Il Corriere del Sud n.12/2012 – anno XXI – 31 ottobre 2015
don Roberto Spataro Sdb
Che cosa pensò “il più santo degli italiani e il più italiano dei santi” di quel vasto ed articolato processo storico che portò alla nascita dell’Italia unita? Considerando il suo ruolo pubblico e l’estensione della sua azione socio-educativa, fu il fondatore dei Salesiani, in qualche modo, partecipe degli avvenimenti risorgimentali?
“Eccellenza! Sappia che don Bosco è prete all’altare, prete in confessionale, prete in mezzo ai suoi giovani, e come è prete in Torino, così è prete a Firenze, prete nella casa del povero, prete nel palazzo del Re e dei ministri!” (cit. in G.B. Lemoyne). Con queste parole schiette e coraggiose, don Giovanni Bosco (1815-1888) intraprese la sua conversazione con Bettino Ricasoli, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia, nel dicembre 1866, quando fu ufficiosamente incaricato di appoggiare la missione diplomatica affidata al Commendatore Michelangelo Tonello per giungere ad un accordo tra lo Stato italiano e la Santa Sede a proposito delle numerose sedi episcopali vacanti, in pieno processo risorgimentale.
In queste parole si riassume l’attitudine assunta da don Bosco, cittadino piemontese fedele alla monarchia sabauda, prete cattolico fedelissimo al Papa, durante lo svolgimento del Risorgimento italiano che coincise, in buona parte, con la parabola della sua luminosa esistenza. Come suddito del suo Regno, don Bosco mostrò sempre attaccamento al Re e ne rispettò le decisioni, anche quando esse, ispirate al Liberalismo del secolo XIX, erano del tutto contrarie alle sue convinzioni.
Tale rispetto istituzionale, radicato in quell’equilibrio più complessivo tra fede e ragione che caratterizza il Cattolicesimo di don Bosco e ispirato da quell’atteggiamento prudenzialmente pragmatico che lo rese stimato e apprezzato anche dagli avversari, non gli impedì di prendere posizioni molto coraggiose. Nel 1855, per esempio, il Parlamento piemontese discuteva la famosa “legge Rattazzi” che prevedeva la soppressione di molti Ordini religiosi e l’incameramento dei loro beni. Don Bosco ebbe dei misteriosi sogni in cui un valletto di casa reale, in uniforme rossa, annunciava “grandi funerali a corte”.
Per mezzo di lettere affidate a personaggi altolocati egli fece pervenire un avvertimento al Re Vittorio Emanuele II: se egli avesse firmato quelle leggi inique, dei lutti avrebbero colpito la famiglia reale. Il Re ne fu turbato ed irritato. Ciò nonostante, le leggi passarono e furono promulgate con la sua approvazione. Nel giro di pochi mesi, cinque personaggi di casa Savoia morirono inopinatamente. Tra essi, la Regina Madre, Maria Teresa, e la consorte di Vittorio Emanuele II, Adelaide.
Don Bosco aveva una “teologia della storia” che oggi appare “politicamente scorretta”. Però è quella di un santo. E le sue profezie si avverarono. Non solo quella relativa ai “grandi funerali a corte” ma anche quella sul destino di Casa Savoia, la dinastia che, nel secolo XIX, avallò e promosse una legislazione anticattolica e filoprotestante, e invase lo Stato Pontificio più volte fino alla conquista di Roma nel 1870.
Secondo don Bosco, alla quarta generazione, essa si sarebbe estinta. Sappiamo come sono andate le cose: dopo il cosiddetto “Re galantuomo”, Vittorio Emanuele II, primo Re d’Italia, suo figlio Umberto I, morì nel 1900, vittima dell’odio anarchico in un attentato che scosse profondamente l’Italia; Vittorio Emanuele III, che nel 1943 fuggì ignominiosamente da Roma, prima dell’occupazione nazionalsocialista, fu costretto ad abdicare; alla quarta generazione, Umberto II lasciò per l’esilio l’Italia, diventata repubblica in seguito al referendum istituzionale del 1946.
Anche il Papa Pio IX confidava fortemente in quel prete piemontese, tenace e prudente, e nei doni che Dio gli aveva elargito. E a don Bosco il Papa si rivolse in un momento drammatico: il generale Cadorna aveva da poco occupato Roma, nel Settembre 1870. Che cosa fare? Molti insistevano perché il Papa, “prigioniero” a casa sua, abbandonasse la Città eterna, diventata insicura e pericolosa. Ma don Bosco, dopo aver lungamente pregato, fece sapere al Papa: “La sentinella, l’Angelo d’Israele si fermi al suo posto e stia a guardia della rocca di Dio e dell’arca santa”. Il Papa rimase a Roma.
Che cosa pensasse don Bosco della sottrazione del potere temporale del Papa lo scrisse in uno di quei suoi libri che ebbero una grandissima diffusione, nati per essere letti dai giovani e dal popolo, La Storia d’Italia. Egli scrive che il potere temporale era necessario per garantire la libertà e l’indipendenza della sua missione spirituale. Ecco le sue testuali parole, che si trovavano nella prima edizione del 1856, quando lo Stato pontificio esisteva, e conservate anche in quelle successive, quando esso era scomparso: “Il dominio temporale de’ Papi si può dire un dono fatto da vari principi, dono approvato e posto sotto alla tutela di tutti i governi cattolici, ed è perciò nell’interesse di tutta la Cristianità che il Papa viva tranquillo ne’ suoi Stati, affinché possa liberamente esercitare la suprema autorità di Vicario di Cristo”.
Principio inoppugnabile: a Costantinopoli, il Patriarca grecoortodosso per tanti secoli è stato considerato un funzionario imperiale. In tempi più recenti, il Patriarca russo-ortodosso di Mosca ha subito indegne umiliazioni per non scontentare i satrapi di turno, cioè i dirigenti del feroce Partito comunista sovietico.
Leggendo la Storia d’Italia di don Bosco si può conoscere il suo giudizio, estremamente negativo, per i moti d’indipendenza della prima metà del secolo XIX, promossi, a suo avviso, dalle società segrete e dai “filosofi” per perseguire due scopi del tutto inammissibili: il rovesciamento dei governi legittimi e l’anticlericalismo.
Essi erano accompagnati, come si dilunga a mostrare nel racconto degli avvenimenti dell’effimera Repubblica romana del 1848-49, da azioni delittuose e violenza efferata. Sulla Repubblica Romana così si esprime don Bosco nell’altra opera storica edita per l’istruzione popolare e dei giovani, Storia Ecclesiastica: “Per prima cosa quel governo impose tributi, spacciò un’immensità di carta monetata, si appropriò dei beni della Chiesa: campane, calici, pissidi, ostensori, turiboli, ogni oggetto d’oro o di argento che fosse nelle chiese era involato per far danaro. Vari sacerdoti e religiosi furono trucidati, dodici in un solo giorno pugnalati. Monasteri e conventi violati e profanati, e non pochi sacerdoti e religiosi barbaramente sgozzati” (p. 485).
Il velo sopra la barbarie scatenatasi durante il celebre triumvirato Mazzini-Saffi-Armellini venne squarciato in quegli anni anche dal romano Giuseppe Spada (1796-1867) che, ad esempio, dedicò un intero capitolo della sua Storia della rivoluzione di Roma (G. Pellas, Firenze 1868-1869) al tentativo di fare, nel 1849, sulla pubblica piazza, un falò dei confessionali asportati dalle chiese del centro di Roma. Scrisse infatti lo storico cattolico: «[…] altro e più grave episodio delle nostre storie ci si presenta, [che] viene a convalidare ciò che in altra parte de’ nostri scritti asserimmo circa il tentarsi dal Mazzini riforme anche in senso religioso […]. Egli è dunque a sapersi che il 20 maggio furono tolti parecchi confessionali dalle chiese di san Carlo al Corso e di san Lorenzo in Lucina. Vennero trasportati sulla piazza del Popolo e messi in ordine di parata, quasi che volessero bruciarsi. Non mancaron parole ed atti di scherno per parte di taluni contro il culto cattolico. Queste improntitudini però provocarono tale una disapprovazione nel popolo […]; sicché vennero ordini per soprassedere al mal riuscito esperimento» (G. Spada, Storia, vol. III, p. 555).
Lo Spada, don Bosco e tanti altri appartengono a quella schiera di cattolici intransigenti che condanna senza assoluzioni il Liberalismo del tempo. La maggior parte dei grandi simpatizzanti e benefattori di don Bosco appartengono al milieu dei cattolici conservatori, nemici del Risorgimento italiano.
Egli si distingue, però, per due caratteristiche. Anzitutto, è alieno da ogni intemperanza verbale. Nei suoi scritti che trattano degli avvenimenti legati al processo di unificazione dell’Italia, sono associate chiarezza di pensiero e moderazione nell’espressione. È la mitezza di un santo che, – e veniamo alla seconda caratteristica, consapevole dell’incontrastabilità degli avvenimenti, alla sterilità della protesta, preferisce la fecondità dell’azione.
Bibliografia:
don Giovanni Bosco, Storia ecclesiastica, 4a ed., Tip. dell’Oratorio di S. Francesco di Sales,Torino 1871;
Giovanni Battista Lemoyne, Memorie biografiche del venerabile don Giovanni Bosco, Edizione extra-commerciale, vol. VIII, Torino 1912;
Giuseppe Brienza , Uno storico della Roma di Pio IX. La vita e le opere di Giuseppe Spada (1796-1867), in Annali Italiani, n. 1, anno I, Milano gennaio-giugno 2002, pp. 67-143;
don Roberto Spataro Sdb, Don Bosco tra Risorgimento e Italia postunitaria, in Cultura & Identità. Rivista di studi conservatori, anno II, n. 7, Roma settembreottobre 2010, pp. 33-41.