce ed interprete di una ragione più alta, da cui la ragione e libertà nostra assolutamente dipendono” (30).
La forza della legge — secondo la dottrina della Chiesa — risiede nella sua autorità di imporre dei doveri, di conferire dei diritti e di dare la sanzione a certi comportamenti (31). “Ora — ricorda Papa Giovanni Paolo II citando Papa Leone XIII — tutto ciò non potrebbe esistere nell’uomo, se fosse egli stesso a darsi, quale legislatore supremo, la norma delle sue azioni” (32).
Ne consegue che “[…] la legge naturale è la stessa legge eterna, ossia la stessa eterna ragione di Dio creatore e reggitore del mondo, inserita nelle ragionevoli creature, e motrice di queste agli atti debiti ed al fine” (33). La forza della legge — il carattere della normatività — risiede nell’autorità di imporre doveri, conferire diritti e garantire la sanzione degli uni e degli altri. Il fondamento della normatività sta nella partecipazione della legge dell’uomo alla legge di Dio, così come il fondamento dell’autorità dell’uomo sta nel partecipare all’autorità di Dio, secondo il principio per cui ogni autorità sulla terra proviene da Dio.
Papa Leone XIII ribadisce nell’enciclica Diuturnum, fondando il suo insegnamento sull’autorità delle Scritture, la tesi tradizionale della Chiesa secondo cui “[…] il diritto di comandare deriva da Dio, come dal suo naturale e necessario principio” (34). A Pilato, che ostentava il proprio potere giudiziario, Gesù Nostro Signore rispose: “Non avresti potestà alcuna contro di me, se ciò non ti fosse dato dall’alto” (35). Come l’uomo non potrebbe comandare e imporre alcunché all’altro uomo se il suo potere non partecipasse al potere di Dio, così la forza della legge — la sua normatività — risiede nella partecipazione alla legge eterna di Dio.
Teoria politica e teoria giuridica sono — nella dottrina della Chiesa — indissolubilmente congiunte nel riconoscimento del primato di Dio sull’uomo e della eminente libertà della persona umana: è conforme alla natura razionale e libera dell’uomo che egli sia obbligato in coscienza a prestare rispetto e obbedienza alla legge soltanto se e nella misura in cui essa partecipi della razionalità che la rende congrua rispetto alla legge eterna di Dio.
Gli ordinamenti moderni non sono, propriamente parlando, ordinamenti giuridici — o lo sono soltanto in modo residuale e materiale, per quanto riguarda il contenuto di una parte delle norme che li compongono, nella misura in cui esse sono destinate comunque a regolare secondo le esigenze della giustizia la convivenza civile degli uomini —; non sono ordinamenti giuridici formaliter perché privi della nota della normatività, in quanto non sono incardinati nella legge naturale, che è la stessa legge eterna di Dio, insita negli esseri dotati di ragione.
V’è, invero, stretta analogia tra il significato della libertà rispettivamente per ciascun uomo e per la comunità sociale e politica. Insegna Papa Leone XIII: “Poiché ciò che in ciascun uomo opera la ragione e la legge naturale, è similmente operato nella società dalla legge umana promulgata a comun bene dei cittadini. Delle umane leggi alcune cadono su cose intrinsecamente buone o cattive, comandando quelle e vietando queste, aggiuntavi la debita sanzione. Ed è chiaro che tali comandi o divieti non hanno origine dall’umana società: la quale come non crea la natura umana, così non crea il bene che conviene, né il male che ripugna alla natura medesima: precedono invece la stessa società, e son dettami della legge naturale, e perciò della legge eterna” (36).
Estremamente significativo appare il fenomeno — cui assistiamo con crescente intensità nel momento attuale —, di smarrimento, da parte degli ordinamenti contemporanei, della stessa normatività materiale, come indifferenza dello Stato rispetto alla regola del giusto o addirittura come positivo contrasto delle leggi con il criterio della giustizia.
L’attenzione è attirata, tra tutti, dai casi della “legalizzazione” dell’aborto, alla cui stregua lo Stato ha tolto la protezione dovuta alla vita innocente nel grembo materno, e della “legalizzazione” delle convivenze omosessuali, su cui si è pronunciato il Parlamento Europeo l’8 febbraio 1994 (37), che costituirebbe la conclusione coerente di un lungo processo di aggressione contro la famiglia sul piano giuridico.
Per quanto preoccupanti siano i singoli casi — e tra tutti i più gravi sono la negazione del diritto alla vita e la negazione dell’istituto familiare come unione d’amore indissolubile di due persone di sesso diverso per la generazione e l’educazione dei figli — va ricordato che ancora più lacerante è la ferita inferta dagli Stati moderni al corpo sociale attraverso la negazione del fondamento del principio della normatività nell’autorità della legge eterna di Dio.
Questo solco è stato scavato progressivamente, nazione per nazione, con una serie di atti, di valore disuguale, ma ciascuno diretto contro il legame necessario tra la legge dello Stato e la legge morale.
La stagione culturalmente più significativa, politicamente più violenta e giuridicamente più incisiva in tale processo e, dunque, determinante per tutta la storia dell’Occidente europeo e, poi, del mondo intero, è quella dell’affermarsi e del dispiegarsi della rivoluzione detta francese, tanto nella fase “interna”, quanto nella fase di espansione al di là dei confini della terra di Francia, soprattutto attraverso l’opera militare e di legislatore di Napoleone Bonaparte: fu quella la stagione in cui venne proclamato legislativamente e attuato praticamente il principio, diametralmente opposto a quello della dottrina della Chiesa, secondo cui sarebbe l’uomo, o l’assemblea degli uomini, competente a darsi, quale legislatore supremo, la norma delle sue azioni (38).
Al termine di questa fase storica, contrassegnata dall’annientamento del principio della normatività, che in Italia si sviluppa attraverso il dispiegamento e la vittoria storica del cosiddetto “risorgimento”, che, sotto pretesto della realizzazione dell’unità d’Italia, svincola la legge dell’uomo dalla legge di Dio e intronizza una falsa idea di libertà (39), Papa Leone XIII, con l’enciclica Libertas praestantissimum, espone in modo organico la dottrina politica e giuridica della Chiesa, sottolineando la subordinazione essenziale della ragione e della legge umana alla Sapienza di Dio e alla sua legge, nonché il vero significato della libertà umana: provvidenzialmente l’Autorità magisteriale della Chiesa ripropone, in una vera e propria Summa politica di fronte al successo della rivoluzione, a futura memoria, i princìpi fondamentali dell’ordine giuridico e politico.
4. Le conseguenze dell’abbandono della “giusta misura”
Platone ne Il Politico, con profonda intuizione, osservava che la trascuratezza nei confronti della relazione di ciascuna cosa con la giusta misura porterebbe all’”annientamento” della politica, come di qualsivoglia altra arte. Gli ordinamenti post-rivoluzionari, a cominciare da quelli liberali, intronizzano positivisticamente il principio del primato assoluto della legge dello Stato indipendentemente dal suo contenuto e, prima ancora e soprattutto, indipendentemente dal suo fondamento nella legge eterna di Dio.
Il fondamento della normatività è così radicalmente negato e il diritto annientato in modo coerentemente consequenziale. Provoca stupore, in queste condizioni, non l’approvazione progressiva, in tutti gli ordinamenti, di norme materialiter contrarie al criterio del giusto, bensì la lentezza del processo e la resistenza opposta dalle società civili al rovesciamento degli assi del reale. Invero, l’annientamento del diritto, realizzatosi con la negazione della partecipazione della legge umana alla legge naturale che è la legge eterna di Dio, anticipa e pre-contiene integralmente lo svuotamento del contenuto giuridico materiale dei vari ordinamenti statali.
Nella prima metà del secolo XX la dottrina “pura” del diritto ha tratto le conclusioni teoretiche del processo compiuto, in una prospettiva cui non era affatto estraneo — attraverso la critica a qualsivoglia tentativo di relazionare la forma del dover essere al suo contenuto — il progetto inteso e sradicare dagli ordinamenti quanto materialiter continuava a sussistere in essi come diritto.
Assumendo l’ordinamento come un “sistema di norme generali ed invidivuali connesse fra di loro in base al principio che il diritto regola la propria creazione” (40), quindi affermando che “una norma appartiene a quell’ordinamento giuridico soltanto perché è stata creata in conformità al dettato di un’altra norma dello stesso ordinamento” (41), Hans Kelsen pretende di escludere dall’orizzonte del diritto ogni riferimento a ciò che è estraneo al puro processo normativo, e, in particolare, ogni riferimento al contenuto delle singole norme, secondo una valutazione concernente la loro conformità, o difformità, rispetto a ciò che è giusto.
Il processo di formalizzazione del diritto — coincidente con la separazione tematica tra normazione e giustizia — sfocia nella rivelazione del fondamento reale, anche se occultato, dell’ordinamento giuridico moderno; in tanto è ipotizzabile l’esistenza di un diritto puro, come mero processo di normazione positiva, indipendentemente dal suo contenuto, in quanto sia valida la cosiddetta norma fondamentale, la Grundnorm, la quale dovrebbe costituire l’unità di quel sistema di norme. Senonché, tale norma fondamentale in realtà non esiste, ma è soltanto postulata ipoteticamente per mascherare il soggetto — colui che detiene ed effettivamente esercita il potere — che sta alla base del processo di normazione positiva (42).
La conclusione di Hans Kelsen è coerente con il principio di separazione tra normazione e giustizia: l’efficacia è la condizione sine qua non della validità delle singole norme; l’ordinamento è valido se è “efficace”, cioè se le norme dell’ordinamento sono in generale obbedite da chi è soggetto (43).
Il grido empio è alla fine proclamato apertamente: il diritto non è ciò che gli uomini per generazioni e generazioni hanno chiamato diritto, bensì è esclusivamente potere, forza, coercizione, adeguatezza nel piegare le volontà e nell’uniformizzare i comportamenti. L’equivalenza tra normazione e potere segna l’annientamento del diritto e dell’autorità politica.
V’è corrispondenza in Hans Kelsen tra la negazione del diritto e la costituzione di una forma politica totalmente priva di riferimento all’autorità: come, nella dottrina della Chiesa, l’autorità viene da Dio e la legge umana si radica nella legge eterna di Dio, partecipata ab origine alla ragione dell’uomo, così, nella dottrina “pura” — cioè, empia —, del diritto, l’autorità non esiste, riducendosi alla mera designazione, di volta in volta, da parte della massa, organizzata secondo la legge del numero, di chi esercita la coercizione, e la legge umana si identifica nella forma del dovere — indipendentemente dal suo contenuto —, che sussiste in virtù del potere di chi comanda. Secondo il giurista viennese la democrazia è la migliore forma di governo perché essa costituirebbe il più efficace strumento di traduzione del relativismo etico sul piano giuridico (44).
Sostiene, invero, Hans Kelsen, in Vom Wesen und Wert der Demokratie: “Se io mi pronuncio a favore della democrazia, lo faccio esclusivamente […] a causa […] del legame che esiste fra una democrazia e una teoria relativista” (45). In Foundations of Democracy, Hans Kelsen afferma: “Che i giudizi di valore abbiano una validità soltanto relativa — principio basilare del relativismo filosofico — implica che opposti giudizi di valore non siano esclusi nè logicamente nè moralmente. Uno dei princìpi fondamentali della democrazia è che ognuno deve rispettare l’opinione politica degli altri, giacché tutti sono uguali e liberi. […] Se si riconosce […] che solo i valori relativi sono accessibili alla conoscenza ed alla volontà umana, allora è giustificato imporre un ordinamento sociale ad individui riluttanti solo se tale ordinamento è in armonia con il maggior numero possibile di individui uguali, cioè con la volontà della maggioranza” (46).
Il principio maggioritario, assunto in modo assoluto e senza alcun vincolo contenutistico, esprime puntualmente l’applicazione alla politica della legge quantitativa, che pretende di misurare il bene e il male con lo stesso metro con cui si misurano la lunghezza, l’altezza, la velocità e le altre grandezze meramente quantitative. La democrazia assoluta costituisce il tentativo di trattare la res publica con un criterio di misura meramente quantitativo: il numero più elevato decide in ogni situazione concreta della prevalenza di valori di volta in volta opposti. Nessun riferimento alla giusta misura è possibile, poiché il numero costituisce criterio della validità della normazione.
Rescisso, sul piano individuale, il rapporto di dipendenza della libertà dalla verità — rapporto che, come ricorda Papa Giovanni Paolo II, è stato espresso nel modo più limpido e autorevole dalle parole di Cristo: “Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi” (Gv. 8, 32) (47) —, sul piano politico e giuridico la contraddittorietà delle opzioni individuali, postulata come radicalmente insanabile, proprio per l’assenza di partecipazione della ragione dell’uomo alla ratio universale della legge eterna di Dio e per il carattere affatto opinabile delle scelte di ciascuno, viene artificialmente composta attraverso la legge cieca del numero.
La legge dello Stato, in tale modo, da strumento pratico che esprime e rivela il diritto, garantendo a tutti i membri della comunità politica i benefici inerenti alla naturale socialità dell’uomo, diventa essa stessa fonte esclusiva del diritto, trovando il fondamento della sua validità nel rispetto formale delle procedure previste per la sua entrata in vigore e nell’efficacia che riposa sulla forza (48).
La dialettica vitale tra legge e diritto, nello sforzo inesauribile di adeguare la prima al secondo, rivelativa della profondità etica e metafisica della dimensione giuridica e della centralità della virtù della giustizia nella vita sociale, svanisce progressivamente e cede il posto a una sequenza meramente temporale — tra ciò che appare prima e ciò che appare dopo —, che appiattisce la vita associata sull’unica dimensione di quel che sembra, in ciascun momento storico e per la generazione presente, socialmente utile e vantaggioso.
5. L’enciclica “Veritatis splendor”
Nel dialogo platonico Il Politico, il Forestiero, a un certo punto, si domanda perché mai sia necessaria l’opera legislativa se la legge non è una cosa al massimo grado giusta. La legge, infatti, proprio per la sua generalità e astrattezza, non potrebbe mai comprendere con esattezza quanto è migliore e insieme più giusto per tutti, impartendo le sue prescrizioni con assoluta giustizia (49).
Le leggi sono come appunti che un medico o un maestro di ginnastica, accingendosi a compiere un viaggio e a star lontano, per un tempo piuttosto lungo, dalle persone che ha in cura, scriverebbe per i propri malati o allievi, ritenendo che costoro non ricorderebbero i suoi precetti: ma la forza delle leggi non sta nel loro presentarsi come precetti, bensì nella loro idoneità a realizzare sempre una perfetta giustizia, secondo la ragione e l’arte, sì non soltanto da proteggere i cittadini, ma anche da farli “[…] da peggiori che erano […], per quanto è possibile, migliori” (50).
La legge della comunità politica non è mai qualcosa di massimamente e assolutamente giusto, proprio perché è la legge dell’uomo, e, dunque, è sempre perfettibile e bisognosa di adeguarsi all’ideale della giustizia, così come l’uomo, nello stato di pellegrinaggio sulla terra, può migliorare costantemente sé stesso, e non raggiunge mai lo stato di perfezione. La legge è come un ap-punto, come un viatico per il viaggio che la società instancabilmente compie: il suo modello è la legge eterna di Dio, la sua condizione di legittimità è il radicarsi in quella, senza pretendere di esaurirla. L’indifferenza verso di essa — o, peggio ancora, il suo rifiuto — segna l’annientamento del diritto.
Senonché, il grido empio da molto tempo lanciato si è fatto mentalità e costume: il diritto non esiste realmente; esso è mera forma che copre il potere; il fondamento del diritto non è la legge naturale bensì la idoneità del complesso di leggi che compongono l’ordinamento d’imporsi coercitivamente nei confronti della generalità dei soggetti. Il processo di svuotamento dell’ordinamento da ciò che permane materialiter come diritto progredisce nel tempo, attentando via via ai fondamenti del vivere associato, dal diritto alla vita, anzitutto, come diritto che tutti gli altri implica e presuppone, a tutti gli altri diritti fondamentali.
Non soltanto e non tanto appare necessario, in questa condizione, ribadire la doverosità, per l’ordinamento statuale, di rispettare i diritti fondamentali e di conformarsi al diritto naturale, quanto e soprattutto affermare ciò che da molto tempo è andato smarrito, cioè il legame di dipendenza della libertà — sia dell’uomo come singolo, sia dell’uomo come membro della comunità giuridica — dalla verità. L’enciclica Veritatis splendor di Papa Giovanni Paolo II interpreta, al tramonto del secolo XX e nell’attesa dell’alba del terzo millennio cristiano, i segni dei tempi, additando ai singoli uomini e alle società articolate in Stati non tanto quali siano i comportamenti da tenere in questa o in quell’altra occasione, quanto soprattutto lo statuto della vera libertà dell’uomo, che non è l’assoluto, da cui promanano come sorgente i valori (51), ma “segno altissimo dell’immagine divina” (52), che in tanto si attua e conduce l’uomo alla perfezione, in quanto si sottopone al primato della verità (53).
La domanda morale — insegna il Sommo Pontefice — non può prescindere dalla questione della libertà, giacché, se “[…] non si dà morale senza libertà” (54) — potendo “l’uomo […] volgersi al bene soltanto nella libertà” (55) —, non esiste vera libertà se non nell’adesione della volontà alla verità: “Se esiste il diritto di essere rispettati nel proprio cammino di ricerca della verità, esiste ancor prima l’obbligo morale grave per ciascuno di cercare la verità e di aderirvi una volta conosciuta” (56)! Non compete all’uomo il potere di decidere del bene e del male, poiché la sua libertà “[…] deve arrestarsi di fronte all’”albero della conoscenza del bene e del male”, essendo chiamata ad accettare la legge morale che Dio dà all’uomo” (57).
La legge di Dio non comprime la libertà dell’uomo, a guisa di un ostacolo che dall’esterno soffochi le potenze dell’anima, ma costituisce l’alveo nel quale essa trova alimento per la sua perfezione, sì da renderlo migliore da peggiore che fosse, secondo la sintesi platonica, ricordata. Il conflitto tra la libertà e la legge non sussiste ontologicamente e metafisicamente, perché la legge morale è la legge intrinseca della creatura voluta da Dio a sua immagine, e perché la libertà è la libera adesione dell’uomo alla legge della propria realizzazione e perfezione.
Il conflitto tra la libertà e la legge — continua Papa Giovanni Paolo II — è artificiosamente provocato da quelle “dottrine che attribuiscono ai singoli individui o ai gruppi sociali la facoltà di decidere del bene e del male“ (58), come se la libertà umana potesse “creare i valori” e godesse di un “primato sulla verità, al punto che la verità stessa sarebbe considerata una creazione della libertà” (59).
Tutta l’attenzione possibile va attirata sulla rigorosa analogia, espressamente enunciata dal Sommo Pontefice, tra i singoli individui e i gruppi sociali nella relazione rispettiva con la verità. Come la pretesa del singolo di “creare” autonomamente “valori” si esprime nella teorizzazione della “completa sovranità della ragione nell’ambito delle norme morali relative al retto ordinamento della vita in questo mondo” (60), nella relazione fra “un ordine etico, che avrebbe origine umana e valore solo mondano, e un ordine della salvezza, per il quale avrebbero rilevanza solo alcune intenzioni ed atteggiamenti interiori circa Dio e il prossimo” (61), così la pretesa delle società di “valorizzare” autonomamente, con segni di volta in volta positivi o negativi, a seconda delle convenienze contingenti del gruppo dei governanti o del maggior numero, ora questi ora quegli interessi, si esprime nella teorizzazione della “purezza” dell’ordinamento giuridico e nella separazione assoluta di quest’ultimo, che avrebbe origine umana e valore solo mondano, dall’ordine morale, che riguarderebbe esclusivamente i singoli, nelle loro opzioni etiche affatto autonome e indifferenti.
L’intreccio concettuale e lo sviluppo storico che ha condotto alla separazione dell’ordine politico e giuridico dall’ordine etico e quest’ultimo dall’ordine religioso è assai complesso e articolato. L’orizzonte intenzionale è sempre quello dell’orgoglioso rifiuto di obbedire al comando di non mangiare del frutto dell’albero del bene e del male, come pretesa di sostituire un ordine completamente e autonomamente umano all’ordine voluto da Dio, e, al limite, se ciò fosse possibile, di creare un “altro” mondo al posto di quello creato da Dio.
Sul piano storico, la separazione dell’ordine politico e giuridico dall’ordine etico, che si realizza in modo compiuto — formaliter —, con la teorizzazione della sovranità assoluta dapprima del principe e poi della legge (62), promuove e fomenta la tendenza alla separazione dell’ordine etico, valido per il singolo individuo, dall’ordine etico oggettivo, fondato sulla legge naturale e valido universalmente per ciascun uomo e in ogni tempo.
Il singolo uomo, infatti, trova nell’indifferenza o, addirittura, nella contrarietà del modello legale al principio morale, alimento pedagogico e sostegno psicologico all’orgoglioso rifiuto di far valere anche per sé, come legge di carattere universale, la legge morale che si presenta alla sua coscienza. Per altro verso, la frantumazione dell’ordine etico oggettivo in una miriade di universi soggettivi di “valori” (63), tanti quanto sono, al limite, gli individui, tende a rendere irreversibile la frattura fra ordine giuridico e ordine etico: la relazione armonica tra essi diventa, infatti, tanto più incomprensibile, quanto più è radicata la convinzione circa la relatività e la variabilità dei “valori” etici.
Trova origine, in questa situazione, la particolare difficoltà, nel tempo presente, della presentazione, e della successiva realizzazione, di una proposta politica conforme ai postulati del diritto naturale cristiano. Invero, la proclamazione della doverosità del rispetto, da parte dello Stato, della legge morale, appare, alla mentalità della maggior parte dei nostri contemporanei, doppiamente inaccettabile: una prima volta, essa sarebbe oppressiva, perché violerebbe la libertà di ogni singolo uomo, che in tanto sarebbe libero in quanto elaborasse da sé stesso una propria costellazione di “valori”; una seconda volta, il rispetto legislativo della legge morale violerebbe la libertà di tutti coloro, costituiscano essi maggioranza o minoranza, che si sono costruiti un universo di valori diverso e contraddittorio rispetto ai princìpi del diritto naturale.
Molto spesso anche coloro che aderiscono materialiter al dettame della legge morale si sentono a disagio nella presentazione e nell’attuazione di una proposta politica conforme al diritto naturale, poiché hanno smarrito tanto il senso dell’oggettività e dell’universalità della legge morale, quanto il senso della vera libertà, che risiede nell’adesione alla legge naturale, che è legge altresì dell’uomo, in quanto ab origine partecipata da Dio alla ragione umana.
6. Verità morale e martirio
Il Sommo Pontefice, cui ben è presente il desolante quadro delle legislazioni degli Stati contemporanei, soprattutto in tema di tutela del diritto alla vita e dei diritti fondamentali della famiglia (64), assume nell’enciclica Veritatis splendor nuovamente dalle fondamenta il tema del rapporto fra libertà dell’uomo e verità, fra primato della legge di Dio e legittima autonomia dell’uomo. “La vera autonomia morale dell’uomo — proclama Papa Giovanni Paolo II — non significa affatto il rifiuto, bensì l’accoglienza della legge morale, del comando di Dio. […]
La libertà dell’uomo e la legge di Dio s’incontrano e sono chiamate a compenetrarsi tra loro, nel senso della libera obbedienza dell’uomo a Dio e della gratuita benevolenza di Dio all’uomo. E pertanto l’obbedienza a Dio non è, come taluni credono, un’eteronomia, come se la vita morale fosse sottomessa alla volontà di un’onnipotenza assoluta, esterna all’uomo e contraria all’affermazione della sua libertà. In realtà, se eteronomia della morale significasse negazione dell’autodeterminazione dell’uomo o imposizione di norme estranee al suo bene, essa sarebbe in contraddizione con la rivelazione dell’Alleanza e dell’Incarnazione redentrice.
Una simile eteronomia non sarebbe che una forma di alienazione, contraria alla sapienza divina ed alla dignità della persona umana. “Alcuni parlano, a giusto titolo, di teonomia, o di teonomia partecipata, perché la libera obbedienza dell’uomo alla legge di Dio implica effettivamente la partecipazione della ragione e della volontà umane alla sapienza e alla provvidenza di Dio. Proibendo all’uomo di mangiare “dell’albero della conoscenza del bene e del male”, Dio afferma che l’uomo non possiede originariamente in proprio questa “conoscenza”, ma solamente vi partecipa mediante la luce della ragione naturale e della rivelazione divina, che gli manifestano le esigenze e gli appelli della sapienza eterna.
La legge quindi deve dirsi un’espressione della sapienza divina: sottomettendosi ad essa, la libertà si sottomette alla verità della creazione. Per questo occorre riconoscere nella libertà della persona umana l’immagine e la vicinanza di Dio, che è “presente in tutti” (cf. Ef 4, 6); allo stesso modo, bisogna confessare la maestà del Dio dell’universo e venerare la santità della legge di Dio infinitamente trascendente. Deus semper maior” (65).
Dopo aver illustrato, nel capitolo secondo dell’enciclica — che reca come titolo l’appello di san Paolo ai Romani (Rm. 12, 2) “Non conformatevi alla mentalità di questo mondo” — la relazione inscindibile tra verità e libertà, e aver sottoposto a critica le opinioni teologiche che mettono in discussione, erodono o addirittura negano tale fondamentale legame, Papa Giovanni Paolo II passa a trattare nel capitolo terzo, intitolato con la frase di san Paolo nella prima lettera ai Corinti (1 Cor. 1, 17) “Perché non venga resa vana la croce di Cristo” — profili più propriamente pastorali, mostrando come una rinnovata coscienza dei fedeli in ordine alla vera natura del bene morale sia indispensabile per la fioritura della nuova evangelizzazione e per lo stesso rinnovamento della vita sociale e politica.
Per illuminare i cristiani in ordine ai loro doveri di fronte al dettame inviolabile della legge morale, il Papa addita anzitutto l’esempio dei martiri, che hanno testimoniato con l’effusione del sangue la santità della legge di Dio e il suo primato su qualsivoglia potenza umana, alla luce del “rispetto incondizionato che si deve alle esigenze insopprimibili della dignità personale di ogni uomo” (66), esigenze che proscrivono senza eccezione alcuna il compimento di atti intrinsecamente cattivi. La testimonianza dei martiri dell’Antico e del Nuovo Testamento rammenta alla mente e ricorda al cuore che la salvezza individuale e la pace sociale risiedono nell’obbedienza perfetta alla verità e all’assolutezza dell’ordine morale.
Dalla casta Susanna che, resistendo alla pressione impura dei due giudici ingiusti, sceglie per se la “parte migliore”, preferendo “cadere innocente […] che peccare davanti al Signore” (Dn. 13, 22-23), a Giovanni Battista che, alle soglie del Nuovo Testamento, rifiuta “[…] di tacere la legge del Signore e di venire a compromesso col male”, immolando “la sua vita per la verità e la giustizia” (cfr. Mc. 6, 17-29); dai primi seguaci di Cristo, a cominciare dal diacono Stefano (cfr. At. 6, 8-7, 60) e dall’apostolo Giacomo (cfr. At. 12, 1-2), “che sono morti martiri per confessare la loro fede e il loro amore al Maestro e per non rinnegarlo” agli innumerevoli testimoni fino ai giorni nostri, “nel martirio come affermazione dell’inviolabilità dell’ordine morale risplendono — secondo le parole di Papa Giovanni Paolo II — la santità della legge di Dio e insieme l’intangibilità della dignità personale dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio” (67).
Deve rappresentare per i cristiani motivo di confusione e costituire per tutta la società stimolo alla conversione la constatazione drammatica che, laddove si è dispiegata un tempo con maggior frutto la parola rivelata di Dio — nell’Europa cristiana e nell’Italia culla del Papato — qui viene rigettato con sistematica protervia il fondamento morale dell’ordine giuridico.
Il dialogo vitale fra fede e ragione — che ha permesso ai nostri padri di comprendere che la legge non è uno strumento eteronomo di coercizione del volere, bensì la via per realizzare la piena libertà dell’uomo, siccome la legge eterna di Dio è partecipata alla ragione dell’uomo — deve essere ricostruito con rinnovato entusiasmo come condizione indispensabile per la nostra personale salvezza e per l’instaurazione di un ordine giuridico e sociale conforme al piano di Dio sulla storia dell’uomo.