28 Agosto 2014
A Napoli si è svolta una cerimonia pubblica per commemorare il 215° anniversario del “martirio” dei primi otto “patrioti” napoletani autori della rivoluzione giacobina del 1799. Tra questi, la celebre Eleonora Pimentel de Fonseca. Celebrata come martire della libertà. Un vero falso storico.
di Rino Cammilleri
La notizia: a Napoli il 20 agosto u.s. si è svolta una suggestiva cerimonia pubblica per commemorare il 215° anniversario del «martirio» che soffersero i primi otto «patrioti» napoletani autori della rivoluzione giacobina del 1799. Tra questi, la celebre Eleonora Pimentel de Fonseca.
La corona di fiori è stata deposta in Piazza del Mercato, dove sorgeva il patibolo per quei «libertari». Con l’occasione è stato istituito un premio giornalistico al femminile per ricordare la Pimentel, «che diede la sua vita» per la causa. Il tutto -ha detto l’assessore alla cultura- «ha un valore enorme sia dal punto di vista culturale che civile perché (…) i valori dell’Illuminismo, dei diritti, della libertà e della giustizia sono gli unici attorno a cui possiamo pensare di ricostruire una via di possibile salvezza per il mondo contemporaneo che vive momenti molto angoscianti di sonno della ragione» (con i puntini tra parentesi abbiamo evitato al lettore il tedio di una lunga tirata retorica da discorso ufficiale).
Ora, lasciamo da parte per una volta la città di Giggino -la più problematica d’Europa e con una lunga serie di primati negativi- la cui amministrazione allegramente perde tempo e denaro con circenses come concerti rock, nozze gay e commemorazioni inutili come questa: di certo ci avranno pensato i disoccupati, le vittime della camorra e della microcriminalità, i neoborbonici (numerosi da quelle parti) a far sentire il loro rumoroso parere alla premiata giunta De Magistris.
Noi ci limitiamo a osservare le incongruenze del discorso strampalato dell’assessore «alla cultura». Il «sonno della ragione» a cui si fa cenno è il titolo di un celebre disegno di Goya che proprio contro l’Illuminismo era diretto, quell’Illuminismo che di «diritti» e «libertà» si riempiva la bocca ma avanzava sulla punta delle baionette francesi e aveva come simbolo la ghigliottina.
Esageriamo? No: nel 1989 la Francia festeggiò il Bicentenario della Rivoluzione e un’indagine statistica evidenziò che la prima cosa che la parola «Révolution» faceva venire in mente agli intervistati era, appunto, la ghigliottina. Per quanto riguarda i «patrioti» non erano che collaborazionisti degli invasori francesi, «giacubbini» (come li chiamava il popolo) entusiasti delle nuove idee robespierriane.
La Pimentel era una parvenue portoghese che la regina aveva preso sotto la sua protezione e, per assicurarle un titolo, aveva appioppata a un vecchio marchese. Costei era diventata una delle più accanite tra i giacobini napoletani, si esibiva in teatro nei tableaux vivants che celebravano la rivoluzione, ballava attorno agli «alberi della libertà» e aveva addirittura fondato un giornale dal titolo significativo, «Il Monitore».
Era uno dei tantissimi «monitori» che i giacobini di tutta Europa avevano creato per ammaestrare il popolo bue. Lei lo riempiva praticamente da sola, infarcendola di vituperi per la sua ex benefattrice («tribade impura» era uno dei più forbiti).
Quest’ultima, sorella di quella Maria Antonietta che i giacobini avevano ghigliottinato, quando poté tornare dall’esilio non ebbe alcun riguardo con i traditori. I quali non avevano esitato a sparare sui lazzari napoletani che si battevano disperatamente contro i francesi.
Quando Napoli fu liberata dai Sanfedisti del cardinale Ruffo, quest’ultimo raccomandò moderazione con i giacobini locali e ne chiese l’amnistia. Fu l’ammiraglio inglese Nelson, di cui la corte borbonica era praticamente ostaggio, a non volerne sapere.
Così, Eleonora Pimentel de Fonseca venne impiccata nella Piazza del Mercato, luogo delle esecuzioni capitali. Tanto era il favore che si era guadagnato con le sue «monizioni» nel popolo napoletano che questo –come suo solito- le dedicò un epitaffio in musica: «Aro’ è gghiuta donna Lionora c’abballava ‘n copp’o tiatro? Mo’ abballa ‘n miezz’o mircato cu’ masto Donato».
Mastro Donato era il boia di Napoli e la Pimentel non «diede la sua vita»: gliela prese lui in base alla legge. Sì, perché i «patrioti» erano i lazzari che difendevano la loro patria, non i giacobini che parteggiavano per gli invasori. Se la regina Maria Carolina avesse dato retta al cardinale Ruffo, oggi non ci sarebbe alcun «martire» da commemorare in una città che non riesce nemmeno a liberarsi della «monnezza» e che, perciò, avrebbe cose molto più serie di cui occuparsi.
Certe cerimonie di parte, oggi come allora, riguardano una sparuta minoranza di intellettuali che, giacobinamente, si ritengono gli unici depositari della verità storica solo perché, magari, possono ammannirla dalla prima pagina del «Corriere della Sera».
Come, all’epoca del Bicentenario, fece Maria Antonietta Macciocchi (ex Pci, poi Partito radicale), la quale si stracciava le vesti perché la povera Eleonora era stata giustiziata senza mutande onde gratificare dello spettacolo la plebe. Naturalmente non era vero, anche perché l’impiccato cadeva in una buca ricavata sul palco della forca e non certo sulle teste della gente assiepata sotto.
Ma ancora oggi gli intellettuali giacobini sono come quelli del pimenteliano «Monitore» quando il popolo era illetterato. Anche i salotti «rossi» sono gli stessi, così come le contesse e le marchese pro-rivoluzione. Solo che adesso il loro compito è più difficile e le loro fesserie storiche devono infilarle nei sussidiari scolastici, cosa molto più elaborata da farsi.
Certo, qualcuno che ancora ci casca lo si trova sempre. Ma basta fare un giro per via San Giovanni dei Librai –dove i titoli filoborbonici riempiono le vetrine- per constatare che ormai a Napoli più nisciuno è fesso.