[Didaché IV, 2; CN ed., Roma 1978, pag. 32].
Nel 1862 un ricco possidente vietnamita, cristiano, venne arrestato in ossequio all’ennesimo editto persecutorio. Gli fu ingiunto di calpestare la croce in segno di abiura, ma rifiutò e venne esiliato. Secondo la legge doveva portare l’umiliante gogna di bambù dei reietti, massima vergogna per un asiatico appartenente al ceto elevato. Chiunque poteva insultarlo, sputargli addosso, tirargli zolle di terra. Dopo mesi di angherie d’ogni tipo, fu ancora richiesto di calpestare la croce e ancora rifiutò. Allora fu interrato fino al mento con la bocca piena di sale e sottoposto al crudele supplizio del sole.
La legge prevedeva un terzo tentativo, che fu effettuato questa volta non con tormenti ma con lusinghe. Solo che Domenico Mao targliò corto: forse l’onorevole prefetto credeva di trovarsi di fronte a un vigliacco, uno che il timore del dolore fisico o delle sofferenze morali o il desiderio di tornare in possesso dei suoi beni e della vita tranquilla poteva in durre a rinnegare pubblicamente il suo Dio; bè, si sbagliava.
A quel punto ebbe luogo un sommario processo, cui segui la prevista condanna a morte per decapitazione. E Domenico Mao andò ad aggiungersi allo sterminato numero dei martiri tonchinesi, in una comunità che, dalla sua fondazione nel XVII secolo a oggi, non ha conosciuto altro che orrori e persecuzioni.
Cosi il nome di Mao può tornare ad essere onorato, “coprendo” quello del cosiddetto “Grande Timoniere” che, a detta dei suoi biografi, cominciò a odiare Confucio all’età di otto anni. L’uomo che, dalla “lunga marcia” a Tien an Men, ha seminato la sua strada di cadaveri a decine di milioni, l’uomo ammirato dai “contestatori” del Sessantotto e perfino da John Lennon. Ma, grazie a Dio, c’è un altro “Mao”.
Il Giornale 16 giugno 1995