Abstract: «In quel momento ebbi la percezione che Gesù stava così davanti a quelli che incontrava. Il male, il limite umano non è l’ultima parola, c’è qualcosa di più grande del male: lo sguardo di Gesù sugli uomini, su ciascun uomo a partire da me. È in quella imitazione dello sguardo di Gesù che ho percepito la sua santità».
Avvenire lunedì 15 aprile 2024
Nembrini: «Don Giussani ci ha insegnato a leggere il desiderio di felicità»
Il 9 maggio a Milano il primo atto della nuova tappa dell’iter che potrebbe portare sugli altari il fondatore di Comunione e Liberazione. Parla l’insegnante che è stato uno dei suoi discepoli
di Giorgio Paolucci
«Avevo 17 anni quando Giussani venne a casa nostra a Trescore Balneario (Bergamo) per dialogare con mia madre sulla vocazione di mia sorella Miriam che si preparava a entrare in un monastero benedettino. Mio fratello maggiore – eravamo dieci figli, una famiglia di fervente tradizione cattolica – aveva seguito la strada della contestazione studentesca ed era già fuori casa, la mamma confidò a Giussani il suo dolore perché aveva abbandonato la fede, e anch’io all’epoca ero pieno di dubbi.
Qualche giorno dopo arrivò un pacco indirizzato da Giussani a mio fratello, io cinicamente pensai: “Il solito prete che per recuperare la pecorella smarrita ha mandato qualche testo religioso, magari vite di santi”. Invece il pacco conteneva libri che appartenevano alla cultura marxista che mio fratello aveva abbracciato. Rimasi folgorato e pensai “quell’uomo ha a che fare con Dio, abbraccia la persona senza pretendere che prima cambi, per pura misericordia”
Fu l’inizio della mia “nuova” conversione, nel settembre del 1972 andai al raduno di Gs a Pesaro e da allora il movimento è diventata la mia casa». Sono passati 52 anni dall’episodio che ha segnato la vita di Franco Nembrini, un’esistenza vissuta intensamente tra scuola, giovani, immersioni nella letteratura e produzioni di successo come testimoniano i libri e i programmi televisivi dedicati a Dante, al Pinocchio di Collodi, al Miguel Manara di Milosz.
Lei è divenuto discepolo di Giussani, oggi è tra i responsabili di Cl e ha grande familiarità con le tematiche giovanili. Cosa è cambiato rispetto ai ragazzi che quel giovane sacerdote incontrò negli anni ‘50 al liceo Berchet di Milano?
In passato ogni generazione entrava in conflitto con la precedente in forza di un giudizio che potremmo sintetizzare in questa frase: loro hanno fallito, noi cambieremo questo mondo sbagliato. Oggi molti giovani partono dalla stessa analisi ma concludono dicendo “anche noi siamo sbagliati”. È come se si sentissero colpevoli di essere nati: la diffusione di psicofarmaci, le patologie legate ai disturbi dell’alimentazione, le forme di autolesionismo sono manifestazioni di un male di vivere, di chi non si stima perché non si sente amato. Per questo ha bisogno di un abbraccio di misericordia, come è accaduto a me quando avevo 17 anni. In questo senso non trovo differenze sostanziali tra i ragazzi del Berchet e quelli che incontriamo oggi: tutti cercano uno sguardo da cui sentirsi voluti bene, è questa la vera risorsa per rimanere attaccati alla vita. Servono adulti che lo sappiano comunicare.
In che modo il carisma del movimento è capace di affrontare le sfide della modernità?
Scommettiamo sulla certezza che nel cuore di ogni uomo abita un desiderio di felicità che cerca compimento. Giussani ci ha testimoniato che questa è la posizione di partenza per maturare un’intelligenza adeguata ad affrontare i problemi del mondo, ci ha fatto innamorare dell’avventura conoscitiva e scientifica e ci ha insegnato a lanciarci nel mondo con quella che chiamava “ingenua baldanza”. Le parlo del mondo dell’educazione, che conosco bene: c’è una moltiplicazione di pubblicazioni e convegni sull’emergenza educativa, che si concentrano sulle “questioni seconde” senza affrontare il cuore della questione educativa, che deve fare i conti anzitutto con l’incontro con un maestro che offra un’ipotesi di affronto della realtà con cui misurarsi.
Il movimento ha messo all’ordine del giorno il valore dell’unità. Perché lo considerate un punto decisivo?
La prima unità è quella che vive dentro la persona, un “io” unito è capace di collaborare all’unità della società e della realtà. Nel trentatreesimo canto del Paradiso, Dante dice che tutto gli appare “squadernato” – cioè diviso, incomprensibile – ma trovandosi al cospetto di Dio, fissato lo sguardo sul “bene sommo”, vede la realtà “legata con amore in un volume”, cioè ricapitolata in unità. E chi ha questo sguardo sulla realtà fa di tutto per contribuire all’unità degli uomini, per costruire amicizia e pace. L’unità è un dono che si riconosce e si dona al mondo, prima che l’esito di una strategia.
Non le chiedo di anticipare il giudizio della Chiesa, ma in che senso per lei Giussani è un santo?
Racconto un episodio che mi ha segnato. Nel 2003 in Sierra Leone avevo incontrato padre Berton, un missionario impegnato per il recupero dei bambini soldato, e andai da Giussani per parlarne. Mentre raccontavo della dedizione di Berton per quelle giovani vite mandate a morire, della loro sofferenza e del dolore provocato in me dall’avere visto quella situazione, lo vedevo immedesimarsi nelle cose che gli andavo dicendo come se la sua persona ci fosse fisicamente dentro, con una partecipazione totale e commossa. In quel momento ebbi la percezione che Gesù stava così davanti a quelli che incontrava. Il male, il limite umano non è l’ultima parola, c’è qualcosa di più grande del male: lo sguardo di Gesù sugli uomini, su ciascun uomo a partire da me. È in quella imitazione dello sguardo di Gesù che ho percepito la sua santità.
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