Non è vero che l’eutanasia è un atto pietoso per far “morire senza dolore”, piuttosto è una scelta di carattere edonistico, legata ad un concetto arbitrario e contingente di “qualità della vita”
(seguono due testimonianze)
Eugenia Roccella
Il diritto a morire è legato al concetto di qualità della vita, come spiega benissimo lo stesso Welby nella sua lettera: «io amo la vita», scrive, ma la vita è «una donna che ti ama, il vento tra i capelli, una passeggiata notturna con un amico». Se non posso più avere nulla che mi dia gioia, nulla delle cose che danno un po’ di leggerezza al tempo che scorre, posso ancora ritenere che valga la pena vivere?
Simone de Beauvoir, alle soglie della vecchiaia, annotava: d’ora in poi, mai più passeggiate in montagna, mai più il contatto dolce di una mano d’uomo sulla mia pelle. Il corpo che ti abbandona, si degrada, va per conto suo, è la naturale preparazione a quella cerimonia degli addii che tutti dobbiamo affrontare.
Invecchiare e morire è sempre un affare un po’ indecoroso, un po’ umiliante, fatto di piccole e grandi incapacità, di pannoloni, sordità, rughe, denti finti. Se la vita e la sua qualità vengono identificate con la felicità e l’integrità del corpo, la delusione è immensa e inevitabile, perché siamo esseri umani che si degradano, si ammalano, perdono l’autonomia fisica, e infine muoiono.
Sì, mi obietterà qualcuno, ma ci sono delle soglie: c’è differenza fra la decadenza progressiva e lo scempio del corpo, tra la malattia che ti invade e ti devasta e una quota media di invalidità. Ma come stabilire dove si situa la soglia? La decisione individuale è fragilissima e fluttuante, tanto che chi fallisce un tentativo di suicidio raramente ci riprova; inoltre è un criterio che non tiene conto di chi non ha consapevolezza e voce in capitolo. Chi decide per le persone in coma, per i disabili gravi, o per chi è colpito da malattie degenerative che portano all’incoscienza, alla perdita di sé?
E chi può sapere, in una decisione così irrevocabile e definitiva, in cui non si possono ammettere margini di errore, se la persona che ha chiesto di morire, e magari ha steso un testamento biologico, lo vuole ancora, davvero, nei suoi ultimi istanti? Nel breve volgere di pochi attimi, la morte assistita si può trasformare in un’esecuzione.
Della morte non sappiamo niente, e pochissimo sappiamo anche dei malati ritenuti in condizione di incoscienza, tanto che una recente ricerca ha mostrato un’insospettata attività cerebrale in pazienti in stato vegetativo: sono persone che «sentono», che trattengono, in qualche remoto angolo della mente, emozioni, immagini e ricordi.
Tutti quelli che hanno avuto una persona cara in coma, conoscono bene l’ansia con cui si spia un segno, si cercano le tracce di un riconoscimento, un guizzo di coscienza, anche solo negli occhi; ora sappiamo che anche se quel segno tanto atteso non arriva, non è detto che ogni rapporto sia reciso, e che una carezza, una voce amata non suscitino una risposta silenziosa.
Stabilire criteri legati alla qualità della vita è terribilmente rischioso anche per quella sovranità individuale che si vuole affermare, e che si finisce per affidare comunque ad altri: ai legislatori, alla burocrazia, alla classe medica. Il solo limite su cui possiamo tutti concordare è quello del rifiuto dell’accanimento terapeutico, e forse su questo si può fare maggiore chiarezza.
Tutto il resto, cioè dolore fisico, sensazione di abbandono, difficoltà pratiche ed economiche per i familiari del malato, mancanza di attenzione per la sua dignità personale e le sue condizioni psicologiche, non portano all’eutanasia ma, molto più banalmente, a tentare di costruire un sistema sanitario migliore.
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Avvenire, 26 settembre 2006
«Alla diagnosi il mio primo pensiero è stato di cercare la morte Poi ho letto il Libro di Giobbe e ho capito quanto sia importante chiedere e ricevere aiuto, e poter ancora usare la propria testa»
da Pavia Daniela Scherrer
«Non so quanto andrò avanti ancora. Ma adesso mi reputo un uomo e un medico fortunato. Sono prigioniero di un corpo sempre meno autonomo, ma la mia testa funziona bene e mi consente di comunicare, anche se con fatica. E soprattutto di ascoltare i miei pazienti come uno che sta soffrendo come loro, di cogliere quella dignità dei malati che spesso noi medici tendiamo a porre in disparte».
Mario Melazzini, 48 anni, sposato da 23 e padre di tre figli, è primario del day hospital oncologico della Fondazione Maugeri di Pavia. Un incarico che continua a ricoprire, seppur con fatica crescente: da tre anni e mezzo è affetto da Sclerosi laterale amiotrofica (Sla).
La stessa di Piergiorgio Welby, l’autore della lettera al presidente della Repubblica che ha riaperto il dibattito sull’eutanasia: «Una malattia neurodegenerativa e progressivamente invalidante – spiega Melazzini – che con il tempo non permette più di muoversi, di parlare, di alimentarsi e di respirare in maniera autonoma mentre le capacità cognitive rimangono perfettamente intatte. Oggi mi trovo su una sedia a rotelle, tetraplegico, capace di muovere solo due dita della mano destra. Sono alimentato e ventilato artificialmente. Ma sono innamorato della vita, e sono riuscito a trovare un equilibrio che mi fa stare bene interiormente».
Tutte le mattine, aiutato dalla moglie e da una badante, raggiunge il suo ufficio di primario.Visita, detta diagnosi, ascolta quei pazienti che lo «aiutano tantissimo» – parole sue.Tutto questo fino alle 14. Poi, con un autista, parte alla volta di Novara dove impiega l’altra metà della giornata nella sede dell’Aisla (Associazione italiana Sclerosi laterale amiotrofica), di cui è presidente. E alla sera torna a casa.
I viaggi in auto gli consentono di riacquistare nuove energie. «Sono un po’ matto, lo so – sorride Melazzini – ma ci tengo troppo a portare avanti entrambi gli impegni: medico e rappresentante di un’associazione di cui sono fiero di far parte. Mi costa molta fatica, ma smetterò solo quando sentirò davvero di non farcela più».
Questo è il Mario Melazzini di oggi. Protagonista esemplare di una storia intrisa di caparbietà, coraggio e fede. Doni che gli hanno consentito di superare l’impatto emotivo devastante alla notizia della malattia. Impossibile nascondere la gravità della diagnosi a un paziente che è anche medico.
«Quando mi è stato detto che avevo la Sla, il mio primo pensiero è stato quello di cercare la morte – riconosce oggi -. Per un anno e mezzo ho avuto un chiodo fisso: ricorrere al suicidio assistito. Pensavo solo a me stesso, a un corpo che stava trasformandosi in semplice involucro, avevo abbandonato ogni speranza. Eppure, rispetto a oggi, riuscivo ancora a fare quasi tutto: camminavo, mangiavo, guidavo… Ma non sapevo cogliere la bellezza di quei piccoli gesti cui giorno dopo giorno ho poi dovuto rinunciare».
La rivoluzione di Melazzini avviene al termine di tre mesi trascorsi in totale solitudine.Tra le montagne. Leggendo e rileggendo il Libro di Giobbe, come gli aveva consigliato l’amico più caro, un gesuita. E proprio mentre cercava di allontanarsi il più possibile dalla vita ha trovato la forza di percepire quanto in realtà vi volesse restare aggrappato.
Torna a casa ad abbracciare la moglie e i figli: «Mi sono chiesto che cosa stessi facendo, se fossi impazzito. La cosa più bella, anche se difficile, è stata capire quanto sia importante chiedere un aiuto e riceverlo, anche se non riesci più a muoverti e fai fatica a respirare. Quella malattia che per un anno e mezzo avevo definito sfortuna mostruosa aveva saputo aprirmi gli occhi per comprendere la bellezza di poter ancora usare la propria testa, di riuscire a sentirsi utile agli altri. La preghiera e il confronto continuo con gli altri e con me stesso mi hanno aiutato a metabolizzare la sofferenza».
«Solo chi si trova nelle condizioni di Welby – spiega ancora il medico pavese – può capire intimamente certi suoi pensieri. Ho il massimo rispetto per quanto ha scritto». Melazzini però non ha dubbi: «Se le istituzioni vogliono affrontare in modo concreto i problemi toccati da Welby non possono non tenere in considerazione le condizioni in cui vivono le persone affette da patologie gravi che mantengono inalterate le funzioni cognitive. Malati prigionieri del proprio corpo, e dipendenti da macchine per poter vivere, vittime della mancanza di un’assistenza domiciliare qualificata. Gente che ha assoluto bisogno di essere assistita da personale preparato e di essere messa nelle condizioni di non gravare esclusivamente sulla famiglia. Solo così in futuro potranno diminuire i disperati appelli alla Welby: con il massimo rispetto per lui, penso alla quotidianità di tanti malati che non hanno la forza, la voglia, il supporto politico per far sentire la propria voce».
E all’esponente radicale malato di Sla Melazzini cosa direbbe? «Mi piacerebbe fargli capire che, pur prigionieri del nostro corpo, abbiamo la grande fortuna di avere una testa che funziona. Da esperienze come la nostra si possono trarre ricchezze addirittura impossibili da descrivere a parole. Penso alla riscoperta delle piccole cose, o alla vicinanza di chi ti vuole bene, che ti dà una forza incredibile».
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Avvenire, mercoledi 27 settembre 2006
Germana Lancia, 44 anni, vive su una sedia a rotelle. Sette anni fa scrisse a Ciampi di aiutarla a morire. Oggi, nonostante la gravità della sua situazione, è tornata a sorridere alla vita E in una nuova lettera incoraggia Webly a non mollare: «La vita può ancora darle tanto»
da Pescara Piergiorgio Greco
Più che una rumorosa rivendicazione di un presunto “diritto all’eutanasia”, quella lettera all’ allora presidente Carlo Azelio Ciampi voleva essere soprattutto uno sfogo.Lo sfogo di chi, dall’età di dodici anni alle prese con una terribile artrite reumatoide che poi per ben diciotto anni l’ha tenuta inchiodata ad un letto, avvertiva come ostile la società che la circondava.Lo sfogo di chi, quindi, chiedeva l’intervento del capo dello Stato per ottenere una sola cosa: un aiuto concreto per poter scegliere, se la sua condizione un domani fosse peggiorata, come e quando farla finita.
Oggi Germana Lancia, 44 anni di Roma ma originaria di Canistro (Aq), vive su una sedia a rotelle, lavora alla Sapienza, dove ha ideato uno sportello disabili divenuto un modello in Italia e, soprattutto, ha cambiato idea su quella sua richiesta a Ciampi datata 1999: «La vita merita sempre di essere vissuta», scrive in una nuova lettera, questa volta inviata a Piergiorgio Welby che, proprio come lei sette anni fa, ha chiesto al presidente della Repubblica di fare qualcosa affinché la “dolce morte” possa trasformarsi presto in un diritto per tutti.
«Signor Welby con il tempo ho rivisto le mie posizioni sull’eutanasia», inizia il messaggio con il quale Germana racconta che, a farla tornare ad amare la vita, sono stati il confronto anche duro con gli altri, la convinzione che nessun dolore è inutile e che, in definitiva, tutto accade per un motivo: «Le sembreranno luoghi comuni – scrive – ma a volte viviamo dolori di cui faremmo volentieri a meno per poi accorgerci che quel dolore è stato causa di una gioia immensa».
Tutti “luoghi comuni” che, in realtà, emergevano anche nella lettera a Ciampi, al punto che l’ex presidente, nella sua risposta – in forma privata – non esitò a rimarcare che nell’intervento di Germana Lancia «trovo molto di più, e di diverso, dalla rivendicazione del diritto di morire: tutta la tua esistenza, che è una lotta per affermare la tua voglia di vivere e il tuo diritto pieno alla vita, smentisce le tue parole e rinnega quella che tu stessa, riaffermando la tua fede in Dio, definisci una richiesta “mostruosa”».
«Se nel 1999 ci fosse stata una legge a regolare l’eutanasia – prosegue il messaggio a Welby – avrei arrecato molto dolore a chi mi ama, mi sarei preclusa molte gioie e soddisfazioni, avrei rinunciato ai miei sogni e ai miei desideri, alle mie speranze che hanno un comune denominatore: la libertà e la dignità delle persone disabili. Sarei un’ipocrita se le dicessi che la sua condizione è semplice, ma le dico che la vita può ancora darle tanto e lei può offrirle molto di più per cui la invito a pensare alle conseguenze della sua richiesta soprattutto per chi non è in grado di scegliere».